«Un anniversario alquanto ipocrita, senza un bilancio serio dello stato in cui i diritti versano e senza un'analisi vera del perché siamo a questo punto». Così Salvatore Senese, giurista, presidente del Tribunale permanente dei popoli, intellettuale da anni impegnato sulla frontiera della realizzazione del programma della Dichiarazione universale dei diritti umani stilata nel '48. Un bilancio serio e un'analisi vera, del resto, comporterebbero una rivisitazione della lunga storia, tutt'altro che lineare e progressiva, dei diritti nel mondo, fra proclamazioni formali, resistenze e contraddizioni reali. Una storia intrecciata a doppio filo con quella dei rapporti fra l'Occidente e il resto del mondo, e, per gli ultimi decenni, con le dinamiche della globalizzazione e le loro conseguenze sulle relazioni e il diritto internazionali. Dunque cominciamo proprio da qui.
Qualche giorno fa, in un'intervista che ha suscitato non poche polemiche, il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner ha celebrato il sessantesimo della Dichiarazione dei diritti umani sostenendo che fra il dover essere della difesa dei diritti e il realismo della politica estera c'è una "contraddizione permanente". A più d'uno è parsa una rinuncia a risolvere una tensione che effettivamente attraversa tutta la storia dei diritti umani ma che andrebbe sciolta, non data per strutturale. Qualcuno, ad esempio Marco Pannella ha visto nella posizione di Kouchner una regressione da una visione transnazionale dei diritti al punto di vista dello stato nazionale, francese in questo caso. Tu che ne pensi?
Questa contraddizione ha costituito il contrassegno della dottrina sui diritti dalla Rivoluzione francese alla Carta dell'Onu. Tocqueville, grande sostenitore dei diritti all'interno del suolo francese, arrivò a teorizzarla apertamente durante la guerra per la conquista dell'Algeria, contestando «coloro che trovano disdicevole che si brucino i granai e si uccidano i bambini», atti che lui considerava «durissime necessità» per debellare gli arabi e realizzare la missione civilizzatrice della Francia all'estero. Era appunto la teorizzazione che politica interna e politica estera sono rette da due principi diversi. Ma è giusto questo il punto che entra in crisi con la seconda guerra mondiale e che viene smontata dai lavori per la Carta dell'Onu, che nel 1945 afferma l'universalità dei diritti facendo riferimento a ciascun essere umano nella sua singolarità e universalità. Dunque sì, la posizione di Kouchner ha un suono pesantemente regressivo.
Però negli ultimi due decenni questa contraddizione raddoppia. Da un lato si continuano a fare guerre, o politica estera non guerreggiata, calpestando i diritti o non sanzionando gli stati che li calpestano. Dall'altra parte, sulla base del diritto di ingerenza, spuntano le guerre fatte in nome dei diritti. E' la storia che comincia con la guerra del Golfo del '91, prosegue con la guerra in Kosovo e continua con le guerre in Afghanistan e in Iraq, che vengono legittimate non solo come guerre contro il terrorismo ma anche come guerre per i diritti delle donne contro il patriarcato islamico e per il ripristino dei diritti violati da Saddam Hussein.
