A un architetto impegnato
Stolto Paolo Cordini
sinistro intelligente
che consideri i pubblici giardini
olandesi svizzeri svedesi
danesi tedeschi inglesi
oppio capitalistico
per la povera gente,
da bravo architetto italiano
tu passi impassibile in mezzo al Tuscolano,
ami viale Marconi e il Prenestino,
Primavalle e il borghetto Latino,
ti piacciono coree, bidonville e borgate,
le palazzine e le palazzate.
È bene che i ragazzi
siano murati vivi negli intensivi
senza prati né campi sportivi:
solo scoliosi e paramorfismi
spingono ai giusti, salutari estremismi,
solo la fisica deformazione
è garanzia di rivoluzione.
Da dialettico scaltro
tu dici sempre che il discorso è un altro:
è infatti invece di Pietralata
in fondo al cuore ti sta l’Olgiata.
(Roma, 1966)
Aver collocato all’inizio dell’intervento l’unica sua poesia che io conosco – come in altra circostanza ha già fatto Francesco Erbani – mi pare più efficace di una lunga esposizione, per intendere, sommariamente, ma subito, la sua complessa personalità e anche le ragioni di chi gli si contrapponeva.La poesia, evocando “i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi”, smentisce in primo luogo il diffuso convincimento che Cederna fosse un passatista, un lodatore del tempo passato, un reazionario. Era invece un accanito sostenitore della modernità, dell’urbanistica, dell’architettura, dell’arte moderna. In contrasto con illustri critici dell’architettura, sostenne con entusiasmo la piramide di Ieoh Ming Pei che illumina l’ingresso del Louvre. Fece il possibile perchè le città italiane seguissero l'esempio di Stoccolma, di Amsterdam, di Parigi, di Londra, di Vienna, di Zurigo, della Ruhr. Fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali americani, svizzeri, francesi. Non fu ascoltato. Così abbiamo avuto il Tuscolano, viale Marconi e il Prenestino, Primavalle, il borghetto Latino e Pietralata. Poi l’abusivismo. Fenomeni tutti sconosciuti nell'Europa ammirata da Cederna.
La poesia smentisce anche la leggenda che fosse comunista, estremista di sinistra. Comunista era il destinatario dei versi, lo “stolto Paolo Cordini”, che Cederna nettamente contesta, anche se nei suoi confronti non sfodera il disprezzo furioso che regolarmente riservava agli “energumeni del cemento armato” e alla mala genia dei funzionari affetti da “cupidigia di servilismo” [Ernesto Rossi].
La poesia, infine, con i riferimenti alle malformazioni infantili e giovanili determinate dalla mancanza di aree e di attrezzature per il gioco e lo sport, appare precisamente adeguata al tema “Gli spazi della comunità” che dà nome a quest’edizione del nostro festival.
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Che mestiere faceva Tonino Cederna? Era stato archeologo (aveva anche fatto una campagna di scavi a Carsoli in Abruzzo, il resoconto è pubblicato in Brandelli d’Italia), comiciò a scrivere come critico d'arte su “Lo spettatore italiano”, rivista diretta da Elena Croce, e nel 1949 iniziò la collaborazione con Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio. Dopo la chiusura del prestigioso settimanale, scrisse sul Corriere della Sera, poi su la Repubblica e collaborò con l’Espresso e altri periodici. Accanto all’attività di giornalista, non trascurò mai d’impegnarsi nelle associazione culturali, fu anche due volte consigliere comunale a Roma, e quindi deputato indipendente nelle liste del Pci, presidente del parco dell’Appia Antica. Da deputato della X legislatura collaborò attivamente all’approvazione delle due fondamentali leggi per la difesa del suolo (183/1989) e per la protezione della natura (394/1991).
È negli anni di collaborazione con Il Mondo che matura il carattere della sua scrittura – al tempo stesso semplice e colta, che sa farsi tagliente, con un vocabolario sorprendente, ma sempre appropriato – e si definisce il perimetro dei suoi interessi, che in fondo coincidono con l’urbanistica moderna (moderna è la qualificazione che Cederna non dimentica mai di attribuire all’urbanistica che ama). Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi: tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole.
