MOLTI LAVORI, UN MESTIERE
Una tesi
Ringrazio innanzitutto il direttore del corso di laurea, prof. Luciano Vettoretto, e il preside della facoltà di Pianificazione del territorio, prof, Domenico Patassini, che mi hanno chiesto di svolgere questa lezione. Esporrò subito la mia tesi.
I lavori che oggi fa l’urbanista sono molti. Parecchi dei nostri laureati lavorano nelle pubbliche amministrazioni: ma molti anche negli studi professionali, nelle aziende che si occupano di ambiente o di trasporti o di iniziative commerciali, qualcuno nelle agenzie immobiliari. E qualcuno anche nella scuola e nell’università.
I lavori sono molti. Ma esiste un mestiere dell’urbanista, del planner. Esiste una riconoscibilità di questa figura professionale, un ruolo sociale peculiare – che non è né dell’architetto né del manager, né dell’ingegnere né del sociologo, né del giurista né del geografo, né dell’economista né del geologo, né del naturalista né dello storico – benché di tutti questi saperi e mestieri l’urbanista abbia certamente bisogno.
Esiste un mestiere dell’urbanista: questa è la tesi che mi propongo di argomentare.
Alcune interpretazioni
E allora vale la pena innanzitutto di fare cenno ad alcune interpretazioni della figura dell’urbanista (e dell’urbanistica) che sono state date in anni più o meno vicini.
C’è chi, come Leonardo Benevolo, lega il mestiere dell’urbanista alla necessità di sanare i guasti prodotti nell’ambiente della vita dell’uomo dalle conseguenze della “rivoluzione industriale”, e all’emergere dell’aspirazione (da parte di élite visionarie o di gruppi organizzati di uomini) a una condizione urbana caratterizzata da salubrità, socialità, benessere condiviso.
C’è chi, come Hans Bernoulli, dedica il mestiere dell’urbanista al tentativo di recuperare la grande rottura storica avvenuta quando il trionfo della borghesia, sciogliendo i vincoli feudali che legavano la società e ponendo l’interesse individuale come motore dello sviluppo, infranse anche il sistema delle regole comuni basate sulla proprietà indivisa del suolo urbano, capace di rendere la città bella e funzionale.
C’è chi, assumendo come metafora della nascita dell’urbanistica il piano di New York del 1811, individua il mestiere dell’urbanista come il tentativo di affrontare i disagi derivanti dai conflitti d’uso della città, disagi che la spontaneità dei meccanismi del mercato non riuscivano a risolvere, a causa della contraddizione tra il carattere intrinsecamente sociale, comune, collettivo della città e la logica invincibilmente individualistica che del mercato è padrona.
In tutte questa interpretazioni, l’urbanista è l’uomo che è capace di configurare un assetto del territorio urbano, un disegno, un’organizzazione dei diversi elementi che lo compongono, rispondente a una razionalità. È il tecnico, l’esperto, che riesce a proporre un disegno della città in cui i diversi oggetti, le diverse funzioni necessari alla comunità (gli edifici e le strade, i ponti e le ferrovie, le residenze e le fabbriche, gli ospedali e i parchi: quel complesso di cose che oggi chiamiamo “urbanizzazione”) abbiano ciascuno la propria collocazione giusta in rapporto agli altri elementi che compongono il territorio.
Più tardi si comprenderà che gli elementi artificiali, le “urbanizzazioni”, devono avere un giusto rapporto non solo tra loro,ma anche con gli elementi che preesistono all’urbanizzazione, alle trasformazioni recenti: sia gli elementi naturali (i fiumi e le colline, i boschi e le coste e così via) sia gli elementi storici (gli insediamenti gli edifici e i manufatti antichi, le tracce sepolte o appena dissepolte del passato più remoto, i segni residui percorsi tradizionali, i paesaggi agrari e così via).
Un primo elemento unificante: il territorio
Le diverse interpretazioni del mestiere dell’urbanista riconducono tutte, insomma, a un medesimo oggetto: il territorio.
L’urbanistica è nata in relazione alla città, quindi al territorio urbano. Molto prima che nascesse l’urbanistica moderna possiamo chiamare urbanisti gli uomini che disegnavano sulla carte e sul terreno la forma della città: da Ippodamo di Mileto agli agrimensori dei territori e delle città romane, dai locatores delle città medioevali agli artisti del Rinascimento. Anche l’urbanistica moderna, quella che nasce con l’ascesa al potere della borghesia e la cosiddetta “rivoluzione industriale, si applica alla città, al territorio urbano. Ma i metodi, le sue tecniche e i suoi strumenti si sono presto estesi all’intero territorio.
