“E quando l’Agnello ebbe aperto il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per lo spazio di circa mezz’ora”. (Apocalisse, 8, 1).
E’ destino di questa misera umanità conoscere in frangenti sempre più rari, privati e preziosi, la liberazione del silenzio. Una parola inarrestabile e ininterrotta, una parola sempre più volatile e priva di peso, svalutata e abbrutita dal suo incoercibile continuare a parlare, voce rauca dall’obbedienza all’implacabile imperio che vuole che lo spettacolo comunque continui, uno spettacolo che parla mostrando la propria stessa nudità, il proprio stesso abissale non avere più niente da dire – questa parola che nel proprio eccesso non riesce più a farsi ascoltare – occupa d’autorità l’intera scena dell’attuale frangente della ‘commedia umana’.
Da questa parola – che parla senza ormai più dire – apparentemente non c’è, nella quotidianità del nostro occidente, via di fuga o strategia di salvezza.
Così, accade che l’agonia di Giovanni Paolo II – meglio, la parola che dice attorno a quell’agonia – invada di sé l’intero tempo di questi ultimi giorni, di queste ultime ore: una parola che pretende dire dell’agonia di chi, paradossalmente, si appresta a perdere la vita terrena quasi subito dopo aver perso la voce – dell’agonia di un uomo la cui parola, in qualunque contesto accepita, non poteva per definizione essere considerata se non pesante, densa di valore, destinata (in modo affatto inattuale) a lasciare segni.
Ironia della sorte – figura retorica laica; ma ironia forse del volere divino, agli occhi (alle orecchie?) del credente. E soprattutto quando si sa, dall’eccellente pierre Navarro Valls, ma non solo, che il combattitmento delle ultime ore del papa, la sua letterale agonia, usa le proprie ultime energie nel tentativo di accedere ancora alla parola, di comunicare: brandelli di frasi, dice Navarro Valls, che abbiamo ricostruito; biglietti dal letto di morte, secondo alcuni giornali.
Ma inesorabilmente – si senta o meno Karol Woitiła, come i patriarchi, non solo ‘vecchio’, ma anche “sazio di anni” -, inesorabilmente la sua voce pesante è destinata a tacere.
I giorni di nostra vita – ammonisce il salmo 90 – fanno in sé settanta anni, e se siamo robusti ottanta. E la tradizione vuole che il salmo 90 sia attribuito a Mosè – patriarca che senza dubbio morì vecchio, ma che al tempo stesso, non potendo godere i frutti dell’immensa impresa dell’esodo che aveva condotto per conto e con la stretta collaborazione di Dio, molto probabilmente non potè dirsi “sazio di anni”: qualcosa, e anzi la cosa principale, la conclusione della sua intera impresa, restava per volontà divina precluso ai suoi passi, raggiunta la terra di Canaan, Mosè non potè entrarvi. Per quanto vecchio fosse, la sua sazietà non avrebbe comunque potuto esser piena, la sua misura sarebbe rimasta non colma.
Ora, può essere che il papa avverta a sua volta una propria specifica mancanza di sazietà, e che questa riguardi proprio quella che potrebbe leggersi come estrema condanna al silenzio.
Per contro, la parola leggera e inesorabile che costituisce ormai il nostro ambiente di vita – un ambiente le cui peculiari condizioni di inquinamento e sostenibilità andrebbero infine silenziosamente esplorate – dilaga traboccando con dovizia alluvionale: feconda forse sottili strisce di terra, come si diceva del Nilo – ma per la più parte, come è proprio delle alluvioni, devasta, cancella, fa tabula rasa di tutto quanto sommerge.
E, in tutto questo, non tutto il male nuoce. Il diluvio di parole sul papa ha, almeno per una breve parentesi, costretto al silenzio altre chiassose e fin troppo consuete ‘corali’: il vociare sempre più stanco della politica, il reiterare onanistico di una campagna lettorale perenne – ma, per esempio, anche il vociare della domenica calcistica, con i suoi annessi sguaiati e urlati modello Simona Ventura. Anche su questa terra, anche prima dell’Apocalisse, non si può dire davvero che il silenzio sia necessariamente un male.
E il suggerimento che viene dal ‘cielo’ che contempla l’apertura dei sigilli - il suggerimento che viene dal silenzio del sabato della recente liturgia pasquale – è che perfino la parola più definitiva e pesante, perfino la parola ultima, perfino la parola di Dio, ha bisogno, proprio per lasciare segni, del contraltare altrettanto pesante del silenzio: un silenzio che sia capace di uscire dal ‘minuto’ canonico post mortem (li vediamo già, i nostri parlamentari, in piedi, mutamente commemoranti), per entrare nel tempo del prima – poiché non si dà musica senza pausa, e, credenti o meno che si sia, credo che un uomo come è stato questo papa non meriti di morire sommerso e imbrattato da tale e tanto rumore.