Sono due fatti molto distanti tra loro, ma entrambi indicativi delle difficoltà che si presenteranno: la prima quando, ricondotte le istituzioni italiane a un minimo di decenza, si vorranno affrontare i nodi politici in un rapporto civile tra posizioni alternative; la seconda, quando si avvieranno le politiche per il futuro.
Sul Corriere della sera Piero Ostellino ha colpito con pesantissime accuse il giurista Ugo Mattei (che i frequentatori di eddyburg conoscono bene). Oggetto della critica un articolo di Mattei sul manifesto. L’autore aveva osato affermare (nella sintesi di Ostellino) che «il diritto costituzionale d'accesso alla casa di abitazione si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e dagli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena destinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può essere generato dalla riflessione astratta di chicchessia».
Mattei aveva insomma espresso un principio antico, che era stato bandiera di rivendicazioni di massa negli anni Sessanta, abbandonato nella ventata neoliberista che si è abbattuta sul mondo, e ripreso negli ultimi decenni sia nella letteratura internazionale che nelle migliaia di episodi di contestazione dei danni apportati dalle pratiche neoliberiste alle condizioni di vita nella società e nella città: il principio del “diritto alla città”. La rivendicazione espressa da quel “diritto” ha, tra le sue componenti, proprio l’appropriazione. Che Ostellino non conosca Lucien Lefebvre e gli altri studiosi che hanno esplorato l’argomento, che non sia informato delle pratiche sociali in atto nel mondo, tutto ciò non costituisce scandalo. E neppure lo costituisce che non condivida la tesi di fondo, e che si proponga anzi di contrastare i movimento che la agita, per difendere invece i vecchi interessi dominanti. Ciò che invece colpisce, e preoccupa ogni spirito autenticamente liberale, è la conclusione che Ostellino trae dalla critica.
Una conclusione minacciosa, ci verrebbe voglia di definire “fascista”. Chi sostiene quella tesi – secondo Ostellino – è oltre la Costituzione, oltre il welfare state, oltre la realtà effettuale, oltre il formalismo giuridico. Quindi, secondo Ostellino, chi sostiene quella tesi è un terrorista. Se non direttamente, è certamente un “cattivo maestro”: di quelli, dice il buon maestro, che vogliono perpetuare la «”guerra civile“ che insanguinò l'Italia nell'immediato dopoguerra e ne impediscono la modernizzazione».
Guai a tutti voi insomma, se volete andare oltre la Costituzione e non siete Calderoli, se mirate alla sostanza delle cose, se pretendete di migliorare il welfare state (intanto difendendolo dalla demolizione). Sarete implacabilmente denunciati all’opinione pubblica come demoni terroristi, o loro perfidi mandanti.
Non ci sembra difficile comprendere, se non le ragioni, il movente dell’anatema lanciato dal giornale di via Solferino. Il fatto è che il principio stesso della proprietà privata è messo in discussione dalla ventata di rivendicazioni dei beni comuni, proprio nel momento in cui la classe che il Corriere esprime si è gettata con precipitazione sul loro saccheggio attraverso la catena mercificazione / privatizzazione / appropriazione. Gettate alle ortiche le vesti del liberalismo si svela i vero volto del potere. É un colpo di coda del passato che non vuole morire, gravido di rischi per la democrazia italiana. Un’ipoteca pesante sul dopo Berlusconi, per chi ritiene che la democrazia abbia alla sua base il reciproco rispetto delle posizioni dverse..
Di carattere diverso è l’altra ipoteca espressa dal secondo avvenimento cui ci riferivamo. Sulla rivista Micromega, in un numero dedicato al “Programma per l’altra Italia”, non è stato pubblicato un articolo espressamente richiesto a Paolo Berdini, dal titolo “Città e territori come beni comuni. Nove proposte per salvare il Belpaese”. I frequentatori di eddyburg conoscono l’articolo di Berdini: la redazione della rivista non lo ha pubblicato sull’edizione cartacea, più diffusa e autorevole, ma l’ha inserita nella newsletter. Così lo abbiamo letto, apprezzato e diffuso.
L’evento ci ha colpito particolarmente perché è la seconda volta che capita, sulla stessa rivista e sullo stesso argomento. Eravamo nel 2002, in una fase difficile per l’urbanistica. Era giunto a piena maturazione il mutamento iniziato con la svolta del craxismo vent’anni prima e proseguito con l’abbandono da parte della sinistra d’ogni rigore sui temi del territorio. Uscì un numero monografico della rivista Micromega, dal titolo “”Un’altra Italia è possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col secondo governo Berlusconi. Da quel programma l’urbanistica, la pianificazione del territorio, le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta a Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista, sulla quale raccogliemmo l’adesione di 75 urbanisti. Nella lettera dichiaravamo di essere fortemente preoccupati per un’assenza, che ci sembrava clamorosa. E proseguivamo:
«Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano (e giustamente) la sanità e la giustizia, l’immigrazione e il lavoro, l’università e le carceri, l’ambiente e i beni culturali (e altri numerosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti, non si riduce all’ambiente (nell’accezione che questo termine ha assunto negli ultimi decenni, e che è ben rappresentato nel testo di Ermete Realacci) né ai beni culturali (nonostante l’accezione giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma per “un’altra Italia” che riguardi il territorio e la città significherebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dell’ecologia e di quelle dell’armatura urbana del nostro territorio, della tutela della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle città».
Concludevamo scrivendo che l’assenza del territorio e della città, dell’urbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del programma proposto ci sembrava un’assenza grave e proponendo di aprire, sulla rivista, una discussione sulle ragioni di questa assenza. «Che non sono certamente – concludevamo - né la distrazione né la fretta ma, forse, qualcosa di più profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci». Non ricevemmo alcuna risposta.
Oggi la storia si ripete. Ma nel frattempo qualcosa è cambiato. Migliaia di vertenze si son aperte in ogni città e regione per contestare e scelte della dissennata politica territoriale del neoliberismo straccione dei Berlusconi e proporre indirizzi alternativi. I temi della difesa dei beni comuni costituiti dalle qualità naturali, culturali e sociali delle città e dei territori, della loro vivibilità minacciata della deregulation, della riduzione dei rischi all’integrità fisica del territorio che frana ad ogni pioggia e a ogni passaggio di grande opera pubblica sono temi ormai attribuiti esplicitamente alla mancanza di una corretta pianificazione delle città e dei territori.
Bisogna dire che i pensosi redattori di MicroMega non sono gli unici, a sinistra, a mostrare questo ritardo culturale. Esso è espressivo di un vizio ampiamente diffuso su quel versante dello schieramento politico. Esso si manifesta in numerosissimi episodi, soprattutto a livello locale, di pieno accodamento dei politici e degli amministratori dei partiti di sinistra (anche di quella “radicale”) sulle questioni del territorio. Noi vi leggiamo l’incapacità, a un tempo, di cogliere le aspirazioni, le speranze, le aspettative che maturano sempre più vistosamente nella società civile, e di proporre soluzioni adeguate ai problemi che più direttamente colpiscono il patrimonio delle città e dei territori provocandone il degrado e minandone l’efficienza. E vi leggiamo anche una subalternità culturale a quella ideologia dell’indefinita crescita quantitativa che è diventata la matrice di un pensiero – se non ancora “unico” – certo largamente dominante.
Tra i colpi di coda reazionari della destra che si richiama al liberalesimo e la persistente cecità della sinistra, anche la stagione del dopo-Berlusconi si presenta davvero gravida non solo di incertezze, ma anche di rischi.