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Maria Pia Guermandi
La libertà dei valori e la democrazia dei diritti
26 Giugno 2006
Maria Pia Guermandi
Molto ho contestato, al suo autore, l’uso reiterato...

Molto ho contestato, al suo autore, l’uso reiterato del termine ‘valore’in uno degli ultimi eddytoriali, ripescando a memoria dalle lucidissime lezioni sulla laicità di Carlo Galli: “chi parla di valori cerca qualcuno a cui rompere la testa. Il termine ‘valore’ è polemogeno”.

Sarà perché nelle ultime settimane è rimbombato con troppa assiduità sulle cronache nazionali soprattutto per le continue esortazioni di un autorevole transtiberino e locali, per la ripresa dell’offensiva sulla legalità da parte di Cofferati, con la quale il nostro sindaco ha finalmente riconquistato le prime pagine nazionali. Nelle ultime settimane, con nuovo vigore dopo i clamori autunnali, ormai ogni giorno si succedono i suoi diktat e si rincorrono amplificati sulle cronache di una città ormai avviata ad un sonnacchioso destino di paesone provinciale a cui non si rassegna. Divieti, sgomberi, chiusure di centri sociali e di nuovo quel vessillo agitato a suggellare un nuovo rinascimento (sic!) urbano: la legalità.

La legalità come valore in sé, dunque: trasversale, nè di destra, nè di sinistra.

La questione, che aveva fatto irruzione nel dibattito politico nazionale alcuni mesi prima delle elezioni, non meriterebbe una ripresa, se non fosse che dietro questo vessillo ideologico si sono accasati settori ormai maggioritari del centro sinistra e la partita in gioco non appare in realtà limitata ai problemi di sicurezza urbana.

Negli episodi bolognesi i poveri, gli emarginati o semplicemente coloro che propongono un uso diverso delle strutture urbane sono colpiti in quanto illegali: di una illegalità palese e a volte provocante che in ampie aree sociali ha creato un consenso diffuso al richiamo alla legalità come valore non discutibile. Anche qui, come in molte situazioni a livello globale, dietro l’apparente neutralità ideale vi è una sostanziale scelta sociale. Che consiste nel tentativo di circoscrizione, di espulsione, in una parola di rimozione, della società marginalizzata. Di quelle figure sociali che Zygmunt Baumann ha definito come gli ‘scarti umani’ prodotti in misura sempre più ampia dalla globalizzazione economica e da un modello di ordine sociale sempre più selettivo. Consegnati (ma non sempre, ma non tutti) alla comprensione della carità, ma di fatto estranei alla rappresentanza politica. Si tratta, qui a Bologna come ormai in tante città del civilissimo Occidente, del tentativo del tutto velleitario, ma tenacemente perseguito, di governare su base locale un fenomeno globale. Con modalità scopertamente repressive, ma non solo: a Bologna come nella maggioranza delle nostre città alcune fasce sociali vengono tagliate fuori dai contatti con la città tramite specifiche politiche immobiliari (la ‘riqualificazione speculativa’, è stata chiamata), ma a Bologna, diversamente che altrove, le zone ‘illegittime’ non sono solo relegate alla periferia. Anche per peculiari caratteristiche urbanistico architettoniche (i portici) e per la presenza di un Ateneo ancora in massima parte collocato intra moenia, il centro della città dapprima esautorato progressivamente dalle funzioni amministrative e abitative è ora invaso, soprattutto in talune aree o periodi del giorno, dall’onda di ritorno della marginalità. E l’unica soluzione proposta dagli organi di governo per opporsi al ‘degrado’ consiste in provvedimenti repressivi, nell’apertura di nuovi esercizi commerciali e nella programmata trasformazione del centro storico in un luna park della cultura, uno degli esempi di quella che Wenders chiamava ‘confetteria urbana’.

Nello stesso orizzonte semantico si collocano d’altronde le ultime notizie riportate con neutralità cronachistica sugli organi di stampa: a Napoli percorsi protetti per i turisti sono stati predisposti dai pubblici amministratori, a ribadire una suddivisione fra la città di serie A, sicura, pulita, ordinata ed esteticamente apprezzabile e una di serie B, dove a chi è costretto ad abitare o a lavorare, tutto può succedere. Si porta qui alle estreme conseguenze un fenomeno al contempo sinistro e velleitario di suddivisione della città in aree privilegiate che già aveva trovato espressione negli episodi della ‘metropolitana per l’arte’ coi quali, attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte, il valore del bello, appunto, di fatto si sanciva esteticamente la fine della città, trasformata da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti. E in cui il diritto alla sicurezza è garantito solo ad una categoria di cittadini, o meglio di consumatori (e che altro sono i turisti se non i consumisti per eccellenza?).

