Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica.
Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.
L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede.
Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimensione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.