Possiamo dire che oggi l’urbanistica di occupa ugualmente- certo con differenti modulazioni dei suoi strumenti – a tutto il territorio . quello urbano e quello extraurbano.
Dobbiamo allora domandarci che cos’è il territorio. Nel succedersi dei corsi e delle lezioni scoprirete che ci sono molte definizioni del territorio. Per conto mio non voglio darvi una definizione, ma suggerirvi alcuni connotati, che mi sembrano utili per gettare qualche luce sul nostro mestiere. Vorrei fermarmi su tre caratteristiche del territorio: complesso, sistemico, comune.
IL TERRITORIO
Una realtà complessa
Il territorio è una realtà complessa dal punto di vista della sua genesi: è il prodotto del succedersi di una serie di stratificazioni storiche, nel corso delle quali l’uomo ha interagito con la natura modificandola, addomesticandola, trasformandola più o meno profondamente, a volte rispettandola, a volte violentandola.
È una realtà complessa dal punto di vista degli usi in atto e di quelli possibili, e dei conflitti che possono nascere tra usi alternativi e tra usi antagonisti: un campo può essere usato per coltivare, o per realizzare un parco, o per realizzare cento alloggi o dieci fabbriche. Una zona industriale accanto a un ospedale o un aeroporto accanto a un quartiere residenziale sono dannosi, come è dannosa una scuola irraggiungibile dalle abitazioni che deve servire.
Ed è una realtà complessa dal punto di vista delle letture che ne sono possibili, dei punti di vista sotto i quali può essere utilizzato: molti dei saperi e mestieri che ricordavo prima esprimono proprio questi diverse possibili letture, questi diversi punti di vista: il sociologo, il geografo, l’economista, il geologo, il naturalista, lo storico, e ancora l’ingegnere dei trasporti, l’archeologo e così via.
Una realtà sistemica
Di tutte queste cose che abbiamo enumerato (vicende, usi, letture, oggetti) il territorio non è un semplice magazzino:non è un luogo in cui tutte queste cose sono semplicemente e casualmente ammonticchiate. Tutte queste cose hanno ordine tra loro, sono connesse tra loro in modo che una modifica in un punto, un’azione su una di esse, modifica tutte le altre.
Alcuni esempi.
Aprire un supermercato in una parte periferica della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc. Al tempo stesso,per il fatto che quella parte del territorio viene visitato da molti clienti stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti.
Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico. Analogamente l’apertura di un parcheggio interrato in una parte della città: in genere a questo evento corrisponde l’afflusso di automobili maggiore della capacità del parcheggio, e allora si crea in quella zona un aumento del traffico anziché una sua diminuzione.
A Roma l’interesse suscitato dalla realizzazione di una nuova, modesta opera di architettura (l’edificio di Meyer che avvolge l’Ara Pacis sul Lungotevere di Ripetta) ha provocato una rapida trasformazione della strada che collegava quelpunto a un altro punto nodale (piazza di Spagna), l’espulsione delle botteghe e delle residenze tradizionali, la loro sostituzione con grandi magazzini delle “firme italiane” e una profonda e radicale trasformazione delle caratteristiche sociali dell’area.
La realizzazione di una serie di capannoni industriali e di abitazioni in un’area che per le sue caratteristiche geologiche è permeabile rispetto alla falda idrica provoca un progressivo inquinamento della sottostante riserva d’acqua e quindi un aumento del rischio di malattie oppure la necessità di cancellare una risorsa essenziale per la vita delle popolazioni insediata a valle.
Il territorio, insomma, è un sistema, nel quale le opere di trasformazione dell’uomo e il loro impatto sulle preesistenti caratteristiche, sia naturali che artificiali, genera nuovi equilibri e provoca nuovi eventi, anche in parti distanti e apparentemente non connesse con il luogo della trasformazione.
Il territorio è un bene comune
L’assetto attuale del territorio è determinato da una serie di eventi che sono maturati in un arco lunghissimo di tempo. La collocazione delle attuali città è originato spesso dall’incrocio di due itinerari percorsi da mercanti moltissimi secoli fa. La trasformazione di primitivi villaggi in città e il consolidamento e l’accrescimento di queste è avvenuto per effetto di una somma di iniziative, moltissime delle quali operate dalla collettività,le altre dalle singole famiglie e imprese nell’ambito di decisioni e investimenti pubblici, pagati dalla collettività.