Davvero le città di quarzo di Mike Davis non sono poi così lontane.

Città dove l’ineguaglianza, insomma, è sancita da chi le governa in nome della legalità.

Senza riprendere posizioni già espresse a suo tempo in questo sito, basti ricordare come qualche mese fa, Gustavo Zagrebelsky così concludeva una autocritica per aver isolato, in un precedente intervento, la legalità nel mondo del diritto positivo: “il primo compito di chi agisce per la Costituzione è per l’appunto di trascendere l’artificio per trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società”. Il problema non è l’affermazione astratta di un principio (di un valore), ma la costruzione di una pratica capace di adeguare il diritto alla realtà. Così mentre i valori tendono ad essere statici, decisi una volta per tutte, la legge, storicamente determinata, in quanto tale può e deve evolversi perché la legalità aspiri alla legittimità.

Eppure in questa tensione fra legge e diritto vasti settori della così detta sinistra stentano a trovare soluzioni che non siano palliative, quando non apertamente repressive dell’area della marginalità che si va allargando e, ormai troppo spesso, si pongono al contrario al servizio di una legalizzazione progressiva dei meccanismi dell’emarginazione: nelle città come sul lavoro.

In una recentissima intervista alla Stampa, Walter Veltroni ha ribadito la correttezza di impostazione e la necessità della legge Biagi. Talune delle forme contrattuali sancite dalla legge 30, fino a pochi anni fa, erano illegali per uno dei diritti del lavoro più avanzati al mondo: non possiamo più permettercelo, ci viene detto. Con ciò ribadendo non solo l’idea che sia tramontata per sempre l’epoca dello stato sociale, ma con essa anche l’idea che i soggetti collettivi abbiano la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo e impersonale e di guidarlo nella direzione desiderata.

La flessibilità è un termine ingannevole (come quello della sicurezza): significa prima di tutto inflessibilità del capitale a negoziare e a fare compromessi. Come ci ha insegnato ormai trent’anni fa Richard Sennett, l’uomo flessibile è solo più fragile e meno consapevole, più incapace di rivendicare i propri diritti. Perchè la soluzione proposta, anche in questo caso, sta in un arretramento sul piano dei diritti. E la lotta per i diritti è lastricata di illegalità.

Nelle città, come sul lavoro si sta giocando, adesso, una partita non tanto a favore o contro la legalità, la flessibilità, la sicurezza, la competitività ma per restringere o allargare (mantenere) gli spazi di democrazia reale.

E occorrerà ribadire agli smemorati, impauriti rappresentanti della nostra parte politica che democrazia e liberalismo non sono affatto sistemi equivalenti come acutamente sottolineava, già negli anni ’30, Carl Schmitt poiché la prima è un’ideologia di eguaglianza e l’altro della differenza. Se la sinistra non è solo un modo di osservare il reale ‘ideologicamente’ cioè con falsa coscienza, ma un diverso sguardo sul mondo, il cui obiettivo finale è l’uguaglianza conseguita attraverso il progressivo allargamento della sfera dei diritti, allora questo sguardo è per sua natura fazioso, non neutrale, perché critico. E culturalmente agguerrito, molto più di quello che è accaduto sinora, perché se questa è una prospettiva di lungo periodo bisogna cominciare da adesso non solo ad opporre una resistenza, ma a costruire proposte alternative credibili anche nel breve-medio termine.

Quello che è in ballo è la capacità della nostra rappresentanza politica di affrontare gli sconquassi del mondo e proporre soluzioni diverse.

Anche per quanto riguarda l’urbanistica.

Certo l’alterità del caso europeo, come ribadiva De Lucia in una recente intervista, è evidente rispetto alle forme inquietanti di urbanizzazione, ad esempio del sud–est asiatico, ma se ci limiteremo a tutelare le nostre città con divieti, espulsioni e CPT non faremo che riaffermare la nostra marginalità culturale anche di fronte alla comprensione dei fenomeni urbani (e per che cosa poi, per l’estetica dei nostri centri storici?). Anche l’urbanistica ha bisogno di una nuova stagione di impegno politico se vuole rendere credibile e perseguibile la pratica democratica della pianificazione pubblica come mezzo per il raggiungimento dell’uguaglianza.

Altrimenti all’affermazione che comunque “l’aria delle città rende liberi” si potrà continuare a contrapporre la famosa risposta di Lenin: “Libertà sì, ma per chi? E per fare cosa?”

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