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Eddytoriale 05 (2 marzo 2003)
11 Gennaio 2005
Eddytoriali 2003
2 marzo 2003 – Pochi giorni fa è morto Michele Martuscelli. Per me, è stato anche l’uomo che esprime la fase della storia italiana nella quale politica e urbanistica erano in un rapporto fecondo. Gli anni sono stati quelli che iniziano alla fine dei Cinquanta e si concludono a metà dei Settanta del secolo scorso.

Sono gli anni che iniziano con la Nota aggiuntiva del ministro La Malfa al Bilancio dello Stato (in cui si additano per la prima volta gli squilibri territoriali come un problema politico centrale per lo sviluppo del paese), con la denuncia degli effetti del quindicennio postbellico e delle devastazioni del territorio in esso compiuta, con la sconfitta della proposta radicale (per l’Italia) di riforma urbanistica ma con il rilancio della pianificazione delle città, la disciplina delle espansioni edilizia, l’introduzione della garanzia di civiltà degli standard urbanistici, lo svelamento degli errori di incostituzionalità del sistema di diritti dominicali. E si concludono (dopo anni costellati di “rumor di sciabole” e di attentati terroristici di matrice fascista) con il logoramento del tentativo di modernizzare il paese mediante leggi che riformassero non, come oggi, la superficie dei meccanismi del potere, ma la struttura sociale ed economica.

In quegli anni politica e urbanistica erano vicine perché servivano l’una all’altra.

La politica, quella che aveva le sue radici nella opposizione al fascismo, aveva scelto di spostare gli equilibri sul terreno dei meccanismi profondi dell’economia, riducendo il potere della rendita a vantaggio del profitto e del salario; come era storicamente avvenuto negli altri paesi europei. Aveva compreso che un assetto ordinato del territorio e delle città era essenziale perché la produzione riducesse i propri costi e la vita delle famiglie fosse più serena. Aveva dunque necessariamente trovato nella pianificazione territoriale e urbanistica uno degli strumenti essenziali per il governo delle trasformazioni della città e del territorio.

L’urbanistica, ancora immersa dell’esperienza della Resistenza, pienamente uscita dall’autarchia culturale, era insofferente della mortificazione implicita nell’arroccamento nella sterilità della denuncia o nell’evasione nei giochi dell’accademismo, nella riduzione dell’azione alla predicazione dell’utopia o al piccolo compromesso professionale. I suoi “militanti”, gli urbanisti, erano divenuti consapevoli che, se il loro mestiere consentiva loro di comprendere le ragioni della devastazioni che vedevano e di possedere le tecniche che avrebbero potuto evitarle e correggerne gli effetti, la possibilità di renderlo operativo dipendeva dal fatto che la politica comprendesse la portata generale della questione e si impadronisse della ricerca delle soluzioni possibili.

Lo studio al sesto piano del palazzone all’inizio di via Nomentana, l’ufficio di Michele Martuscelli, Direttore generale dell’Urbanistica del Ministero dei lavori pubblici, fu uno dei luoghi dove questo incontro divenne concreto. Uomini politici come Giacomo Mancini e Pietro Bucalossi, Francesco Compagna e Lorenzo Natali, Leone Cattani ed Enzo Storoni, Michele Achilli e Alberto Todros, e urbanisti come Giovanni Astengo ed Edoardo Detti, Luigi Piccinato e Giuseppe Samonà, Marcello Vittorini e Italo Insolera, Antonio Cederna e Antonio Iannello (ed economisti come Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato, giuristi come Massimo Severo Giannini e Alberto Predieri) discutevano lì i tasselli di un disegno riformatore che non giunse mai ad affermarsi compiutamente, ma di cui non si riuscì (almeno fino ad oggi) a distruggere altrettanto compiutamente gli elementi di civiltà e di modernità (di Europa) che aveva introdotto.

La scomparsa di Michele Martuscelli, e il clima culturale di anni lontani che il suo ricordo sollecita ad evocare, induce a ribadire una convinzione. Uno degli handicap che ancora pesano sul successo di una politica di riforme vere nel nostro paese, che rendono poco credibili gli sforzi volti a contrastare lo sfrenato individualismo del privilegio (evidente bandiera del berlusconismo), che imprimono un sospetto di opportunismo e di labilità alle formazioni politiche dell’opposizione, sta nel fatto che esse sembrano trascurare le questioni del governo delle città e del territorio: sembrano considerare irrilevanti, o fastidiose, questioni che sono vitali per la vita delle cittadine e dei cittadini, e per il futuro del nostro paese.

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