Quando cominciammo a lavorare a questo libro, verso la fine dell'estate scorsa, il quadro svelato dalle indagini era diverso da quello che oggi è sotto i nostri occhi. Le prime rivelazioni su quella città assai poco ideale che fu battezzata Tangentopoli ci avevano spinto a cercar di comprendere e descrivere i meccanismi che l'avevano prodotta, e gli strumenti che l'avevano radicata nelle pratiche del governo del territorio. Solo alcuni bagliori lasciavano intuire che l'incendio era esteso, ma non si sospettava quanto.
L'indagine Mani pulite era partita da Milano, dove procedeva con piglio del tutto insolito. Da lì aveva cominciato a estendersi verso altre sedi giudiziarie. Non era affatto certo, però, che l'onda avrebbe retto, prevalendo sui tentativi che (come tante altre volte era successo) sarebbero stati messi in atto per arginarla. Soprattutto, era difficile prevedere che avrebbe raggiunto le sedi centrali del potere, i suoi gangli vitali.
L'onda ha rivelato una forza e una resistenza ben più robuste di quanto si potesse sperare. Il torrente, impetuoso e irriguardoso, è diventato un fiume in piena. Così oggi, a un anno di distanza dall'ormai fatidico 17 febbraio 1992, il consuntivo è in un pugno di cifre consistenti: 828 arresti cautelari effettuati; 1.003 avvisi di garanzia complessivamente recapitati; 75 richieste di autorizzazioni a procedere per parlamentari indagati per questioni di tangenti; tre ministri in carica dimissionati e un quarto indagato; due segretari nazionali di partiti (uno dei quali leader massimo del partito cui appartiene il presidente del Consiglio) costretti alle dimissioni; le amministrazioni comunali di quattro capoluoghi regionali (Milano, Roma, Napoli, Torino) messi in crisi.
Di dimensioni inizialmente insospettate si è rivelata anche l'entità economica della corruzione. I primi episodi riguardavano "mazzette" di pochi milioni (qualcuno poteva perfino nasconderli nelle mutande). Si è passati a illeciti e fatti penali misurati ciascuno in miliardi o decine di miliardi: e le valutazioni più attendibili sull'entità complessiva di Tangentopoli oscillano tra i 10 e i 15 mila miliardi all'anno.
Ma più del dato quantitativo, è quello qualitativo che conta. Rispetto agli inizi esso è considerevolmente mutato. Il salto si è avuto quando le indagini, partite da Milano, sono approdate a Roma: quando sono stato raggiunte e messe sotto osservazione le sedi centrali del potere pubblico ed economico nazionale. Per la prima volta, in Italia, si è avuta la sensazione che certi armadi potessero essere liberati dagli scheletri che li abitavano.
L'Eni, l'Enimont, l'Enel, l'Anas, il dopo-terremoto in Irpinia, l' affaire del Banco ambrosiano: questi sono i nuovi emergenti capitoli di questa vicenda, che qualcuno comincia a definire come l'89 italiano. E così la Democrazia cristiana viene riacquistando il ruolo di primo piano che le spetta di diritto, a causa di quasi un cinquantennio di incontrastato potere e della conseguente occupazione dello Stato: ruolo che, per tutti i mesi iniziali della campagna di indagini, le sembrava esser sottratto dal Partito socialista. Accanto alla Dc, accanto ai socialisti della nouvelle vague, vengono ad acquistare un peso anche le altre formazioni che quel potere avevano condiviso: i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali. Infine, il fiume limaccioso delle commistioni tra politica e affari appare lambire perfino le forze d'opposizione.
Nonostante le indubbie novità registrate, le tesi del nostro lavoro risultano pienamente confermate. A partire da quella di fondo, quella che ha convinto noi, e l'Editore, a produrre questo libro. La tesi, cioè, che lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza. L'ingresso nell'indagine Mani pulite dell'Anas, dell'Enel e dell'Irpinia ha fatto sì che si possa dire oggi che circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente. Ancor più questo diventerà evidente quando da Milano a Roma si passerà al Mezzogiorno, estendendo l'indagine dall'Irpinia all'insieme dell'attività "assistenzialistica" compiuta nell'ultimo quindicennio, e delle distruzioni dell'ambiente e delle regole dell'azione pubblica che ne è conseguita.
