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Eugenio Scalfari
Tambroni, il golpe De Lorenzo e la storia mistificata
11 Dicembre 2005
Scritti 2004
Da una polemica tra giornalisti testimoni la verità sul nostro passato. Da la Repubblica del 31 gennaio 2004.

Paolo Mieli, della cui intelligenza sono estimatore da lunga data anche se spesso discordo dalle conclusioni alle quali approda, ha dedicato da qualche settimana la sua attenzione ad una fase della recente storia italiana che finora non sembrava controversa e neppure controvertibile. Si tratta di quella fase cominciata col governo Tambroni del 1960, con i moti di piazza che ne seguirono, con l’incubazione e poi la realizzazione del centrosinistra con il primo governo Moro del 1963 e infine con il declino del medesimo centrosinistra che si verificò con il secondo governo Moro del ‘64 e da cui mai più si riprese.

Poiché Mieli dispone di svariate tribune e di un influente «réseau» di amicizie giornalistiche sulla cui tastiera suona con la scioltezza elegante d’un virtuoso, su questi temi è riuscito ad orchestrare una vera e propria campagna di stampa (sul Corriere della Sera con amichevoli rimbalzi sulla Stampa e nei "talk show" di Giuliano Ferrara e Pierluigi Battista) della quale in verità non si riusciva a comprendere quali fossero le intenzioni e lo sbocco. Perché mai rispolverare vicende vecchie di quarant’anni e con scarsissima attinenza con l’attualità?

Ma poiché Mieli, tra le tante qualità, ha quella d’essere un "passista" che viene fuori alla distanza, il miglior partito fu quello di aspettare gli esiti di questo suo esercizio intellettuale a puntate. Adesso il nostro passista ha finalmente tagliato il traguardo nel senso che le motivazioni di questa sua campagna risultano ormai esplicite. Riassumo brevemente le sue tesi.

1) I moti di piazza del ‘60 a Genova, a Roma e in molte altre città italiane furono un’indebita interferenza di una supposta volontà popolare manovrata dai comunisti, i quali volevano a tutti i costi favorire la nascita del centrosinistra.

2) Bisogna dunque aver ben chiaro in testa che le proteste stradaiole - pur lecite costituzionalmente - sono sempre foriere di guai poiché sovvertono lo svolgersi ordinato della democrazia parlamentare che ha i suoi luoghi deputati ed esclusivi nella dialettica dei partiti entro i recinti del Parlamento.

3) Il famoso "golpe" del generale De Lorenzo, appoggiato ai servizi di sicurezza e al Comando generale dell’Arma dei carabinieri, non fu affatto un "golpe", non sovvertì le istituzioni, non provocò né moti di piazza né sedizione di corpi militari.

4) La campagna di stampa che rivelò il preteso "golpe" e ne drammatizzò gli effetti politici fu una forzatura se non addirittura una montatura.

5) Da quella montatura scaturirono conseguenze nefaste e addirittura la motivazione alla nascita del terrorismo brigatista il quale, con la scusa di contrastare un golpismo della destra sempre latente, decise di prendere le armi ed entrare in clandestinità. Si deve pertanto anche alla montatura d’un golpismo inesistente la fosca stagione degli anni di piombo e le vittime che essa seminò sul suo cammino.

Spero d’aver esposto con onesta chiarezza le tesi di Mieli. Non mi erano chiare all’inizio, mi sono chiarissime adesso. In quell’arco di anni che va dal ‘60 all’81 sono stato per ragioni al tempo stesso professionali e civili testimone non secondario. L’Espresso prima e poi Repubblica furono i giornali che con maggior vigore si occuparono di quelle vicende. Il golpismo di De Lorenzo fu rivelato dall’Espresso durante il periodo della mia direzione; Repubblica a sua volta fu il giornale che più di tutti sposò la tesi della fermezza contro il terrorismo delle Br. Mi sento dunque direttamente chiamato in causa dall’amico Mieli.

