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Fabio Gambaro
Intervista a Pierre Rosanvallon, autore di "La légimité démocratique"
15 Dicembre 2008
Scritti 2008
Le democrazia non è solo “il voto nell’urna”. Il sottile discrimine tra “controdemocrazia positiva” e controdemocrazia negativa”. La Repubblica, 14 dicembre 2008

«La democrazia non è solamente il voto nell’urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d’Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell’era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un’evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri.

«Oggi il voto non è più un momento d’identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un’identità sociale, oggi esprime un’opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell’interesse comune».

Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?

«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un’elezione e l’altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell’era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».

Di che si tratta?

«La "controdemocrazia" è costituita dall’insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all’esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E’ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».

Lei parla anche di sovranità negativa...

«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell’attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d’impedire e facoltà d’agire, in democrazia. E’ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».

Quali sono le altre forme della controdemocrazia?

«Un’altra componente importante è l’esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall’ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L’atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell’opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».

Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l’antipolitica. Non è un rischio?

«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall’altro, possono anche indebolirla, alimentando l’antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell’antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un’appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».

Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?

«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell’interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l’amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un’incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».

In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...

«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d’innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un’illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».

Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?

«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E’ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l’appoggio di altre forme di legittimità».

In che modo?

«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall’imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C’è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l’uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell’istante. Infine, c’è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l’accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell’allargamento della concezione della democrazia».

Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?

«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all’interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».

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