Nessuno realizzerebbe una fabbrica se non ci fosse un sistema di strade e di ferrovie che consente alle merci di entrare e di uscire dalla fabbrica, agli operai di arrivarci, se non esistessero reti di comunicazioni per collegare quella fabbrica a tutti i mercati, se non esistessero scuole nelle quali il personale si forma e così via. Nessuno costruirebbe una casa se non ci fossero strade, scuole, parchi, ferrovie, tram e autobus e così via.
Questa e altre considerazioni spingono a dire che la città e il territorio sono un bene comune, di cui si può fruire individualmente ma che nel suo insieme è un bene creato dall’apporto di tutti (quindi della società), in un lungo percorso storico. Sono beni comuni e pubblici molte sue parti (le strade e le piazze, le scuole e gli ospedali, gli aeroporti e le ferrovie, i parchi e le riserve idriche e così via), ed è un bene comune nel suo insieme.
Gli interessi che agiscono sul territorio
Tuttavia il territorio è il luogo nel quale interagiscono, e spesso sono in conflitto tra loro, interessi diversi. Sentirete parlare molto di questi conflitti nelle lezioni del corso. Sentirete l’acronimo NIMBY (Not In My Back Yard, non nel mio cortile), che viene adoperato per indicare quei conflitti nei quali gli abitanti di una parte del territorio protestano per un impianto utile ma fastidioso che essi non contestano in sé, ma vorrebbero spostato nel cortile degli altri. Spesso sono conflitti che nascono non tanto per egoismo locale, ma perché l’impianto è oggettivamente inutile o dannoso, oppure perché non si è spiegato con sufficiente chiarezza i suoi requisiti: per una mancanza di trasparenza della scelta, insomma.
Vorrei accennarne a un conflitto di carattere diverso, che è sostanziale e fondamentale.
Se un’area dia agricola diventa urbana il suo valore aumenta moltissimo. Ancora di più aumenta se è vicina a una stazione della metropolitana, o a un parco pubblico, oppure se è in una zona ben servita da buoni servizi pubblici. Ancora di più aumenta se su quell’area si possono realizzare sedi di attività pregiate, oppure un numero maggiore di volumi o di superfici utili.
Insomma,per effetto di decisioni e investimenti pubblici il valore economico di un’area può aumentare di moltissimo. Il prezzo di quell’area, ivi compreso il sovrapprezzo derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, viene incassato dal proprietario, senza che esso abbia compiuto nessun lavoro e nessun investimento. Ma esso ricade su chi ha bisogno di quell’area per costruire una fabbrica o un edificio di abitazioni, il quale a sua volta si rivale su chi compra le merci prodotte da quella fabbrica o prende in affitto un alloggio in quell’edificio.
Ma su questo punto, sulla rendita immobiliare, torneremo fra poco
L’URBANISTA
L’urbanista come garante degli interessi collettivi
Non tutti gli interessi che agiscono nella città sono ugualmente garantiti, difesi, rappresentati. Sono certamente sostenuti gli interessi più potenti: quelli delle grandi proprietà immobiliari, che spesso appartengono a istituti di credito e ad altre componenti del mondo della finanza,e sempre più spesso a industrie che tentano di guadagnare con la valorizzazione immobiliare delle loro fabbriche, magari trasferendole dove le aree (e magari la mano d’opera) costano meno. Lo sono quelli delle aziende produttrici, in particolare di quelle che hanno a che fare con l’edilizia. Lo sono quelli dei commercianti, nelle città turistiche quelli degli albergatori e del mondo che attorno al turismo gravita. Si tratta comunque, in ogni caso, di interessi economici riferiti a una categoria particolare, e a una prospettiva temporale di breve periodo.
Cominciano a essere presenti gli interessi delle associazioni ambientaliste e di piccoli gruppi di pressione e d’orientamento. Ma si tratta di presenza il più delle volte deboli, su base volontaristica e spontanea, difficilmente capaci di durare nel tempo lungo delle decisioni amministrative, scarsamente dotati delle informazioni tecniche necessarie per valutare le scelte.