In un testo scritto all’inizio degli anni Settanta per Italia nostra di Milano definisce l’urbanistica “quella disciplina moderna per eccellenza la quale, unendo cultura, tecnica e impegno politico, ha per fine di assicurare condizioni umane di vita associata, di indirizzare nell’interesse pubblico gli sviluppi edilizi, di controllare a vantaggio di tutti le trasformazioni sempre più rapide cui è sottoposto l’ambiente dell’uomo”. Obiettivi ignorati dall’Italia che, nei trent’anni del dopoguerra, ha saputo solo “ampliare alla cieca le città esistenti”.
“I quartieri “nuovi” non sono che mucchi di case accatastate le une sulle altre, indiscriminatamente allineate sul filo stradale, immensi e degradati dormitori, periferia squalificata per cittadini di seconda classe, luogo di segregazione, frustrazione e umiliazione: con densità inverosimili che raggiungono e superano, a Roma o a Napoli, i mille abitanti per ettaro. Un universo concentrazionario fatto solo di asfalto e di cemento, dove il verde è quello dei lotti non ancora edificati o delle aiole spartitraffico, e i bambini giocano fra l’immondizia e le ruote delle automobili e gli anziani sono segregati sui balconi e nelle intercapedini: dove l’unica parvenza di natura sono i vasi di fiori alle finestre, come chi mettendo barchette di carta nella vasca da bagno si illudesse di essere al mare".
Scriveva con assoluta indipendenza di giudizio, fermo nei suoi principi, fedele alla concretezza dei fatti. Ineguagliata è l’esattezza geometrica delle descrizioni. Maria Pia Guermandi ha scritto che “parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustrante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo, non poteva essere descritto o definito”.
È noto il rigore estremo che poneva nel selezionare la documentazione dalla quale attingeva, e la puntigliosità con la quale riferiva i dati e le quantità relativi alle situazioni di cui dava conto. Non cedeva mai all’approssimazione, era anzi sempre disponibile e pronto a impadronirsi, non senza fatica, delle più complesse e specializzate questione tecniche, le norme, i parametri, le misure. E se ciò comportava l’esposizione di aridi elenchi, non se ne preoccupava, e sfidava imperterrito la pazienza del lettore. Perciò si è detto che Cederna era posseduto da una sorta di etica dei numeri, che sostiene la sua intransigenza e la sua indignazione. Ecco un esempio da un articolo su “Il Mondo” dell’aprile 1964, dove si confrontano le politiche urbanistiche di Roma e di Amsterdam:
“Considerando il verde esistente (parchi e giardini), Amsterdam ha una dotazione più che quadrupla di quella di Roma, che ha una popolazione più che doppia di quella di Amsterdam: e una media per abitante più che decupla. Senza naturalmente nemmeno paragonare la qualità e la distribuzione (a Roma terra bruciata, aiuole spartitraffico, zone verdi invase dal traffico, quattro quinti della popolazione senza un filo d’erba, eccetera), osserviamo che in trent’anni Roma passa da una media di mq 2,7 nel 1930 a mq 1,8 nel 1961 a mq 1,5 oggi, mentre Amsterdam passa da una media di mq 2,2 nel 1930 a mq 15,9. Tenendo conto dell’aumento della popolazione, si osserva che, ad Amsterdam, ad un aumento di 133.000 abitanti ha corrisposto un aumento di verde di 1.240 ettari, pari a una media di mq 93 per ogni nuovo abitante: mentre a Roma a un incremento di oltre un milione di abitanti ha corrisposto un incremento di meno di un centinaio di ettari, pari a una media di mq 0,8 per ogni nuovo abitante!”
Era insomma un giornalista anomalo, che considerava un vizio di fondo del giornalismo italiano il “culto maniacale e nevrotico della notizia”. Si riferiva alla notizia di eventi calamitosi o comunque clamorosi senza i quali non scatta l’interesse dei giornali: “Notizia, maledetta notizia”, ripeteva angosciato.
