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Eddytoriale 146 (30 agosto 2011)
30 Agosto 2011
Eddytoriali 2010-2012

L’inclusione nel decreto di una norma che consente il traffico delle cubature è, al tempo stesso, la fanfara che scatena le armate dei barbari alla distruzione del territorio in tutti i suoi aspetti (come patrimonio della civiltà e come habitat dell’uomo) e la dimostrazione del ritardo della cultura (anche quella urbanistica, anche quella della sinistra, anche quella liberale) a comprendere la portata delle ragioni della crisi e quindi della sua “soluzione”.

Il nodo della questione è quella che i giuristi chiamano “appartenenza dell’edificabilità”. A chi appartiene la potestà (il diritto) a trasformare il suolo di sua proprietà al di là dei tradizionali usi rurali? Da alcuni secoli in tutto il mondo toccato dalla civiltà nordatlantica la natura, spesso fortemente privatistica, della proprietà del suolo è stata temperata dalla decisione che la quantità, i modi e i tempi delle trasformazioni di tipo urbano vengono decise dall’autorità pubblica: è a questa, in ultima istanza, che spetta la responsabilità di decidere in che modo il territorio deve essere trasformato per diventare più efficacemente l’habitat dell’uomo. Questa decisione storica (che ha accompagnato i forti processi di urbanizzazione generati dall’affermazione del sistema capitalistico borghese) ha assunto procedure Da quando si sono affermate forme più estese di partecipazione del popolo (degli elettori) al governo le decisioni sulle trasformazioni di tipo urbano sono state caratterizzate da una “pianificazione” (cioè a una visione e disciplina olistica delle trasformazioni) “democratica” (cioè caratterizzata da subordinazione ai poteri eletti e trasparenza nel procedimento di formazione delle scelte). Il principio implicito in quella decisione storica, e nelle sue conseguenze procedurali, era evidentemente che l’edificabilità “appartiene” al potere pubblico: alla collettività, e non al singolo proprietario o possessore.

Questo principio non è mai stato affermato in modo esplicito nel diritto italiano; ma non è stato neppure contraddetto. Quando in un famoso progetto di piano regolatore (quello di Roma, nei primi anni 2000) si è parlato di “diritti edificatori” che debbano essere riconosciuti de jure ai proprietari beneficiati” da una decisione urbanistica ho cercato di capire se era vero. Con l’aiuto dell’indimenticabile Luigi Scano ho studiato la questione e ho potuto dimostrare che tutta la giusrisprudenza era concorde nell’ammettere che la decisione di rendere edificabile a fini urbani un suolo era una decisione che spettava all’autorità pianificatrice, e che pertanto questa poteva modificarla senza pagare alcun indennizzo al proprietario. Alle stesse conclusioni è arrivato un illustre giurista, uno dei pochi esperti veri di diritto urbanistico italiano, Vincenzo Cerulli Irelli

Tuttavia l’espressione “diritti edificatori” (appartenenti ai privati proprietari) ha circolato ed è diventa pensiero corrente: a destra e a sinistra, tra gli inesperti e tra gli esperti, tra i politici e tra gli urbanisti. É diventato un passepartout per motivare pratiche “perequative” sempre più estese e – su un terreno solidamente strutturale – per allargare il dominio della rendita urbana nell’economia e nella società.

In molte città e paesi (non in tutti, per fortuna) si è cominciato a ragionare e a decidere in termini di mercato delle cubature. Questo sembrava finalmente libero (grazie al luminoso esempio del PRG “riformista” di Roma) dai rischi corsi da chi aveva praticato l’urbanistica contrattata negli anni di Mani pulite.

Ma la volontà di includere una norma che “liberalizza” il trasferimento di cubature da una parte all’altra del territorio dimostra che prima questa “libertà” non c’era. Prima, cioè oggi, chi ha ottenuto dal comune, attraverso la decisione di un piano, la facoltà di edificare sul suo terreno non era (non è) “libero” di trasferirla da un’altra parte. Ergo, non era legittimo farlo. Ergo, la “perequazione allargata”, la concessione di “crediti edilizi” in cambio di cessione di aree, quindi in definitiva l’appartenenza privata di “diritti edificatori” era (è) illegittima. A partire dal PRG di Roma, in cui i “diritti edificatori” furono fortemente voluti dagli urbanisti che lo proposero, ma consapevolmente accettati dal sindaco che li difese.

Giustamente lo stesso giornale della Confindustria dimostra preoccupazione per la “Cubatura in libera vendita”. Liberati dal fastidioso pensiero di dover pagare per un atto illegittimo i promotori immobiliari si affaccenderanno più tranquilli a mediare tra gli interessi dei possessori di fondi (di soldi) e le amministrazioni comunali. Certo, quelle dove un’avveduta “cultura della pianificazione” (e dell’interesse collettivo) resta ancora solida negli eletti, lì si potrà impedire con i piani urbanistici che la commercializzazione del diritto a edificare produca effetti: ove il Prg non consente i trasferimenti di cubatura e simili procedure, il “diritto di edificare” rimane un flatus vocis. Ma quanto, e quanti, resisteranno? Quanti hanno resistito, per restare nel campo dello stravolgimento delle norme della politica urbana, alla facoltà di destinare a spese correnti le somme raccolte per realizzare le opere di urbanizzazione tecnica e sociale?

La legittimazione del traffico di cubature è veramente un tassello di grande rilievo nella campagna di “superamento della crisi” per mezzo del saccheggio dei beni comuni. Ancora più se lo leggiamo legato all’altra grande questione sulla quale si dibatte da mesi: come utilizzare l’alibi della crisi senza toccare i portafogli del compound finanziario e di quello militare, cogliere qualche refolo del vento dell’antipolitica, e finalmente smantellare quel poco, o tanto, del patrimonio di governo pubblico istituzionale che ancora sopravvive. Nessuno sano di mente può pensare di difendere l’assetto istituzionale italiano così com’è. Ma una cosa è affrontare i suoi veri nodi, liberare i luoghi della democrazia esistente dall’abbraccio mortifero di partiti che non rappresentano più la società, rendersi conto delle ragioni che giustificano un assetto istituzionale multiscalare (corrispondente quindi alla realtà profonda del territorio), e configurare un nuovo ordinamento delle istituzioni elettive da attuare perché la volontà comune si esprima e diventi operativa in modo più efficace, altro è smantellare pezzo per pezzo ciò che decenni di storia hanno costruito. Proseguire lo sgretolamento dei luoghi del potere pubblico è comunque operazione utile ai saccheggiatori del territorio per ridurre i “lacci e lacciuoli” che ne possono ostacolare le scorrerie.

É giusto l’allarme che da molte parti si leva per il decreto che nei prossimi giorni sarà discusso dal parlamento nazionale. Giusto l’appello che nasce dal movimento che ha dato vita alla stagione dei referendum, preparati dalla miriade di lotte per la difesa dei beni comuni territoriali che hanno caratterizzato l’Italia dell’ultimo decennio. Giusta anche la preoccupazione che la stagione dei referendum e delle recenti elezioni amministrative si disperda come un fiume nella sabbia e non trovi la propria configurazione organizzativa. Ancor più giusta, se è possibile dirlo, la decisione della Cgil di proclamare per il 6 settembre prossimo uno sciopero generale nazionale. Ostacolare la via delle panzerdivisionen dei saccheggiatori del territorio fisico e storico, materiale e morale, culturale e sociale del nostro paese è il primo impegno di chiunque tema il futuro che ci preparano, e voglia contrastarlo. A volte, anche di recente, i ribelli inermi hanno vinto; anche in Italia.

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