C’è un parco urbano in riva al lago di Varese. E’ un luogo molto frequentato da diverse categorie di cittadini che vi giungono per godere degli ampi spazi a prato, dell’ombra degli alberi, della vista del lago con il Monte Rosa sullo sfondo. Si trova di fianco al vecchio lido con la piscina scoperta affollata in estate ed è attraversato dalla pista ciclabile che corre tutto attorno al perimetro lacustre. Sotto la chioma degli alberi sono sistemati una seria di tavoli e panchine e sono numerosi coloro che vi arrivano attrezzati per il pic nic. Un tempo vi erano anche le strutture per cuocere i cibi alla brace, rito di socializzazione oggi relegato ai giardini delle case unifamiliari che deve per forza essere chiamato barbecue, anche se è presente nella cultura di molti popoli. I fuochi nel parco, si rese conto l’amministrazione comunale nel 2010, con tutte quelle piante potevano essere pericolosi e poi c’era il problema dei residui della cottura. Quindi via i bracieri ma, soprattutto, via gli stranieri, forse le maggiori presenze nei momenti in cui nel parco aleggiavano le basse ed olezzanti nuvole di fumo di carbonella.
In città vi è un’altra area verde ad alta frequentazione multietnica e si trova nel mezzo di un quartiere popolare, nascosto alla vista da chi passa sul viale che divide in due settori quell’insediamento di edilizia economico-popolare. Vi giocano a calcio molti ragazzi stranieri, a volte mischiati agli italiani, in squadre improvvisate o in tornei auto-organizzati. Sulle altalene un po’ arrugginite si divertono i bambini del quartiere e molti di loro sono stranieri. Secondo il piano regolatore l’area non è un parco pubblico, anche se di proprietà comunale, ed è edificabile. Vi erano le difficoltà finanziarie del comune, come ha sostenuto l’amministrazione della città nel 2010, alla base della scelta d’inserire l’area nel piano delle alienazioni, ma, secondo l’opinione dei molti residenti che, grazie ad una raccolta di firme hanno bloccato la vendita, è più probabile che ci fosse la volontà di disfarsi della manutenzione di un luogo prevalentemente frequentato dagli immigrati.
Altri settori della città molto frequentati dagli stranieri, che sono il 12% della popolazione residente, sono stati trasformati o sono in procinto di esserlo. Le panchine di due viali vicini ad un quartiere con il 40% di popolazione straniera sono state tolte o sostituite con sedute individuali ben distanti le une dalle altre, e tutto ciò a seguito della cosiddetta ordinanza anti-bivacco. Il grande piazzale posto tra le due stazioni ferroviarie, che ospita il terminal delle linee del trasporto extraurbano ed il mercato tre volte a settimana, diventerà il fulcro del progetto di unificazione delle stazioni ed ospiterà un edificio multifunzionale con posteggio interrato. Dove verrà spostato il mercato o se sarà semplicemente eliminato non è dato saperlo ma nel frattempo si moltiplicano le dichiarazioni contro l’eccessiva presenza di ambulanti stranieri da parte di esponenti della Lega Nord, partito che governa la città da 20 anni.
Alla fine degli anni ’80 il mercato cittadino era stato trasferito dalla piazza che l’aveva ospitato per secoli al grande piazzale tra le stazioni per far posto ad un centro commerciale con annesso posteggio interrato multipiano. La piazza già del mercato oggi è di fatto null’altro che la copertura del sottostante posteggio, separata dal livello della strada da una serie di fioriere ed elementi di arredo che definiscono una sorta di percorso verde per raggiungerne l’ingresso. Questo luogo un po’ appartato si è nel tempo tramutato in punto d’incontro per gruppi di stranieri, in prevalenza maschi ed africani, ed ora viene costantemente stigmatizzato come il luogo più degradato del centro cittadino. Anche in questo caso si attende l’attuazione del progetto di riqualificazione della piazza che prevede la sostituzione dell’adiacente caserma, dismessa da decenni, con il teatro realizzato al posto del vecchio mercato coperto, il cui spostamento genererà la valorizzazione immobiliare dell’area su cui sorge.
Nelle strategie di governo di questa città, dove ancora sono evidenti gli effetti di un importante passato industriale, la presenza degli stranieri è affrontata come un problema, un elemento di disturbo e di degrado. La Lega Nord, che esprime da 20 anni il sindaco ha imposto al governo della regione modifiche alla legge urbanistica per contrastare il sorgere di luoghi di culto e di esercizi commerciali gestiti dagli immigrati e, contemporaneamente, le condizioni di accesso all’edilizia residenziale pubblica si sono orientate a misure di maggiore difficoltà per chi non è italiano.
Il frequente riferimento alla qualità dell’ambiente costruito della città, da parte dei suoi amministratori, ha come risvolto la chiusura a qualsiasi trasformazione che ne snaturi il suo essere “a misura d’uomo”, con il centro curato come se fosse il salotto di casa, l’area pedonale per lo shopping di lusso ed i quartieri residenziali “immersi nel verde”. Tutto molto diverso e culturalmente distante dalla metropoli che si trova solo a poche decine di chilometri, evocata quando il fatto di cronaca nera sbatte lo straniero in prima pagina, per poi aggiungere che “da noi” queste cose non succedono.