“Conseguenza di questo modo di pensare, per quanto riguarda la questione ambientale, urbanistica, ecologica, sarebbe che dovremmo augurarci un’alluvione al mese, una fuga di diossina ogni semestre, un affondamento di petroliera nel Mediterraneo ogni estate, un furto di Piero della Francesca alla settimana: queste sì, vivaddio, sono belle e buone notizie, anche da prima e terza pagina, per le quali mobilitare le grandi e perfino le grandissime firme”.
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Tonino Cederna scrisse durante tutta la vita, per mezzo secolo, migliaia di articoli, innumerevoli saggi, documenti, libri. Ma ho già detto che la sua attività non si esaurì nella scrittura, e fu sempre molto attivo nelle associazioni culturali, a partire da Italia nostra, fondata a Roma nel 1955 da Umberto Zanotti Bianco – che ne fu il primo presidente – e da Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, e altri. Nel documento istitutivo dell’associazione si legge che:
“essi comparenti, come tutti coloro a cui stanno a cuore le bellezze artistiche e naturali del nostro paese, non possono non essere estremamente preoccupati di fronte al processo di distruzione sempre più grave e sempre più intenso al quale è stato sottoposto negli ultimi anni il nostro patrimonio nazionale, ed hanno perciò deciso di costituire una fondazione nazionale con il proposito di suscitare un più vivo interesse per i problemi inerenti alla conservazione del paesaggio, dei monumenti e del carattere ambientale delle città specialmente in rapporto all’urbanistica moderna”.
Come ricorda Desideria Pasolini, Cederna non volle figurare fra i fondatori di Italia nostra, anche se ne è sempre stato il più autorevole esponente, e il riferimento all’“urbanistica moderna” nell’attoistitutivo è quasi la sua firma.
Molti dei suoi impegni più ardui furono perciò condotti, se così può dirsi, su due binari, quello del giornalista e quello del militante ambientalista. La salvezza dell’Appia Antica è sicuramente la più famosa e la più importante delle battaglie condotte in tal modo. Il suo primo articolo sulla regina viarum (Il Mondo, dell’8 settembre 1953) è quello, celeberrimo, titolato I gangster dell’Appia, al quale hanno fatto seguito almeno altri cento articoli, sullo stesso settimanale, sul Corriere della Sera,la Repubblica, L’Espresso e altri giornali. La sua azione ininterrotta e implacabile, l’impegno di Italia nostra e di altri benemeriti portarono a un primo fondamentale successo con l’approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 che obliterò le paurose lottizzazioni per quasi cinque milioni di metri cubi ai lati della strada. Nel decreto, a firma del ministro Giacomo Mancini, si legge che “riguardando la tutela del comprensorio dell’Appia Antica interessi preminenti dello Stato [… ] l’Appia Antica è interamente destinata a parco pubblico da Porta San Sebastiano ai confini del Comune”.
Un risultato clamoroso. Scongiurato il rischio che l’avessero vinta i “nemici del genere umano”, Cederna si impegnò, sempre insieme a Italia nostra, perché alla tutela facessero seguito altri provvedimenti per conoscere, studiare, restaurare quell’intatto cuneo di verde, di storia, di natura che dai Colli Albani penetra fino al Campidoglio e per consentirne il pubblico godimento. La vicenda dell’Appia Antica si è trascinata nei decenni successivi fra alterne vicende: pessimo controllo del territorio da parte del Comune di Roma, che ha consentito l’insediamento di circa un milione di metri cubi abusivi; ripetuti interventi legislativi della Regione per la formazione di un primo e poi di un secondo ente parco regionale (di cui Cederna è stato anche presidente).
Nonostante le lentezze intollerabili, i compromessi, gli abusi, le astuzie, il gran parco dell’Appia Antica è però ormai una realtà indiscutibile, e in tante parti meravigliosa, una realtà che nessuno osa più mettere in discussione.
Tutto ciò lo si deve ad Antonio Cederna.
