Avvicinandosi la fine dell’anno, invece dei soliti bilanci, si può fare un piccolo gioco di fantapolitica. Immaginiamo che il referendum del 1993 sia stato vinto dai sostenitori della legge elettorale proporzionale e che, per effetto di questa vittoria, si siano moltiplicati e ingigantiti tutti gli effetti degenerativi che i critici imputano proprio a questo sistema.
Nell’Italia così "riproporzionalizzata" succedono cose che il maggioritario avrebbe evitato. La frammentazione politica viene accelerata, cresce vertiginosamente il numero dei partiti, tanto che in Parlamento sono diventati 26. La partitocrazia si consolida, i partiti si trasformano in oligarchie, si arriva a partiti personali. Cresce il potere di ricatto dei partiti minori o addirittura di singoli parlamentari. Resistono le peggiori abitudini del proporzionalismo, come i vertici di maggioranza e le "verifiche". L’occupazione partitica della Rai non conosce più alcun freno. L’annuale rapporto dei Censis misura gli effetti sociali della nuova situazione e, abbandonando il suo storico ottimismo, definisce la realtà italiana una "poltiglia di massa". Il «New York Times» afferma che "l’Italia non si ama più". Un’ondata di antipolitica travolge il paese. I proporzionalisti, razza dannata, già esecrati durante la campagna referendaria assai più dei terroristi, vengono finalmente acciuffati, bruciati in piazza e sulle loro ceneri può nascere l’agognata Seconda Repubblica.
Naturalmente tutti ricordano che il referendum fu vinto da sostenitori del sistema maggioritario. E tutti possono riconoscere nei diversi fatti elencati, rogo finale a parte, esattamente quel che è accaduto in questi anni, nel tempo meraviglioso del maggioritario. Con un ulteriore sforzo di memoria si potrebbe ricordare che una schiera di politologi, cantando le lodi dell’avvento del nuovo sistema, dedicò articoli e saggi alle virtuose conseguenze di quella novità, che avrebbe assunto proprio le sembianze della scomparsa della frammentazione partitica, dei vertici e delle verifiche, e via raccontando (dunque, esattamente il contrario di quel che è effettivamente accaduto). Sarebbe il caso di ricordarne pure nomi e cognomi (e una volta bisognerà pur farlo), ma intanto speriamo che un provvisorio oblio aiuti qualche "ravvedimento operoso". Peraltro, ai politologi o sedicenti tali non si possono attribuire colpe che non sono loro. La responsabilità vera è di una classe politica che ha affidato da troppo tempo la soluzione di problemi sostanzialmente politici alla sola ingegneria costituzionale.
In questo amaro gioco di fantapolitica non vi sono nostalgie del passato. Vi è solo l’invito ad una riflessione finora mancata o elusa. Non si dica, però, che gli effetti perversi non sono figli della "rivoluzione maggioritaria", ma del fatto che essa è rimasta a metà. Basta, per favore, con le vittorie e le rivoluzioni tradite o mutilate. Quando si è trasferito lo strumento referendario sul terreno delle riforme istituzionali, con la logica della spallata, era del tutto evidente che si sarebbero alterati gli equilibri complessivi del sistema, che vi sarebbero stati contraccolpi negativi, che non sarebbero stati avviati automatismi correttivi. La cosiddetta Seconda Repubblica è nata con questi vizi d’origine, che troppi non hanno voluto vedere e che sono all´origine del fallimento che abbiamo di fronte.
Ma, come si sa, dalle esperienze del passato non si impara nulla. Eccoci, allora, entrati di nuovo in un tunnel referendario ancora più rischioso di quelli passati. L’eventuale vittoria dei referendari, infatti, produrrebbe un sistema politico spaventosamente distorto, di cui gli osservatori più attenti stanno mettendo a nudo la probabile incostituzionalità. Ma non è soltanto il futuro ad essere a rischio. Già oggi la prospettiva del referendum è usata come arma per inquinare la discussione sulla riforma elettorale. Rischiamo così di non liberarci dei molti mali dell’ultima fase, ai quali, anzi, ne verrebbero aggiunti altri.
La discussione politica, mentre proclama di guardare avanti, è impigliata nel vecchio. I suoi maggiori protagonisti si muovono come se vi fosse una preziosa eredità da salvaguardare, come se il bipolarismo fosse un bene in sé e ai cittadini fosse stato fatto un dono straordinario, l’indicazione preventiva del premier come bacchetta magica per risolvere ogni problema. Ma questa rappresentazione di un’età dell’oro è dissolta da una osservazione della realtà che, invece, ci mostra gli infiniti danni del bipolarismo frettoloso e coatto. Veniamo da anni di conflitti laceranti, di erosione continua della legalità, di degrado culturale, di corruzione del linguaggio e dei comportamenti politici. Tutto questo non nasce dagli umori o dalle cattive propensioni delle persone, mali ai quali si potrebbe porre rimedio con inviti a rinsavire. Nasce da errori istituzionali gravi, che bisogna cominciare ad ammettere, invece di continuare ad adorare idoli che impediscono la percezione della realtà.
Senza questa consapevolezza non si andrà lontano. Vi è un problema di cultura politica che non può essere risolto con qualche prova di disgelo dei rapporti tra i due schieramenti. Istituzioni più solide per il domani possono venire solo da una consapevolezza critica di quel che è avvenuto, da un riconoscimento dell´insuccesso della Seconda Repubblica, che non nasce tanto da un difetto di decisione, ma da una perdita di democrazia. L’introduzione di ulteriori distorsioni del sistema democratico attraverso la riforma elettorale darebbe l’illusione di una soluzione e preparerebbe, invece, tempi ancora più difficili. La scoperta tardiva del sistema tedesco, sdegnosamente rifiutato agli inizi degli anni ‘90, è la prova evidente dei limiti della passata stagione istituzionale e, purtroppo, del tempo colpevolmente perduto.
La questione della cultura politica necessaria per sostenere anche una nuova fase istituzionale, quindi, non può essere chiusa nel gioco dei meccanismi elettorali. Deve essere affrontata non solo uscendo dalla spirale televisiva, ma ricostruendo strumenti di conoscenza e di comprensione di una realtà che ha la sua sostanza non nei battibecchi tra veri o presunti leader, ma nella durezza di una situazione che conosce infiniti guasti sociali e politici, rivelati impietosamente da fatti come la strage di Torino.
Di fronte a ciò è lecito dubitare dell’utilità della scrittura di nuovi "manifesti dei valori", annunciati da varie parti, che difficilmente potranno riscattarsi dalla mediocrità dell’oggi ed essere qualcosa di più di un acrobatico compromesso tra posizioni diverse. Serve piuttosto una linea di riflessione costituzionale, che prenda sul serio una serie di testi non da scrivere, ma già esistenti, dalla Costituzione italiana del 1948 alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, dai documenti internazionali sulla bioetica a quelli sull’ambiente. Questa è la riflessione perduta in questi anni, causa non ultima degli abissi in cui siamo precipitati.