Si è spento domenica Michele Sernini. Ha affrontato la malattia col consueto piglio ironico, con quel tratto personale che gli conferiva a volte un che di altero, di scostante.
Nelle aule dello Iuav di Venezia ci sconcertava col suo comportamento. Quando non reagivamo alle sollecitazioni ci guardava come preso da un'improvvisa malinconia, poi appoggiava la fronte contro il muro o giocherellava col gesso in attesa che qualcuno parlasse.
Sapeva far nascere curiosità, stimolare interessi: dalla sua borsa magica uscivano libri a noi sconosciuti, nelle sue lezioni toccava anche discipline diverse dai saperi del territorio che costituivano il nostro riferimento: sapeva di filosofia, di sociologia, di diritto.
Era giunto all'insegnamento universitario nel 1972, chiamatovi dopo un articolo in cui analizzava criticamente i sociologi urbani francesi. Divenuto professore, fu collaboratore della rivista di studi urbani vicina a il manifesto, Città/classe, che vide riuniti alcuni degli studiosi più brillanti di quella generazione. Non fu mai un accademico. Orgoglioso della propria indipendenza intellettuale, sprezzante di cordate e di lobbies, sempre tagliente nei giudizi, era costretto a giocare per lo più la parte dell'ospite scomodo. Era coraggioso: dopo gli arresti del 7 aprile 1979, inserì nei suoi seminari alcuni libri di Antonio Negri, che stimava come studioso, pur non condividendone le posizioni. La cosa attirò l'attenzione degli inquisitori, e fu sottoposto a un paio di perquisizioni.
Un carattere poco incline ai compromessi e spigoloso non poteva permettergli una carriera lineare: promosso e rimosso si ritrovò ad insegnare a Reggio Calabria, dove rimase fino al pensionamento. Il suo libro più importante, La città disfatta, vide la luce sul finire degli anni '80 ed è uno dei testi fondamentali per capire le trasformazioni urbane dell'epoca. Si tratta di una difesa della città e della dimensione di vita metropolitana nei confronti dei teorici della fine dell'urbano e del trionfo della «città diffusa».
Convinto assertore della centralità dell'urbano, polemizzò tanto con i fautori del liberismo in campo urbano che con il localismo dei primi anni '90. Capì presto che la partita decisiva per le città europee si sarebbe giocata sul terreno delle loro capacità di rinnovarsi e di integrare la presenza di nuovi venuti, di accettare i migranti e di riuscire a garantire un minimo di urbanità per tutti. Negli ultimi anni, preoccupato per la piega che assumeva il clima politico-culturale, era incline al pessimismo, temeva un uso improprio dei suoi lavori; si sarebbe accontentato di lasciare in eredità istanze riformiste anche minime, di cui non gli pareva di vedere traccia. Diffidava delle enunciazioni dogmatiche e nutriva un'avversione per chi pontificava, eppure insegnò molto, con il suo modo colloquiale, sempre attento e disponibile.
Mi sono laureato con lui. Col tempo il rapporto divenne più paritetico, anche se il suo giudizio rimaneva per me importantissimo. Per oltre dieci anni è stato tra i primi lettori e critici dei miei scritti. Se il parere era positivo mi sentivo sollevato: un testo che andava bene per Michele andava bene per il mondo. Non era ipercritico, come alcuni pensavano: era rigoroso. In un mondo accademico dalla produzione scientifica sempre più approssimativa figure come la sua divengono rare. Fino all'ultimo è rimasto uomo di libri: al capezzale del suo letto d'ospedale tra gli altri, gli scritti di Paul Ricoeur sulla morte.