All’epoca dei fatti in questione egli era molto giovane, più o meno diciottenne nel Sessantotto che visse come giovanissimo redattore dell’Espresso e simpatizzante di Potere operaio; trentenne durante gli anni di piombo e ormai giornalista di vaglia all’Espresso e più tardi a Repubblica. Quindi testimone anche lui di quanto accadde allora e testimone partecipe di testate che avevano scelto senza ipocrisie la loro linea e formulato la loro diagnosi.

Certo le opinioni possono cambiare, la storia merita di essere continuamente rivisitata. Non è facile capire però se quella rivisitazione contribuisca al mutamento delle opinioni o se piuttosto sia il mutamento a produrre nuovi esiti storiografici. Personalmente inclino verso questa seconda ipotesi. Sta di fatto che considero aberranti le conclusioni di Mieli sulla filiazione del terrorismo da quella che egli chiama la «forzatura» del preteso «golpe». E spiego perché.

***

Tralascio "l’introibo" di Mieli sul governo Tambroni e sulla caduta provocata da moti di piazza patrocinati dal Pci. Lo tralascio per brevità non senza però osservare che i comunisti non furono affatto contenti della nascita del centrosinistra. Temevano infatti - e dal loro punto di vista non sbagliavano - che l’arrivo del partito di Nenni al governo avrebbe ancor più approfondito il solco tra il Psi e il Pci avvicinando i socialisti ai socialdemocratici di Saragat e alla Dc e aumentando la ghettizzazione politica del Partito comunista. Qualche dirigente di quel partito coltivò per breve tempo l’ipotesi che i governi di centrosinistra potessero essere l’anticamera di una apertura a sinistra estesa fino al Pci, sia nella sostanza dei programmi sia nelle formule parlamentari; ma un’ipotesi del genere era del tutto fuori dalla realtà e fu infatti rapidamente abbandonata tantopiù con la nascita del secondo governo Moro che vide l’uscita dal governo della sinistra socialista e il suo passaggio all’opposizione nel partito di fronte alla maggioranza guidata da Nenni e da De Martino.

Tutta la successiva storia dei rapporti tra Psi e Pci, per finire con lo scontro asprissimo tra Craxi e Berlinguer, conferma quanto dico. Cade dunque la tesi che sta alla base dei ragionamenti di Mieli e cioè che i moti anti-tambroniani fossero patrocinati dal Pci per favorire la nascita del centrosinistra, mentre è certamente vero che a Porta San Paolo, a Genova, a Bologna, a Modena, a Reggio, i giovani comunisti scesero in piazza insieme ai socialisti, ai repubblicani, ai cattolici di sinistra, ai radicali, come è sempre accaduto in Italia tutte le volte che l’antifascismo è ridiventato un valore fondante e repubblicano minacciato e da difendere.

***

È stato un "golpe" il tentativo del generale De Lorenzo? Caro Paolo (l’ho già scritto rispondendo ad una lettera dell’ultimo numero del nostro Venerdì) si tratta di intendersi sulla parola. Se per "golpe" si vuol definire una sedizione di corpi armati che rovesci con la forza le istituzioni legittime, allora De Lorenzo non fece nessun golpe poiché le istituzioni non furono rovesciate. Idem più tardi nei confronti del golpe Borghese, tentato pochi anni dopo e anch’esso finito nel nulla per la defezione all’ultima ora di chi avrebbe dovuto sponsorizzarlo.

De Lorenzo in realtà dette il suo nome e la sua opera ad un confronto, certamente temibile per le fragili strutture democratiche del nostro Paese.

Utilizzò ai fini del complotto il Sifar guidato dal suo pupillo generale Allavena e il Comando generale dei carabinieri con la sola eccezione del vicecomandante, generale Manes, il quale fu ostracizzato e tenuto all’oscuro dei piani predisposti e, quando ne ebbe sentore, li denunciò pubblicamente.