Va smentita in proposito un’altra insopportabile leggenda costruita ai suoi danni: che fosse un intellettuale astratto, incline all’interdizione, fatalmente destinato alla sconfitta, uno che sapeva dire solo no. Non è stato vero per l’Appia Antica e non è vero per un altro suo impegno, la tutela dei centri storici. Il punto di partenza è il convegno di Gubbio del 1960, un convegno d’importanza straordinaria, aperto da una relazione di Antonio Cederna e Mario Manieri Elia radicalmente innovativa rispetto alle teorie allora prevalenti, che consentivano di manomettere, di “diradare” e anche di sventrare i centri storici (fatte salve le emergenze monumentali). Il convegno approvò la famosa “Carta di Gubbio” che sostiene l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici (“L’intero centro storico è un monumento”).
Anche in questo caso, fu Giacomo Mancini, che frequentava e stimava Tonino Cederna, a far propria la Carta di Gubbio e a tradurla in norma. La cosiddetta legge-ponte, quella approvata dopo la frana di Agrigento del 1966, subordina infatti ogni intervento di sostanziale trasformazione dei centri storici all’approvazione di un apposito piano particolareggiato. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che il nostro è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici, ed è questo l’unico merito che la cultura urbanistica italiana contemporanea può vantare nel mondo. Certamente, nessuno può sostenere che la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia perfettamente garantita, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.
Qui a Ferrara non si può non ricordare il contributo di Cederna alla concretizazione dell’idea che, per primo, Paolo Ravenna, definì dell’addizione verde (quasi il completamento dell’“addizione erculea” del 1492), il grande parco urbano delle mura a nord della città (più di mille ettari), fino al Po, intitolato a Giorgio Bassani. Poi, forse meno conosciuto, un altro merito riguarda la localizzazionedell’auditorium nell’area dello stadio Flaminio, proposta da Cederna e accolta dal consiglio comunale di Roma, in tal modo scongiurando il vistoso errore che si stava commettendo di intervenire nel piccolo e inadatto borghetto Flaminio. E infine Tormarancia, uno splendido brandello di campagna romana, a ridosso dell’Appia Antica, salvato da una colata di cemento grazie ai suoi articoli e al lavoro delle associazioni.
È fuori discussione che, se ci furono vittorie, molto più numerose, e dolorosissime, furono le sconfitte, a partire dalla realizzazione dell’hotel Hilton: una violenza di 100 mila mc sul crinale di Monte Mario. Da allora Cederna adottò l’hilton come unità di misura della speculazione fondiaria: una lottizzazione di 2 hilton, uno scempio di 3 hilton e mezzo …
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Una buona parte degli articoli di Cederna è stata raccolta dall’autore in quattro libri, che qui rapidamente ricordo:
I vandali in casa, Laterza, 1956. Raccoglie gli articoli scritti per “Il Mondo” dal 1951 al 1956. Fondamentale è l’introduzione, con riflessioni sorprendenti per l’epoca (che anticipano la Carta di Gubbio) sulla continuità, nei centri storici, fra monumenti principali e architettura minore. Altrettanto straordinaria è l’analisi sulla rottura delle tecniche costruttive verificatasi nell’Ottocento a opera dell’architettura moderna che ha reso irrecuperabile il rapporto con un passato nel quale (“dai faraoni al barone Haussmann”) molte cose erano rimaste costanti e immutate. Ad alcuni degli articoli sono accluse note o bibliografia (quella sull’Appia Antica, in calce all’articolo Lo stadio nelle catacombe, impegna 11 pagine). Nel 2006, cinquant’anni dopo la prima, ha visto la luce una nuova edizione de I vandali, che contiene i due terzi degli articoli originali, curata di Francesco Erbani, cui si devono anche la prefazione e la postfazione.
Mirabilia Urbis, Einaudi, 1965. Un’ampia raccolta di articoli del Mondo (dal 1957 al 1965) dedicata alla sua città d’adozione. In appendice è riportata la fondamentale relazione illustrata da Cederna e da Mario Manieri Elia al convegno di Gubbio del 1960 che ha dato origine alla moderna politica di tutela dei centri storici.
La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975. Tratta della natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. Sorprende una pagina in cui Cederna, accusato spesso e volentieri di esuberante pessimismo, si mostra invece ingenuamente ottimista, illudendosi che le cose in Italia potessero migliorare con l’entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario.