Una volta gli interessi generali erano rappresentati dai partiti politici. Questi avevano un disegno di prospettiva, proponevano un progetto di società di lungo periodo, e anche nell’azione amministrativa (che è riferita alla durata del mandato elettorale, cioè generalmente cinque anni) erano coerenti a quel progetto sociale. Oggi i partiti sono tendenzialmente appiattiti sul breve periodo: domina la preoccupazione di ottenere il maggior numero possibile di voti alle prossime elezioni, ed è più facile ottenere consenso promettendo cose che possano essere realizzate nel breve periodo. Un bel progetto architettonico o un pezzo di superstrada “pagano” di più che un buon piano regolatore: Ma il futuro di un territorio dipende da un buon disegno e programma d’insieme, mentre è certamente compromesso da scelte casuali, episodiche, slegate.
Io credo che in questa situazione all’urbanista spetti, più che mai,più di quando la politica era lungimirante, il compito di rappresentare gli interessi generali e gli interessi del futuro: gli interessi di tutte le cittadine e i cittadini in quanto tali, in quanto abitanti e utilizzatori del “bene comune città”. Quelli di oggi, e quelli di domani, che nessun gruppo sociale e nessuna istituzione rappresenta, e a cui è destinato il Pianeta Terra che noi lasceremo ai nostri posteri.
L’urbanista come portatore di una visione olistica della realtà
All’urbanista spetta anche un’altra responsabilità: quella di essere capace di guardare al territorio nel suo insieme, di avere una visione olistica, sistemica della realtà.
Abbiamo visto che il territorio è un sistema, un insieme di parti tra loro integrate:l’urbanista (per la sua formazione e per il mestiere per il quale è preparato) è, deve essere, capace di non perdersi nell’analisi e nella considerazione delle singole parti dimenticando il contesto al quale appartengono e che le fa vivere, ma deve anzi partire dal contesto, dall’insieme, dal tutto.
“Il tutto è più importante delle sue parti”, diceva il poeta Eugenio Montale. E un altro poeta, Dante Alighieri: “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questa è forma che l’Universo a Dio fa somigliante”.
Al di là delle parole dei poeti, quello che comunque è certo è che le parti del territorio non si governano se non si comprende il tutto. Verità, questa, largamente dimenticata. Il territorio è oggi, nel nostro paese, trasformato da interventi occasionali, sporadici, promossi da questa o da quella esigenza. Là un pezzo di strada, qui l’ampliamento di un porto, l’autorizzazione a un capannone industriale, la trasformazione di un magazzino in una discoteca. In un’area destinata dal piano regolatore a verde pubblico si costruiscono case per i militari, dove la golena del fiume deve essere protetta per timore di esondazioni e per far scorrere la corrente in caso di piene di costruisce una fabbrica.
È questo modo di operare, sollecitato dall’urgenza e permesso dalla miopia, l’urbanista deve ricordare che è così che si sono provocati le catastrofi che hanno funestato in più occasioni le nostre terre, che è così che si provocato il degrado di quello che una volta era chiamato il Belpaese. E a questo modo che l’urbanista deve reagire, predicando e praticando una visione olistica, sistemica delle cose: quella visione che è espressa dal metodo e dagli strumenti della pianificazione, di cui fra poco ci occuperemo.
L’urbanista come regista di saperi e mestieri diversi
Abbiamo visto che il territorio è una realtà complessa, e che molti punti di vista (molti saperi e molti mestieri) sono impiegati per conoscerla, analizzarla, valutare le sue potenzialità e i suoi rischi. Ciò significa che il lavoro dell’urbanista, poiché ha a che fare con il territorio e il governo delle sue trasformazioni, deve collaborare con gli esperti di altre discipline, deve avvalersi dell’apporto di saperi e mestieri diversi dal suo. Il suo è un lavoro eminentemente interdisciplinare.
Ma tra le altre discipline l’urbanista svolge (là dove si cimenta con gli strumenti della pianificazione) due funzioni particolari.
Innanzitutto egli svolge un ruolo di coordinamento: il geologo e lo statistico, il programmatore e lo storico dell’ambiente, il fitogeografo e il sociologo, il giurista e l’economista collaborano con la regia dell’urbanista. Così come, nel cinema, gli attori e lo scenografo, l’elettricista e il costumista, l’operatore di macchina e il fotografo sono coordinati dal regista.