Le predisposizioni, attivate con lo stimolo costante dell’allora Capo dello Stato Antonio Segni, sfociarono nel famoso "Piano Solo" che prevedeva l’enucleazione di centinaia di comunisti, socialisti, sindacalisti, democratici, il loro trasporto in Sardegna, la requisizione di navi e aerei per la bisogna, l’occupazione dei principali palazzi pubblici a cominciare dalla televisione.

Quando sull’Espresso rivelammo queste circostanze (era il maggio del 1967) ne seguì un processo clamoroso a metà del quale - e dopo avere ascoltato come testimoni tutti i componenti dello Stato maggiore dell’Arma e i comandanti delle divisioni - il pubblico ministero Occorsio chiese l’assoluzione dei giornalisti dell’Espresso e la remissione degli atti alla Procura per procedere contro il querelante. La richiesta non fu accolta, il governo Moro (il terzo o il quarto del centrosinistra) oppose il segreto di Stato, i giornalisti furono condannati. Ho viva memoria di come i grandi giornali e in particolare il Corriere della Sera seguirono quel processo e la sua conclusione, relegandolo in spazi marginali e parlandone, appunto, come una montatura giornalistica. All’epoca Repubblica non era ancora nata e la pelle dei grandi quotidiani nazionali aveva lo spessore di quella dei rinoceronti.

Seguì un’inchiesta parlamentare; lo Stato maggiore dell’Arma che aveva negato tutto davanti ai giudici sotto giuramento, ammise tutto dinanzi alla Commissione d’inchiesta parlamentare, certo comunque dell’impunità e infatti gli fu data.

Questa è la storia. La provano gli atti di giustizia e i documenti parlamentari.

***

Il risultato politico di quel complotto di De Lorenzo fu molto chiaro. Era in atto tra il maggio e il giugno del ‘64 una grave crisi politica ed economica; il business italiano, già colpito dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, tremava al pensiero che i socialisti volessero attuare la nazionalizzazione dei suoli edificabili, che avrebbe spezzato la speculazione sulle aree ed avrebbe impresso un corso diverso allo sviluppo delle città, delle coste, insomma del Paese.

Si verificò in quei mesi un esodo di capitali verso la Svizzera e altri luoghi di riparo che non ha precedenti nella nostra storia.

In queste condizioni fu deciso, nel business e nei palazzi del potere a cominciare dal Quirinale, che bisognava dare una svolta netta alla politica italiana. De Lorenzo predispose e si tenne pronto.

Anche Moro sapeva e con lui tutti i capi dorotei della Dc. Con la consueta abilità Moro decise di piegare i socialisti per arginare il complotto e le sue conseguenze. Nenni fu convocato e messo al corrente. Da vecchio "politicien" misurò le forze e cedette. Nel comitato centrale del suo partito spiegò la sua decisione confessando che aveva sentito il «rumore delle sciabole». A me lo confermò personalmente quando, essendo io stato eletto deputato, lo sollecitai a schierare il gruppo parlamentare socialista contro le conclusioni perdonatorie della Commissione d’inchiesta. «Se lo facessi - mi disse - il governo cadrebbe. Dovetti cedere allora, non posso impuntarmi oggi» .

Ora, caro Mieli, se tu non hai ricordi e documenti che diano una versione diversa di questi fatti, non mi pare che ci siano alternative. E se non ci sono alternative in punto di fatto, resta dunque assodato che la fine del centrosinistra riformatore avvenne sotto il ricatto di una minaccia militare appoggiata da consistenti forze politiche. Come vuoi chiamare un fatto di questo genere? Un fatto sicuramente eversivo, un’interferenza infinitamente più grave e fuori dalla Costituzione di fronte alle proteste stradaiole dei ragazzi con la maglietta a righe contro il governo Tambroni.

Quanto al terrorismo, farlo discendere dalla nostra campagna di stampa del ‘67 mi sembra un esercizio che nessun acrobata potrebbe portare a termine.

Forse ti sei dimenticato che prima degli omicidi delle Br c’erano state le stragi di Piazza Fontana e di Brescia.

Una persona della mia età può avere la memoria debole, ma tu no, non ancora.

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