"L’indignato speciale", come veniva chiamato per le sue inchieste a tutela del territorio, già negli anni Cinquanta denunciava il "sacco di Roma"
Il suo modello erano le città del Nord Europa come Stoccolma o Amsterdam dove si costruiscono quartieri esemplari non per speculazione
L’Appia Antica, dove ora un casale ospita il suo centro di documentazione, è uno dei fili rossi che tiene insieme tutta la sua attività
Antonio Cederna torna sull’Appia Antica. Le sue carte, a più di dieci anni dalla morte, sono da oggi sistemate a Capo di Bove, in un casale che lo Stato ha acquisito nel 2002, a cinquecento metri dal Mausoleo di Cecilia Metella. In questa villa, dove gli scavi della Soprintendenza archeologica di Roma hanno portato alla luce un complesso termale del II secolo dopo Cristo, sorgerà un centro di documentazione che avrà come fulcro l’archivio che la famiglia Cederna ha donato alla Soprintendenza. E’ un archivio fatto di libri e poi di appunti, lettere, ritagli di giornale, documenti, che potranno essere consultati anche in rete: quasi cinquant’anni di battaglie, una storia della tutela e dell’urbanistica italiane vista da un protagonista di entrambe, che dal Mondo di Mario Pannunzio e poi sul Corriere della Sera, sull’Espresso e su Repubblica e, ancora, nei libri I vandali in casa, Mirabilia urbis, La distruzione della natura in Italia, Mussolini urbanista, fece la cronaca delle malversazioni subite dal territorio italiano, raccontò l’anomalia di un paese che, crescendo, dissipava la sua più grande risorsa. (L’archivio viene presentato oggi alle 10,30 a Capo di Bove, via Appia Antica 222, da Angelo Bottini, Rita Paris, Maria Pia Guermandi, Giovanni Bruno e Stefano De Caro).
Cederna, scomparso nell’agosto del 1996, raccoglieva in migliaia di cartelline il materiale che serviva per i suoi articoli. Aveva uno scrupolo dell’accertamento che sfiorava l’ossessione. In un fascicolo sul sacco edilizio di Monte Mario a Roma, dove si scatenò la Società Generale Immobiliare, sono conservati gli appunti delle riunioni dei consigli comunali che nei primi anni Cinquanta votavano le autorizzazioni a costruire. E fra le carte spunta anche lo schizzo di una piantina con la sagoma inquietante dell’Hotel Hilton, che sarà costruito nel 1960, circondato dalla selva di palazzine che gli avrebbero fatto da corona sui terreni che l’enorme albergo - centomila metri cubi - avrebbe valorizzato.
Un caso di scuola della speculazione romana viene rivissuto passo dopo passo.
Ma in una cartellina compare anche il dattiloscritto di una poesia datata 1964 e poi pubblicata, seppure in una versione leggermente diversa, in Brandelli d’Italia, un libro del 1991. Si intitola "A un architetto impegnato". E’ un epigramma, ha un tono burlesco. Cederna fornisce di sé un’immagine diversa da quella accigliata che gli è spesso attribuita e che gli valse il nomignolo di «indignato speciale». E’ dedicata a un architetto comunista, qui indicato come Paolo Cordini (ma è un nome di fantasia), il quale considera «i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi / oppio capitalistico / per la povera gente». A lui, invece, piacciono «coree, bidonville e borgate / le palazzine e le palazzate», perché solo vivendo in casermoni «senza prati né campi sportivi», si prendono «scoliosi e paramorfismi» che spingono «a salutari estremismi» e sono «garanzia di rivoluzione».
E’ un Cederna al quale si è poco abituati, radicale, ma avversario di quell’atteggiamento sintetizzabile nel «tanto peggio tanto meglio». La poesia è un piccolo manifesto anti-ideologico: Cederna non bandisce l’architettura moderna. Il suo modello sono le città del Nord Europa - Stoccolma, Oslo, Copenhagen, Amsterdam, Rotterdam - dove si costruiscono quartieri esemplari, in un contesto politico che va dal liberalismo alla socialdemocrazia, ma non frutto della speculazione che invece deforma il moderno a Roma e altrove, dove si sventrano i centri storici e li si caricano di funzioni alle quali non sono adatti e si allestiscono in periferia insediamenti inospitali, dormitori senza alcun pregio.
La conclusione della poesia è bruciante: «Da dialettico scaltro / tu dici sempre che il discorso è un altro: / e infatti invece di Pietralata / in fondo al cuore ti sta l’Olgiata» (Pietralata è un rione popolare di Roma, l’Olgiata l’emblema del quartiere di ville per ricchi).
L’Appia Antica è uno dei fili rossi che tiene insieme tutta l’attività di Cederna (altro nomignolo per lui: «l’appiomane»), dai primi anni Cinquanta fino alla morte, che lo coglie mentre è presidente dell’Azienda consortile per il Parco dell’Appia. Ed è quasi naturale, meglio, una specie di nèmesi, che le sue carte siano destinate in questa villa, una di quelle che Cederna descriveva negli articoli sul Mondo («I gangster dell’Appia», «La valle di Giosafat», «Lo stadio sulle catacombe».) - le «ville canili» che i proprietari negli anni Cinquanta decoravano incassando nei muri di cinta o nelle facciate pezzi di sarcofago, lapidi e iscrizioni.
All’Appia Cederna dedica un’attenzione costante. La tutela di quell’area, dei suoi valori archeologici e di paesaggio, non è solo dettata da ragioni di conservazione di un patrimonio che nessun’altra città al mondo può vantare. Le ragioni di salvaguardia dell’antico basterebbero, ma ad esse Cederna affianca motivi urbanistici. Ai suoi occhi una città per essere davvero moderna e per funzionare bene deve rispettare quei duemilacinquecento ettari di verde e di reperti antichi che si infilano fino al centro della città e che interrompono l’espansione «a macchia d’olio» dei quartieri. L’Appia Antica (di cui Cederna sottolineerà sempre il destino riservatole a partire dal 1965, quello di diventare parco pubblico) si oppone all’espansione di Roma verso il mare e verso i Castelli - «una spinta artificiale», la definisce - voluta dagli interessi della proprietà fondiaria. I vandali sono coloro che distruggono l’antico, spiega Cederna, ma il vandalismo, specialmente negli articoli dedicati all’Appia, è sempre l’antitesi della modernità.
«Espandendo Roma verso il Sud si fa piazza pulita dell’ultima campagna romana, che il buon senso, nonché le regole elementari dell’urbanistica, consigliavano di salvare come la pupilla degli occhi, e si dà l’ultimo tocco alla distruzione di tutto il verde intorno a Roma, da anni metodicamente perseguita, con grande vantaggio economico di alcuni latifondisti periferici, principi decaduti, appaltatori di immondizie, imprenditori e pie società immobiliari»: Cederna lo scriveva in «Lo stadio sulle catacombe».
Era l’ottobre del 1955 e Roma, grosso modo, occupava un quinto del suolo che occupa oggi.