E come nel cinema, la regia dell’urbanista è finalizzata a un risultato. Dai saperi degli altri l’urbanista deve trarre ciò che può tradursi in un progetto di spazio,in una disciplina delle trasformazioni del territorio, e nell’individuazione di ciò che bisogna fare (le azioni,le valutazioni, il monitoraggio) per tradurre il disegno del piano in concrete trasformazioni del territorio.
Non è un lavoro facile, quello dell’urbanista. Per esercitarlo è necessario essere curiosi e umili: curiosi per conoscere abbastanza bene i mestieri altrui così da saperli utilizzare; umili per rispettare la specificità delle altre discipline.
TRE PAROLE
Pianificazione
Il metodo praticato dal planner è la “pianificazione”. Vi do’ una prima definizione di questo termine.
Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.
L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono. A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere secondo me diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.
È importante distinguere due termini molto vicini: “piano” e “pianificazione”.
Il piano è un documento, composto da carte e testi scritti, che disciplina l’assetto di un determinato territorio. La pianificazione è un’attività che si sviluppa attraverso la redazione e approvazione di piani, la loro valutazione, il monitoraggio della realtà che il piano si propone di modificare, la valutazione di tali modificazioni, la conseguente modifica degli obiettivi e la stesura di nuovi piani, di nuovi documenti composti da carte e testi scritti.
Della pianificazione fa parte l’indicazione delle azioni che sono necessarie per attuare le trasformazioni previste dal piano, così come fa parte l’individuazione degli indici e dei parametri che devono essere sottoposti a monitoraggio per misurare e valutare l’attuazione del piano.
Ecco altre due, definizioni, non contraddittorie tra loro né con la mia. Quella di Antonio Cederna, che accentua l’aspetto morale della pianificazione urbanistica:
“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese”.
Giorgio Ruffolo è un economista. In un importante saggio sulla necessità di una politica ambientale ha dato una definizione che mi sembra molto bella della pianificazione territoriale, che vi propongo:
“Il quarto pilastro di un ambientalismo moderno è la pianificazione territoriale. E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico”.
L’urbanista e l’architetto
La definizione di Ruffolo introduce il concetto di bellezza: “dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa”, produrre “valore aggiunto estetico”. Ma non si tratta della bellezza dell’oggetto: è una bellezza d’insieme. E nella differenza tra attenzione all’oggetto e attenzione all’insieme sta il fondo della differenza tra due mestieri che, nel nostro paese (a differenza di moltissimi altri) sono molto vicini e quasi confusi: l’urbanista e l’architetto. A me sembra molto chiaro un passo di Italo Calvino, che cito spesso per rispondere al quesito: che differenza c’è tra l’urbanista e l’architetto. Ecco il passo di Calvino.
“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco”.
L’urbanista si occupa dell’arco, l’architetto delle pietre. L’architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L’urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un’armonia e una funzionalità complessive. L’architetto disegna la casa dell’uomo, l’urbanista la casa della società.
Democrazia
“Disegnare la casa della società” significa esprimere quest’ultima. Da quando nasce l’urbanistica moderna ciò significa che è essenziale il legame tra urbanistica e pianificazione da un lato, società e democrazia dall’altro lato.
La democrazie non è una formula astratta, è un regime molto concreto, che è giunto a maturazione in un determinato processo storico e si è svolto in una determinata parte del mondo.
La democrazia che conosciamo non è l’unica esistita,né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi teniamocela, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione. Ricordiamo soprattutto che essa è stata messa in crisi da alcune cause precise, che lo storico Luciano Canfora sintetizza così:
“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo”.
Solo se siamo consapevoli dei suoi limiti ed errori – delle sue cause - potremo: 1) tentar di migliorarla nell’applicazione, 2) non interrompere la ricerca di un sistema migliore.
Bisogna ricordare sempre che le istituzioni hanno senso solo nel loro contesto (storico, territoriale, economico). Perciò non ha senso parlare di esportare istituzioni, senza che prima abbiano maturato le condizioni che lo rendano possibile. Aver dimenticato questo è uno degli errori della globalizzazione.
Economia
Come imparerete la città, nel suo sorgere come invenzione dell’uomo e nel suo affermarsi (come oggi nel suo dissolversi tra megalopoli e sprawl), è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.
Non possono mancare perciò alcune parole chiave rilevanti a questo proposito: sviluppo, bene e merce, rendita sono essenziali.
Nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità.