Brandelli d’Italia, Newton Compton, 1991. Ancora un’antologia di saggi e di articoli, da Il Mondo e dal Corriere della Sera. Ogni articolo è seguito da un corsivo che aggiorna il pensiero dell’autore sulle cose scritte molti anni prima. Il corsivo in calce all’introduzione a I vandali in casa è il seguente: “A parte qualche intemperanza espressiva mi pare nella sostanza tuttora attuale. A p. 48 la banda degli architetti viene definita un «branco di scimmie»: oggi, per rispetto degli animali, userei un’altra espressione”.
Merita di essere rilevato il fatto che in nessuno dei libri di Cederna sono ripresi articoli che trattano di esperienze straniere. I suoi famosi servizi da Amsterdam, Parigi, Londra, Stoccolma, dagli Stati Uniti, dalla Svizzera, dalla Grecia non sono mai stati ripubblicati, e i suoi lunghi articoli su “Casabella” (il verde pubblico di Amsterdam) e su “Urbanistica” (il verde pubblico di Stoccolma) sono irreperibili, almeno fino a quando quella straordinaria istituzione che è l’Archivio Cederna (ne parlo in conclusione) non avrà provveduto a renderli accessibili on line.
Cederna ha scritto un altro libro:
Mussolini urbanista, Laterza, 1975, l’unico a carattere monografico. È un’accurata ricerca storica sullo sventramento di Roma negli anni del fascismo. Molto ben documentato e illustrato. Anche di questo libro esiste una nuova edizione, del 2006, pubblicata da La corte del Fontego, con prefazione di Adriano La Regina e postfazione di Mauro Baioni. In una stagione, come l’attuale, di accomodante revisionismo, è una ventata d’aria fresca la lettura delle edificanti biografie di sette protagonisti dell’urbanistica di quegli anni: Armando Brasini, Gustavo Giovannoni, Antonio Muñoz, Ugo Ojetti, Marcello Piacentini, Corrado Ricci, Virgilio Testa. Qualche riga:
- Brasini Armando: “è il campione del titanismo di cartapesta, del pompierismo ipermonumentale e della carnevalata neoromanesca”;
- Giovannoni Gustavo: “Il culmine dell’accecamento lo raggiunge col progetto del gruppo «La Burbera», firmato insieme ai peggiori arnesi dell’architettura e dell’urbanistica romana. È un piano che annienta tutto il centro barocco di Roma […]. All’insania urbanistica egli unisce quella architettonica: la piazza assiro-babilonese disegnata all’incrocio del «cardo» e del «decumano» dalle parti di piazza S. Silvestro ne è un esempio obbrobrioso”;
- Muñoz Antonio: “il regista del più vasto teatro di demolizioni della storia moderna, è l’autentico «mastro ruinante» di Roma, in nome del traffico, della romanità imperiale, della boria fascista e di altre volgarità. Pianta molti cipressi. Le fotografie lo mostrano sempre un passo indietro a Mussolini, che egli sobilla e persuade come uno Jago maligno: solo un trombone come Ugo Ojetti gli può rimproverare, per l’isolamento dell’Augusteo, un eccessivo rispetto archeologico”;
- Piacentini Marcello: “maestro insuperabile del doppio gioco e della riserva mentale: nei suoi innumerevoli scritti sostiene tutto e il contrario di tutto, e parte sempre dalla necessità di conservare «questa nostra cara e vecchia Roma» per proporne, nel capoverso seguente, la distruzione”.
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Nel programma del nostro festival, a proposito del ritratto di Antonio Cederna, si legge che fu definito urbanista ad honorem. Secondo me è stato di più: in materia di urbanistica i suoi contributi non sono stati solo d’informazione, di metodo, di critica – o di biasimo, come sostengono i suoi denigratori. Fu anche uno straordinario inventore di spazi. Il suo impegno ha riguardato soprattutto Roma. E a questa sua attitudine mi pare necessario dedicare la conclusione del mio intervento.
L’idea che aveva della capitale del terzo millennio, Cederna l’ha descritta più volte, ma il testo nel quale è disegnata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand’era deputato indipendente del Pci. Soprattutto la relazione alla proposta di legge è una vera e propria lezione di urbanistica (moderna). La nuova forma dell’area centrale di Roma voleva realizzarla attraverso due fondamentali operazioni:
- il trasferimento dei ministeri nelle aree del Sistema direzionale orientale (Sdo);
- la realizzazione del parco storico-archeologico dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica.