A mano a mano che ci si avvicina alle sedi centrali del potere, è ormai dai fatti documentati dai magistrati (e non solo dalle analisi indirette, quale quella che noi stessi abbiamo compiuto) che appare con ogni evidenza che è "a monte", è nelle istanze centrali, che si è avviato e promosso il processo di depotenziamento ed esautoramento delle istituzioni locali del potere: anche se ciò non può significare assolvere chi "a valle" ha aggiunto i propri errori a quelli romani..
Abbiamo voluto indagare il sistema politico-affaristico nella sua fisiologia, nel suo mutare, da trasgressione, a norma. Non ci è sfuggito il risvolto malavitoso, là dove esso direttamente si collegava agli eventi descritti. Abbiamo però lasciato da parte la mafia e Cosa nostra che pure, in una porzione consistente del territorio nazionale, incidono anch'esse pesantemente nelle trasformazioni del territorio e del potere economico e politico. Lo abbiamo fatto appunto perché c'interessava illustrare la fisiologia, non la patologia dell'affarismo applicato al territorio. Di questo abbiamo or ora ricordato il peso economico nella società italiana: a prescindere dalla mafia, si parla di 15 mila miliardi all'anno, 150 mila miliardi nel terribile decennio che è alle nostre spalle. È una cifra da capogiro, che ha il pregio di illustrare con l'evidenza dei numeri il volume del rapporto tra dare e avere che si è instaurato tra la società italiana e le bande del malaffare "ordinario". Ma non è che un dato parziale: rappresenta uno dei prezzi che la società ha pagato per Tangentopoli, non tutti.
Tangentopoli ha significato realizzare sul territorio interventi non necessari, e spesso dannosi. Ha significato pagare per opere mai eseguite, oppure eseguite e mai utilizzate (come le fabbriche nel Sud terremotato, o le stazioni ferroviarie a Roma per le Olimpiadi, o le strade di Ancona). Ha significato rinuncia ad effettuare i necessari controlli, a pretendere il rispetto degli accordi sottoscritti. Ha significato ridurre a zero la credibilità della pubblica amministrazione. Ha significato annullare la libera concorrenza, e insieme ogni forma di programmazione nell'interesse collettivo. Ha significato ridurre il peso dell'investimento produttivo, e accrescere quello della rendita parassitaria. Se il prezzo di ciascuno di questi elementi potesse essere tradotto in lire, la spesa complessiva che la società ha dovuto sostenere sarebbe valutabile in cifre di dimensione così grande da sfuggire alla consapevolezza comune.
Il regime di Tangentopoli, la collusione politico-affaristica eretta in sistema, ha caratterizzato un periodo relativamente breve della storia del nostro paese: grosso modo un decennio o poco più, anche se singole manifestazioni non erano mancate nel passato, come potranno proseguire nel futuro. E tuttavia, esso ha provocato (come i dati dei censimenti dimostrano) una caduta dello spirito d'impresa e una perdita della capacità delle imprese di rinnovarsi e attrezzarsi: in definitiva, con un processo di deindustrializzazione, misurabile in termini di riduzione delle unità locali e degli addetti dell'apparato produttivo, incommensurabile nei suoi effetti sul futuro della società italiana e sul suo ruolo nello scenario mondiale.
Un anno di indagini giudiziarie ha permesso quindi di comprendere l'entità del guasto prodotto. Ma l'effetto più vistoso e dirompente di questi dodici mesi è l'impatto delle vicende svelate sull'opinione pubblica, la conseguente perdita di credibilità dell'intero sistema politico, posto spietatamente in crisi. Si aprono qui due domande. La prima: come si è potuti giungere a tanto, senza che - come più volte era successo - la potenza degli interessi minacciati giungesse a bloccare il cammino della verità? La seconda, più inquietante: come se ne può uscire?