La svolta, o meglio il rovesciamento, degli anni '90 va inquadrata nel terremoto indotto dalla globalizzazione. Nei quattro decenni precedenti, dalla promulgazione della Carta dell'Onu e della Dichiarazione dei diritti fino alla caduta del Muro di Berlino, non è che il cammino dei diritti fosse stato lineare: contro la forza del principio normativo c'erano resistenze soggettive, difficoltà, contraddizioni. Ma il consenso al principio e la spinta per l'effettività dei diritti effettivi crescevano via via che il colonialismo finiva e a tutela dei diritti venivano create nuove istituzioni, fino al Tribunale penale internazionale nel '98). E se il principio veniva tradito, lo si faceva con la cattiva coscienza di essere dalla parte del torto. Negli anni '90 invece accadono due cose. In primo luogo cade il tabu della guerra, che stava a fondamento di tutta la filosofia delle due Carte del '45 e del '48: quel «mai più guerra, mai più Aushwitz» era la condizione di partenza per la costruzione di un mondo di libertà, uguaglianza e solidarietà. Ed è con la caduta di quel tabu che il principio di ingerenza diventa autorizzazione all'intervento armato, come accade appunto per la guerra del Golfo, di cui si disse che non era una guerra dell'Onu ma appunto autorizzata dall'Onu. Da allora in poi, cresce il paradosso delle guerre per i diritti ma contro il diritto, vale a dire contro il diritto internazionale e il suo fondamento pacifista. In secondo luogo, con il trionfo del modello occidentale neoliberista si verifica un cambiamento culturale che mina alla radice l'edificio della Carta e della Dichiarazione: il principio di libertà viene a coincidere con la libertà dell' homo oeconomicus e viene sganciato dai principi di uguaglianza e solidarietà. E diventa la base di legittimazione delle guerre «umanitarie», fatte per esportare con la forza quel modello democratico-liberista, guerre che mietono più vittime di quelle causate dalle violazioni a cui dovrebbero porre rimedio.
Dicevi prima che fra gli anni '50 e gli '80 il principio normativo dei diritti si afferma e il consenso cresce. Però non erano rose e fiori neanche allora. Oltre alla storia tormentata della decolonizzazione, prendiamo i rapporti fra i due blocchi: durante la Guerra fredda c'è stata anche una piegatura molto americana, ideologica e strumentale, della parola d'ordine dei diritti contro il totalitarismo sovietico. Nel bene e nel male, voglio dire: basta andare a visitare il museo del Check Point Charlie a Berlino per vedere questa ambivalenza.
E' vero, ma il quadro complessivo era migliore di oggi. Contro questa piegatura c'era il contraltare dei diritti collettivi e del diritto all'autodeterminazione dei popoli. E con l'eccezione delle guerre di liberazione il tabu della guerra vigeva e reggeva. Nessuno, nell'un campo e nell'altro, osava proclamare che per affermare o difendere i propri valori, per universali che si volessero, fosse lecito fare la guerra.
Eppure la globalizzazione avrebbe potuto, e dovuto, lavorare a favore dell'universalismo dei diritti. Perché invece ha lavorato contro? Un problema riguarda certamente la forma della sovranità: la storia dei diritti e della loro esigibilità è legata a doppio filo alla storia dello stato-nazione, ma con la globalizzazione la sovranità nazionale va in crisi, senza che emergano istituzioni sovranazionali all'altezza del nuovo mondo...E non è un caso che molte violazioni dei diritti umani, penso ai migranti, avvengano oggi ai confini degli stati-nazione, dove la forma della sovranità è più incerta e porosa.
Direi di più: lo stato nazionale va in crisi ed emerge un potere trasversale svincolato dal diritto, che obbedisce solo alla logica liberista di cui sopra, e rifiuta di sottostare a quelle istituzioni che pure a tutela dei diritti esistono. Vale per tutti l'esempio del rifiuto degli Stati uniti e della Cina di sottostare al Tribunale penale internazionale - mi auguro che Obama dia rapidamente un segnale di cambiamento. Quanto ai migranti, in molte Costituzioni, compresa quella italiana, e nel diritto internazionale esistono le norme sul diritto d'asilo, che regolano quantomeno l'accoglienza di chiunque si sposti perché nel suo paese rischia che is uoi diritti vengano violati. Il problema è che gli strumenti d'attuazione di questa norma sono assai carenti e difettosi.
Il secondo problema riguarda i conflitti culturali che la globalizzazione ha portato in primo piano. Fa parte di questi conflitti il fatto che non tutto il mondo condivide la logica dei diritti, che nasce su una base culturale occidentale e ne resta marcata. Per cui le battaglie per i diritti assumono spesso una valenza impositiva invece che emancipativa, o forzatamente emancipativa, come si vede bene da molti casi che riguardano le donne e una visione marcatamente occidentale della libertà femminile. Esempio classico, la legge sul velo in Francia - per non tornare alle guerre giustificate dai colpi di coda del patriarcato occidentale in base alla liberazione delle donne dal patriarcato islamico.