La proposta di legge illustra in dettaglio le cose da fare. I ministeri da trasferire nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico.
“L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell'intervento (basti pensare allo sgraziato salto di quota che separa la via Cernaia dal piano degli scavi delle terme di Diocleziano, frutto della sommaria sistemazione della zona dopo l’edificazione del ministero delle Finanze)”.
Nel cuore dell’area archeologica centrale, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di “un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Ma soprattutto, “coll’eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.
Allora, all’inizio degli anni Trenta, Benito Mussolini, per consentire che da piazza Venezia si vedesse il Colosseo, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana. La nuova via dei Fori Imperiali doveva formare un grandioso palcoscenico per la sfilata delle truppe, ristabilendo la continuità fra l’impero romano e quello fascista.
Dell’eliminazione della via dei Fori – riprendendo un’idea già proposta da Leonardo Benevolo qualche anno prima – si era cominciato a parlare nel 1978, quando il soprintendente archeologico Adriano La Regina aveva denunciato le drammatiche condizioni dei monumenti romani corrosi dall’inquinamento. Il sindaco Giulio Carlo Argan coniò lo slogan: “O i monumenti o le automobili”. Luigi Petroselli, che sostituì Argan nel settembre 1979, sostenne subito l’iniziativa con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti. Intuì che era un’occasione straordinaria per la “riforma” della città. “Io credo che non giovi ad alcuno […] volare basso su Via dei Fori Imperiali, anche perché si rischia di restare inquinati”, disse concludendo il 29 marzo 1981 la seconda conferenza urbanistica comunale.
Il progetto Fori messo a punto allora prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. L’idea della storia collocata al centro della città futura – un futuro dal cuore antico – raccolse, come ho già detto, vasti e qualificati consensi. A esclusione del Tempo, tutti i quotidiani della capitale furono a favore del progetto. Un appello preparato da Cederna e dall’archeologo Filippo Coarelli fu sottoscritto da 240 studiosi italiani e stranieri. Vi si legge che, con la chiusura al traffico e con il recupero del grande complesso archeologico, si otterrebbe “un parco archeologico senza pari al mondo, comprendente i Fori Imperiali, il Foro Romano, e il Colosseo, e quindi uno straordinario spazio per la ricreazione e la cultura, tale da permettere un rapporto vitale e non retorico con il nostro passato”. Favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici.
All’impegno e alla rapidità delle decisioni di Petroselli si devono l’eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e l’unione del Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. E’ forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea.
Ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Cederna scrisse su Rinascita dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito l’importanza della storia nella costruzione del futuro di Roma; che non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.
Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori. Gli oppositori si scatenarono. Dopo tre lustri di abbandono, furono ripresi gli scavi ai lati della via dei Fori ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma la chiusura definitiva della strada è stata continuamente rinviata e le automobili di via dei Fori finiscono ancora tutte nel marasma di piazza Venezia.
Cederna restò sempre più isolato e amareggiato. Le pagine culturali de la Repubblica furono in prevalenza occupate da chi si opponeva al progetto. Si sentì “preso per i fondelli” e inutilmente protestò con il direttore Eugenio Scalfari. Nella postfazione a I vandali in casa, Francesco Erbani osserva che
“il grande parco che avrebbe immesso verde e archeologia fin nel cuore di Roma, strutturando la città su ritmi diversi da quelli dettati dalla rendita immobiliare e dalle macchine, viene lasciato cadere, prima sistemandolo nell’orizzonte lontano delle utopie, alle quali si presumeva di poter giungere colla cadenza burocratica delle commissioni e delle subcommissioni consiliari, poi facendolo completamente sparire dall’orizzonte della città. […] svanito è l’impianto strategico, ciò che quel progetto prefigurava come parte della prospettiva di una città che facendo perno sul proprio patrimonio archeologico concepisce un’altra fisionomia di sé, prospetta altri rapporti fra centro e periferia, dichiara esaurita l’espansione “a macchia d’olio” nei territori dell’agro romano e si concentra sul miglior uso delle parti già edificate, sul trasferimento dal centro delle funzioni direzionali, amministrative e aziendali, verso aree periferiche con il doppio intento di liberare il primo e di riqualificare le seconde, interrompendo drasticamente quel processo, affidato tutto al mercato degli immobili, che concentra residenza fuori e uffici dentro, con i drammatici problemi di traffico e di inquinamento che questa conformazione porta con sé”.