La risposta che più ricorrentemente viene data alla prima domanda rinvia al risultato elettorale del 5 aprile. È vero, ma non spiega tutto. Quel voto non ci sarebbe stato se alle sue spalle non ci fosse stata una società ormai stanca di sopportare metodi e meccanismi che in passato aveva tollerato o, a volte e in determinate situazioni, addirittura sollecitato. Il nodo sta dunque in quei mutamenti, prodottisi nella società, che il sistema dei partiti non è stato in grado di comprendere. E sta anche (la consapevolezza collettiva abita ormai un villaggio globale) negli avvenimenti dell'89 e nello sconvolgimento prodotto dal crollo dei sistemi dell'est, nel venir meno degli argini fittizi del fideismo e dell'ideologismo (risvolto positivo della caduta delle ideologie), nel prevalere di atteggiamenti più laici e razionali di quelli che avevano caratterizzato i comportamenti nella lunga stagione della guerra fredda.
Gli effetti sono stati comunque sconvolgenti. Scossa è stata in particolare la società civile, quasi unanimemente schierata a sostegno dell'iniziativa della magistrature. (Anche se, lo diciamo sommessamente, qualche elemento in più di autocritica da parte di chi, nei piccoli vantaggi della vita quotidiana, del sistema di Tangentopoli si era giovato, e da parte di chi, avendo il compito di vigilare e reprimere, per troppi anni non l'aveva fatto, avrebbe dato più forza all'azione di denuncia e alla richiesta di cambiamento).
Incerta, imbarazzata, tardiva, contraddittoria è stata invece la reazione della "società politica", che solo con grande fatica ha recepito il messaggio e compreso la necessità di voltar pagina. Lo dimostra il fatto che oggi, a più d'un anno di distanza, il Parlamento non si è dimostrato capace di licenziare anche una sola delle riforme individuate come necessarie e urgenti: né quella del nuovo regime degli appalti, né quella sul finanziamento dei partiti, né quella sulla tutela dei legislatori e sui modi del loro reclutamento, cioè la riforma elettorale. (Per non parlare dell'incredibile colpo di coda del vecchio e screditato regime espresso dai decreti del 5 marzo.)
Ancor più ottusa, se così può dirsi, è apparsa nel complesso la reazione dei ceti imprenditoriali, sui quali pure ricadono (come tentiamo di documentare) non poche responsabilità per quanto è accaduto: chiusi a far barriera per difendere indiscriminatamente i rappresentanti delle proprie categorie, senza quasi ombra di riflessione critica.
"Tutti a casa!", è lo slogan che risuona sempre più spesso nei commenti degli organi di stampa, interpreti delle reazioni dell'opinione pubblica. Un esplicito invito al ceto politico che ci ha finora governati, e addirittura agli esponenti di tutte le formazioni politiche su cui poggia il sistema democratico italiano. Che occorra un vasto ricambio del ceto politico che ha condotto a un così vistoso disastro, o che comunque lo ha ignorato o tollerato, ci sembra un'affermazione di tale evidenza che non occorre neppure dimostrarla. Ma il rinnovamento delle persone è una misura necessaria, tutt'altro che sufficiente.
Il nodo decisivo rimane per noi (e quest'anno di indagini giudiziarie lo ha confermato) quello del ripristino delle regole. Lo argomentiamo con ampiezza, ci sembra, nei capitoli che seguono. Vogliamo che nessuno dimentichi che è accaduto ciò che è accaduto perché erano state preventivamente rimosse, o indebolite, le regole che determinano i comportamenti e garantiscono (più o meno perfettamente che sia) gli equilibri e i diritti, le verifiche e i controlli. Troppe poche furono le voci che si levarono quando questo accadde, a partire dalle aule del Parlamento. È di lì, è dal ripristino e dalla ricostruzione delle regole, valide nei confronti di tutti, che occorre ripartire.
marzo 1993