Chi l’aveva detto, che Bossi riesce solo a sparare cazzate, o al massimo furbate? Prendiamo la storia delle megaregioni: cos’altro manifesta, in nuce, l’idea dei sindaci di fermare il traffico in tutta l’area padana, se non una specie di movimento federalista dal basso, in grado di costruire unità e identità ben oltre l’ingegneria istituzionale? Ha perfettamente ragione Paolo Hutter (“Liberi dalle marmitte”, Terra, 25 febbraio 2010) a ribadire e ancora ribadire come si nota qualcosa di davvero nuovo nell’approccio bi-partisan alla tutela della salute e dell’ambiente, indipendentemente dal successo - reale e/o di immagine - di cui discuteremo dal lunedì successivo in poi. Ed è appunto perché c’è qualcosa di nuovo, che sarebbe il caso di non buttare il bambino giù per lo sciacquone, insieme alle odiate marmitte e ai nemici più o meno inventati per l’occasione.
Verissimo che quelle marmitte sputafuoco ci avvelenano la vita, ma come ogni tanto spiega (molto interessatamente, si scopre sempre poi) qualche tecnico o scienziato, con l’odio si combina poco, perché in fondo servono anche a qualcosa di buono. Ed esattamente a quello che prometteva Henry Ford circa un secolo fa: a portare la gente dove le pare anche su distanze considerevoli. L’ho detta grossa? Ebbene si, l’ho sparata proprio malamente e un po’ da pirla, ma non del tutto. Vero che le promesse di Henry Ford si sono trasformate nell’incubo degli ingorghi, delle schifezze che respiriamo, delle guerre per il petrolio eccetera eccetera, ma senza macchine cosa succede? Succede, nel migliore dei casi (ma proprio nel migliore), la fotocopia dei primi anni ’70: ci si ferma a contemplare cosa potrebbe essere un mondo diverso, si riscoprono spazi, priorità, occasioni … Ma poi?
foto f. bottini |
Poi scopriamo, non tutti ma la gran maggioranza di tutti, che in qualche modo le marmitte delle macchine sono solo l’estremità sporca di un metabolismo lungo e complesso, e che non ci si può smarmittare così tanto alla leggera. C’è un grande sistema che mangia, digerisce, usa la sua energia, e poi naturalmente deve scaricare. Il tappo nel sedere per non scaricare, o il digiuno per non produrre quegli scarichi, ce li possiamo imporre per un po’, ma poi se le cose restano come stanno dobbiamo per forza riattaccare come prima. E la questione si ripropone: è possibile cambiare le cose, scaricare meglio scaricare tutti, o non scaricare affatto?
Inutile, oltre che schiettamente reazionario, fare prediche di vaga nostalgia sul ritorno alle sane abitudini dei nonni. Le apprezzavano così tanto, quelle abitudini, che le hanno cambiate. Quindi, per favore, non si potrebbe per una volta fare a meno del sermone d’ordinanza sulla riscoperta di certi ritmi, di certi angoli della città, del gusto di passeggiare eccetera eccetera?
Non perché non sia vero, e a modo suo anche abbastanza buono e giusto. No.
Il fatto è che così ci si fa automaticamente odiare dalla maggioranza di chi non ha alcuna città da riscoprire, ritmi da recuperare, amici reperibili con qualche falcata. Oggi, ed è ottima cosa che sia così, il territorio urbanizzato è luogo di flussi, mobilità, scambi. La vera questione è: si può mantenerlo tale anche da smarmittato? O è davvero come tapparsi il sedere, con tutto ciò che metaforicamente ne segue?
Qualche giorno fa stavo componendo diapositive per una lezione, e senza rendermene conto ho impiegato parecchi minuti solo per cercare (invano, ahimè) in rete una versione più leggibile della copertina di un rapporto, e altri parecchi minuti per cercare di migliorare la versione piccola e sfocata che avevo a portata di mano. Alla fine ho dovuto accontentarmi, ma con le matricole di Architettura a cui è destinata quella diapositiva fra tante dovrò trovare un modo altrettanto efficace dell’immagine chiara, per evidenziare quel titolo: Transit and Land Use Plan. Mezzi pubblici e sistema insediativo progettati o concepiti come una sola cosa, vale a dire binari, edifici, spazi aperti, marciapiedi, piste ciclabili, corsie degli autobus, fermate, scale, negozi, uffici, servizi, verde … Proprio il genere di cose che si vuole vedere quando ci si smarmitta, e che chi sta in città qualche volta riesce pure a sperimentare, nelle domeniche smarmittate. Ma gli altri, visto che di Transit and Land Use Plan non se ne è mai parlato e ancora non se ne parla se non in qualche convegno, gli altri sentono solo quella certa costipazione comportamentale.