Consistenti correnti di pensiero, che cominciano a tradursi in pratiche, hanno rivelato che questo sviluppo è arrivato a un punto mortale. Si sono manifestati i limiti delle risorse disponibili sul pianeta, e la loro esistenza configge con la natura stessa di questo sistema economico, obbligato alla crescita indefinita.
L’espressione più felice è forse quella di Kenneth Boulding
“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.
L’operazione culturale che ha dovuto essere compiuta per raggiungere un simile risultato è stata quella di ridurre ogni bene e merce,e di cancellare il valor d’uso riducendo ogni valore a valore di scambio. È allora importante tenere ben presenti queste distinzioni.
Il bene è un oggetto (o un servizio, o un sentimento) che ha valore di per se,per l’uso che ne fa l’essere umano; la merce è un oggetto (o un servizio) la cui funzione è solo quella di essere scambiato con un altro oggetto o servizio. Il bene è caratterizzato da identità, la merce da fungibilità: il fungibile universale è la moneta, espressione sublimata della merce. Il valor d’uso è riferito ovviamente al bene, il valore di scambio alla merce.
Questa economia nella quale viviamo riconosce il valore dei beni solo riducendoli in merce. Il che spesso significa eliminarne il valor d’uso, o attribuirne il godimento solo ad alcuni. Ma questa economia non èl’unica possibile: difendere oggi i beni (le coste e i boschi, i beni culturali sparsi sul territorio o sedimentati in essi e nelle città, i corsi d’acqua e le culture dei luoghi) ha senso anche perché tutela - in vista di una economia futura possibile - patrimoni che altrimenti sarebbero distrutti per sempre.
Tra tutte le parole dell’economia quella che ha più incidenza per il territorio è indubbiamente la rendita. È grazie alla rendita, e al peso che essa ha nell’economia italiana, che quote rilevanti e del tutto ingiustificate del territorio vengono sottratte ai loro usi ragionevoli e trasformati in una “repellente crosta di cemento e asfalto”,come ripeteva Antonio Cederna. Che cos’è la rendita? È una delle tre forme di reddito:il salario, remunerazione del lavoro, il profitto, remunerazione dell’impresa, la rendita, remunerazione della proprietà.
A differenza delle altre due forme di reddito, come ha scritto recentemente l’economista Giorgio Lunghini,
“la rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà”.
Vediamo una definizione scientifica della rendita, quella di Claudio Napoleoni:
“Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:
1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;
2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi”.
Le tre forme di rendita esprimono differenti classi sociali. Al salario corrisponde l’operaio, proprietario della forza-lavoro. Al profitto corrisponde il capitalista, organizzatore della produzione che esercita comprando sul mercato le diverse componenti del capitale. Alla rendita corrisponde il proprietario degli immobili (aree ed edifici) adoperati nel processo produttivo.
Storicamente, la rivoluzione borghese (Inghilterra e Francia fine XVIII secolo, Germania metà XIX secolo) ha rappresentato la vittoria della borghesia capitalistica sulla proprietà fondiaria d’impronta feudale (ancien régime).
Una delle ragioni per cui l’Italia è distante dagli altri paesi europei è proprio l’incidenza della rendita, dovuta al fatto che la borghesia, giunta al potere in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ha potuto prevalere solo alleandosi all’ancienrégime, quindi alla rendita.
PER CONCLUDERE
Territorio, società economia. Questa sono le tre coordinate del mestiere dell’urbanista. La prima, la principale, è essa stessa all’incrocio di diverse storie, di diverse dimensioni. Come muoversi in questa mappa?
Credo che sia essenziale avere consapevolezza della dimensione etica del lavoro dell’urbanista. E credo che la stella polare che può orientarci (riprendo le cose che aveva detto con molta forza il professor Patassini) è l’interesse comune.
Attenti alle parole. Comune non è individuale, ma l’interesse individuale ha nella soddisfazione dell’interesse comune la cornice necessaria. Comune non è pubblico, ma spesso è pubblico lo strumento necessario per soddisfare un interesse comune.
Comune significa interesse di una comunità di cittadine e cittadini. Una comunità riconoscibile, dotata di identità, caratterizzata dal senso di appartenenza dei suoi membri. Ma una comunità aperta, che riconosce nello scambio con le altre comunità il motore del suo sviluppo: quello vero, lo sviluppo dell’essere e non dell’avere.
Venezia, 2 ottobre 2006