L'universalismo nasce con una marcatura occidentale, ma questa marcatura cambia nel corso del tempo. L'universalismo che ispirava la Dichiarazione del '48 era un universalismo che si voleva aperto a tutti, come dimostrò il dibattito in seno all'Unesco, e presupponeva un dialogo interculturale aperto e in progress fra le diverse culture del pianeta; e naturalmente richiedeva un'autocritica anche di certe rigidità della cultura occidentale, compreso il tratto giacobino della cultura francese che c'è dietro la legge sul velo. Oggi invece questa conversazione interculturale è sostituita dallo «scontro di civiltà». E poi insisto, un conto erano le difficoltà storiche di affermazione dell'universalismo quando almeno c'era accordo sul principio normativo, un altro conto è oggi che quell'accordo non c'è, al di là di un ossequio di facciata.
Tu sai però - ma su questo i giuristi ci sentono poco - che ci sono anche critiche di segno opposto alla grammatica dei diritti, penso a una parte del pensiero femminista ma anche degli studi postcoloniali, che sostengono in buona sostanza che la loro stessa struttura logica, imperniata sull'identità seriale e neutra dell'individuo moderno occidentale, non si presta a confrontarsi con la logica della differenza, ad esempio con la differenza sessuale e con la differenza culturale.
Non la vedo così. E' ovvio che la realizzazione dell'universalismo è un'impresa gigantesca di cui noi non vedremo il compimento, ma io continuo a ritenere che sia un'impresa inclusiva, dalla quale troppi, oggi, restano invece esclusi. E mi pare che questa delle masse dei nuovi esclusi sia oggi la cosa che ci deve allarmare di più. Il fatto è questo: mentre le condizioni materiali di esistenza sul pianeta sono migliorate, restano enormi sacche di esseri umani che vivono al di sotto della dignità umana. Non si tratta solo delle violazioni dei diritti di libertà, ma anche di quelle dei diritti alla sanità, all'istruzione, al lavoro. E' la questione a cui accennavo prima della indivisibilità dei diritti: diritti di libertà e diritti sociali o vanno assieme o assieme cadono. Lo spettro del genocidio viene periodicamente evocato per giustificare certe guerre, ma quanti genocidi si commettono semplicemente impedendo a intere popolazioni di comprarsi i medicinali?
Alcune violazioni dei diritti di libertà però sono proprio figlie della «svolta» su guerra e terrorismo degli ultimi decenni, no?
Sì: il ritorno della tortura, le renditions, e più in generale molte violazioni che si commettono in nome della sicurezza. Deve finire l'equivoco per cui certe pretese esigenze di sicurezza vanno garantite al prezzo della dignità e della libertà umana.
Che bilancio dai delle Corti internazionali istituite a difesa dei diritti?
Non esaltante, ma nemmeno liquidatorio. Il vulnus più grave resta quello che dicevo del Tribunale penale internazionale: finché gli Usa non sottoscrivono il Trattato, i loro agenti responsabili di violazioni non possono essere perseguiti. Il bilancio della Corte di Strasburgo mi pare più positivo. Ma anche in Europa, se non c'è un rilancio della cultura della solidarietà sociale l'impianto e la tutela dei diritti verranno rischiano di indebolirsi.
E in Italia?
Vale a maggior ragione lo stesso discorso. Con una notazione in più. In Italia non si riesce a istituire il reato di tortura, che dovrebbe sottrarre l'attuale «divieto di tortura» risalente al codice Rocco al regime lassista delle prescrizioni introdotto da Berlusconi. E finché non si introduce il reato di tortura, macroscopiche violazioni dei diritti umani come quelle della caserma di Bolzaneto resteranno di fatto impunite.