E si incazzano. E poi al momento buono votano chi gli garantisce quel territorio urbanizzato luogo di flussi, mobilità, scambi. Non chi gli ripropone una specie di Arcadia caricaturale. Dentro la quale l’intellettuale sedicente “progressista” suona la cetra, o abita l’edificio col pronao palladiano che non manca mai. Mentre gli altri, smarmittati, possono solo far scorazzare le pecore, o se sono signore star chiuse in casa a far girare qualche marchingegno tessile a pedali … Esagerazione? Sicuro che lo è, ma serve a far capire che reazione generano certi entusiasti in chi non ha proprio motivo di essere entusiasta, visto che abita in un posto dove la marmittatissima macchina fa da surrogato a quasi tutto. Ma non ci pensano mai, questi signori, tanto per fare un esempio, alle generazioni, intere generazioni umane, che ormai hanno raggiunto una maturità erotica quasi esclusivamente automobilistica, che magari non riescono a raggiungere l’orgasmo se non c’è a portata di mano la leva del cambio? O ai comunissimi modelli di consumo dove a piedi risulta difficile o impossibile raggiungere la maggior parte dei prodotti e servizi, e non c’è a portata di mano alcuna alternativa all’auto (o all’autobus tradizionale che da un certo punto di vista è la medesima cosa ma peggio)?
Transit and Land Use Plan. Negli ultimissimi giorni si è parlato molto, moltissimo, di due nuove lottizzazioni marmittatissime che tra parentesi stanno a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Ammazzala se qualcuno, solo qualcuno, ha dedicato una virgola a questo aspetto, che pure poteva dirla molto lunga anche su tutti gli altri. La prima è la cosiddetta Milano 4, sui terreni di Arcore giusto davanti alla mitica Villa San Martino, chiusa a sandwich fra un tratto del Lambro forse scampato all’ecatombe e un bell’impianto dello sponsor Rovagnati. La seconda è quella che il Lambro, e poi il Po, e poi chissà cos’altro, li ha direttamente inondati di petrolio, ed è la Eco-City giusto di fronte a un altro impianto del prosciuttiere Rovagnati. Oltre alla vicinanza alla multinazionale del porco salato, le due lottizzazioni hanno però un tratto che le rende molto simili, e molto simili a tutti gli altri prodotti territoriali contemporanei: sono pensate solo ed esclusivamente in funzione della mobilità automobilistica, pur trovandosi entrambe (Eco-City addirittura gli sta sopra) molto vicine ai binari delle ferrovie suburbane.
Così anche se poi ci sono le piste ciclabili, l’energia o le finiture da catalogo di sostenibilità commerciale, anche il sogno immerso nel verde sputa veleni da tutte le marmitte che ci vanno e ci vengono. Perché l’unico modo di andarci e venirci è quello. Non a caso (lo spiego meglio per chi volesse sul mio sito http://mall.lampnet.org) la Milano 4 di Arcore è attaccata all’autostrada Pedemontana come un vitellino alla tetta della mamma, e la Eco-City di Villasanta sta affacciata sulla rotatoria che immette alla bretella per la Tangenziale Est. Entrambe ignorano quei rugginosi binari, là dove nella logica di un Transit and Land Use Plan ci sarebbe stata innanzitutto la grande piazza della stazione, e poi tutto attorno la città, e poi tutto attorno gli altri quartieri da trasformare in modi simili per traboccamento logico ed economico. E invece le nostre cittadelle hanno il solito aspetto da lottizzazioni suburbane chiuse su se stesse, pronte a chiudersi ancora di più se necessario, salvo uscirne rintanati nel simbolico SUV.
Ecco, se la domenica smarmittata padana può servire a riflettere su questi obiettivi di nuova libertà, mobilità, opportunità, fantastico. Altrimenti, se ci aspetta la predica vagamente autoritaria di chi lo fa per la nostra “salute” (non suona sinistramente troppo simile a chi fa altro per la nostra “sicurezza”?) finirà come le altre volte.
E pensare che negli anni ’60, proprio quelli a cui la crisi petrolifera mise culturalmente fine, la vulgata progressista e di sinistra più pervasiva coincideva, esattamente, con l’antiautoritarismo. Non sarebbe il caso di ricordarsene, e di mandare a quel paese certi profeti di sventura a gettone?
Nota: per i tre temi attorno ai quali si sviluppa questo pezzo, si vedano l'articolo di Paolo Hutter sulla domenica padana a piedi, quello di Gabriele Cereda sulla Eco-City e l'apocalisse del petrolio nel Lambro, infine quello del sottoscritto Fabrizio Bottini sull'urbanistica berlusconiana declinata a Milano 4 (f.b.)