Il fenomeno, tuttavia, non è nuovo. Era iniziato con il boom economico, più di mezzo secolo fa, quando la città aveva preso ad essere luogo di elezione per decine di migliaia emigrati dal Sud d’Italia in cerca di lavoro nelle fabbriche del Nord. La conseguenza fu una grande trasformazione sociale e demografica mal sopportata da coloro che volevano preservare la città dalle turbolenze dello sviluppo economico. I suoi amministratori puntarono tutto sul marchio “città giardino” per attirare chi scappava dalla vicina metropoli sovraffollata, inquinata e violenta. Il modello residenziale proposto, in alternativa alla densità volumetrica e demografica della grande città, era la casa unifamiliare ed una buona dotazione di servizi, tutti facilmente accessibili in pochi minuti di tragitto in auto. E soprattutto c’era una limitata commistione con chi veniva “da fuori”, al massimo concentrati nei quartieri di edilizia popolare o nei nuclei storici abbandonati da coloro che, nel frattempo, si erano costruiti la casetta con giardino.
Su questo terreno culturale, dove ciò che è locale, autoctono, è oggetto di culto ed i valori da difendere sono quelli della ”nostra gente” , si è propagato il consenso al partito che ha preso il posto della vecchia classe politica, cancellata dalle inchieste sulla corruzione di inizio anni ’90. Senza mai evocarla, in questi decenni si è radicata l’idea che esista una “razza” che abita da sempre questa terra e discende direttamente dalle tribù che nel neolitico s’insediarono sulle sponde dei numerosi laghi di questa regione subalpina, lasciando tracce oggi conservate nel museo civico. Agli abitanti della città è bene ricordare che il ceppo insubrico-padano è l’origine della loro comunità e, a questo scopo, l’amministrazione pensò di allestire una capanna palafitticola nel parco sul lago, poi data alle fiamme. Sembra che gli autori del gesto vandalico fossero italiani, secondo la testimonianza resa ai carabinieri da alcuni ragazzi stranieri presenti sul luogo.
Quella del rapporto difficile, nella gestione delle trasformazioni urbane, tra diverse "etnie" e popolazione autoctona, non è notoriamente questione che riguardi solo Varese o le amministrazioni a cui partecipa la Lega. Solo per fare un esempio, il caso del muro di via Anelli a Padova (sindaco Zanonato, oggi ministro) dimostra come il problema sia più diffuso e come la matrice comune, al di là dell’orientamento politico delle amministrazioni, sia la nota questione della sicurezza, reale o percepita. La relazione diretta tra Varese e il razzismo però si manifesta patologicamente, anche sulle cronache dei quotidianii1 E’ facile sottolineare il razzismo delle recenti dichiarazioni di esponenti della Lega a proposito della ministra Kyenge, ma forse è più interessante analizzare come la città roccaforte di questo partito – e delle mitologie che lo sostengono - abbia affrontato la questione di una ragguardevole presenza di cittadini stranieri e la relazione tra politiche della Lega e scelte precedenti, delle amministrazioni democristiano-socialiste poi spazzate via da tangentopoli, riguardo alle trasformazioni della città.
Che sia la fondazione del mito autoreferenziale della “città giardino” (così si autodefinisce la città nella tradizione locale, nulla a che vedere con utopie urbane internazionali), in opposizione alla vicina metropoli ed alle commistioni della sua popolazione, il terreno sul quale ha attecchito quel mix di esaltazione delle radici e di oscurazione degli elementi alloctoni di cui è fatto il localismo identitario della Lega? La risposta alla domanda necessita un’indagine approfondita e per il momento mi limito a ricordare quante analogie io abbia trovato tra le descrizioni dei territori dell’America bianca fatte da Rich Benjamin nel suo Searching for Whitopia (qui la recensione per Carta) e questo pezzo di Lombardia nord-occidentale. Qui si è formata, a metà anni ’90, l’idea che la regione dei laghi prealpini definisca un preciso ambito geografico transregionale e transnazionale denominato Insubria, cioè terra di quel popolo celtico cui s’ispira l’associazione, nata in quegli stessi anni, molto attiva nel promuovere iniziative culturali di tipo identitario.
Questa Utopia alpino-padana è stata troppo spesso scambiata con il folklore di un movimento politico dal vasto radicamento popolare, mentre è il frutto di un vero progetto territoriale, fondamentalmente antiurbano e ruralista, che mette al centro il ritorno alle radici, alla terra nel senso di luogo fondativo dell’identità di un popolo. Che al centro di questo territorio ci sia una città e la sua area urbana, che conta quasi 250.000 abitanti, è del tutto ignorato e guai se a ricordarlo sono gli stranieri che della città usano gli spazi pubblici ed i servizi, ovvero tutto ciò che differenzia la condizione urbana dal mito ancestrale della vita rurale che si vorrebbe far diventare realtà.
1 Almeno dal 1979, quando i tifosi della locale squadra di basket ospitarono la squadra di Tel Aviv Maccabi con cori inneggianti lo sterminio nazista.