Il Requiem al progetto Fori è stato definitivamente recitato nel 2001 con l’apposizione del vincolo monumentale proprio sulla via dei Fori e dintorni, fino alle terme di Caracalla, congelando la situazione attuale. La relazione storico-artistica che giustifica quel vincolo rappresenta un radicale cambiamento rispetto all’impianto originario del progetto, com’era stato concepito da La Regina, Cederna, Petroselli. La sistemazione patrocinata da Benito Mussolini non è più contestata, diventa anzi “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto”.
Il contrasto con il pensiero di Cederna è assoluto. In Mussolini urbanista si legge che
“i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che non ha uguali nella storia urbanistica universale, e che le guide turistiche trascurano di segnalare”.
Secondo Cederna, il progetto Fori non era solo un’operazione di archeologia urbana, ma il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma. Il recupero dei Fori era un dettaglio del grande parco urbano che avrebbe dovuto estendersi, lungo l’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani, formando la struttura principale dell’area metropolitana, l’unica pausa in una periferia senza fine. Tutto ciò è ignorato nelle motivazioni del vincolo che contesta la valenza generale del progetto Fori, vilipeso come “un insieme di singoli interventi puntuali, svincolati da ogni problematica urbanistica”.
Leonardo Benevolo è stato fra i pochi che non non ha ceduto alla sirena del revisionismo, e così commenta sul Corriere della Sera il decreto di vincolo:
“E’ diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”.
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Un destino clemente ha impedito a Cederna di vedere la fine miserabile toccata negli ultimi mesi all’area archeologica centrale di Roma e agli scavi di Ostia, insensatamente affidati alle cure della protezione civile, con Guido Bertolaso commissario all’archeologia. L’intero mondo delle soprintendenze e quanti hanno a cuore la nostra storia e la dignità nazionale hanno protestato con determinazione. Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, si è dimesso. Ma il governo va speditamente avanti lungo la linea dello smantellamento dei poteri istituzionalmente titolari della tutela, come aveva profeticamente previsto Cederna, scrivendo nel 1993: “Liberarsi quanto più possibile dal patrimonio artistico, culturale che la storia, si direbbe, ha avuto il torto di lasciarci in eredità: questo sembra il pensiero dominante dello Stato italiano”.
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Ho velocemente illustrato le opere e i giorni di Antonio Cederna. Mi resta da dire di una mirabile iniziativa, cui ho già fatto cenno, che è stata attivata nel novembre dell’anno scorso per merito soprattutto dell’archeologa Rita Paris: l’Archivio Cederna, sull’Appia Antica, in prossimità del mausoleo di Cecilia Metella, in una proprietà acquistata dalla soprintendenza archeologica di Roma, dopo aver riportato alla luce un impianto termale della metà del II secolo d. C. Nell’edificio principale sono stati raccolti la biblioteca, i documenti, le foto, e gli appunti di Antonio Cederna che la famiglia ha donato allo Stato italiano e che costituiscono il primo nucleo del Centro di documentazione della via Appia che si sta costituendo insieme al comune di Roma, alla Pontificia commissione di arte sacra, all’ente parco. In collaborazione con l’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna si sta provvedendo all’informatizzazione dell’archivio, a mano a mano consultabile anche on line nel sito dell’Archivio.
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Per chi intanto voglia conoscere un po’ meglio la figura di Antonio Cederna segnalo:
Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, un libro a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bononia University Press, 2007. È stato voluto dall’IBC – Istituto Beni Culturali – della Regione Emilia Romagna. Raccoglie saggi scritti per l’occasione da compagni di viaggio, studiosi e testimoni. In appendice 14 articoli di Cederna scelti dagli autori del libro.