loader
menu
© 2024 Eddyburg
Edoardo Salzano
19920000 Affari & Urbanistica. Gli strumenti urbanistici di Tangentopoli
14 Gennaio 2008
Articoli e saggi
Pubblicato sul n.3, 1992 di Democrazia e diritto.

Le cause della corruzione politica sono molte. Alcune affondano nella natura dell'uomo, altre nella storia dei nostri anni. E' a queste ultime che deve rivolgersi la riflessione politi­ca, perché é su di esse che possiamo agire per rimuoverle ed eliminare così, o almeno sen­sibilmente ridurre, l'arbitrio, l'ingiustizia, lo spreco, la distruzione di valori essenziali per la convivenza civile che la corruzione politica determina.

Una causa rilevante l'ha individuata Giuliano Amato, nel suo programma di governo, là dove ha testualmente ripreso una frase della proposta politica presentata da Achille Oc­chetto al Presidente della Repubblica [1]. Il Primo ministro (e il Segretario del Pds) hanno detto che é necessario un impegno del Governo per la riforma delle norme che riguardano "regime giuridico dei suoli e indennità di esproprio, per consentire alle amministrazioni lo­cali di superare definitivamente la pratica dell'urbanistica contrattata".

E' la prima volta, dopo decenni, che il capo del Governo, su sollecitazione del leader del maggior partito d'opposizione, s'impegna ad assegnare priorità alla riforma delle norme per il governo del territorio. Ed é la prima volta che il termine "urbanistica contrattata" entra nel linguaggio politico ai livelli più rappresentativi, e che la "pratica" che quel termine esprime viene additata come qualcosa da contrastare, o almeno "superare".Era necessario un trauma per giungere a tanto: il trauma determinato dal fatto che non solo faccendieri e palazzinari, ma anche costruttori seri, presidenti e amministratori delegati di prestigiose società, e soprattutto assessori, sindaci, dirigenti politici influenti, deputati, e perfino po­tenti ministri ed ex ministri, sono stati acchiappati, da un pugno di magistrati coraggiosi, nella rete del codice penale.

Era necessario, insomma, che esplodesse "Tangentopoli". Ma che c'entra con Tangen­topoli l'"urbanistica contrattata"? Domandiamoci innanzitutto che cosa questa espressione significa.

Che cos'è l'urbanistica contrattata

L'"urbanistica contrattata" é la sostituzione, a un sistemadiregole valide ergaomnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazionediretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al siste­ma di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità.

Essa di fatto si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del terri­torio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando in­somma comanda la proprietà, e non il Comune. Ma poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vo­gliono incidere in modo sostanziale sulle scelte sul territorio (quali aree rendere edificabili, per che cosa, quanto, ecc.), essi devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.

Ci fu, nella storia della Repubblica italiana, un altro periodo in cui la subordinazione delle scelte urbanistiche agli interessi privati apparve come uno scandalo. Fu negli anni in cui le scelte di politica economica e sociale compiute per la ricostruzione postbellica (lasciare le briglie sciolte sul collo dell'edilizia privata) provocarono lo sfrenato divampare della speculazione fondiaria ed edilizia. Per ricordare quei tempi, basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60 entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo memorabile film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dall' Espresso e dagli "Amici del Mondo" e indagato da Antonio Cederna, da Italo Insolera e da Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.

Non é forse allora l'urbanistica contrattata qualcosa di simile a quello che caratterizzò quegli anni? A prima vista, potrebbe sembrare. L'urbanistica contrattata può insomma ap­parire come una forma semplicemente ammodernata della vecchia, tradizionale specula­zione fondiaria. (Così come, del resto, l'intreccio tra politica e affari affiorato a partire dalle iniziative del giudice Di Pietro sembra ad alcuni solo l'ennesima manifestazione della millenaria vicenda degli amministratori pubblici che si lasciano corrompere). Ciò che vorrei sostenere invece é che l'urbanistica contrattata é qualcosa non solo di nuovo e diverso ri­spetto alla vecchia e nota speculazione, ma é qualcosa di infinitamente più grave, perché più penetranti e pervasivi sono i suoi effetti e le distorsioni che induce (che ha indotto) sull'intero ordinamento delle istituzioni e della società.

Per convincersene, basta pensare sulla differenza tra le reazioni sociali all'una e all'altra forma (quella di ieri e quella di oggi) della subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. Trenta e quarant'anni fa la speculazione fondiaria ed edilizia appariva immediata­mente come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Oggi, l'urbanistica contrattata é invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei compor­tamenti: c'é da credere che il termine, se non fosse esplosa Tangentopoli, sarebbe compar­so nelle prossime edizioni dei manuali di tecnica urbanistica o di diritto amministrativo. Ie­ri, insomma, si trattava di violazioni del sistema di regole dato; oggi, della sostituzione, al sistema di regole date, di un nuovo e perverso controsistema di regole. Ieri, erano infra­zioni e violazioni puntuali al'organizzazione istituzionale dei poteri; oggi, é la costruzione di un contropotere.

Ma la portata di ciò che l'urbanistica contrattata ha rappresentato e rappresenta, le sue conseguenze per la società italiana, i rischi che essa comporta per la stessa democrazia potranno esser compresi meglio ragionando sui suoi meccanismi: sugli "strumenti urbani­stici" di Tangentopoli.

Dalle regole alle regolette

L'urbanistica contrattata é in primo luogo trionfo della discrezionalità. Perché una prassi discrezionale possa affermarsi, é necessario che il sistema di regole cui essa si sostituisce venga preliminarmente screditato; il tentativo (ahinoi largamente riuscito) di screditare la pianificazione urbanistica e, più in generale, le regole del governo del territorio, é infatti il filo rosso che percorre gli anni dell'urbanistica contrattata.

Ma poiché la pubblica amministrazione non può rinunciare a ogni regola, non può ridursi a mera discrezionalità, ecco che, accanto alla demolizione delle regole preesistenti, é poi necessario foggiarsi qualche nuova regoletta: qualche istituto o norma che possa coprire la discrezionalità, darle forma e apparenza giuridica. Le regolette della deroga per pubblica utilità, e dell'estensione oltre ogni limite della concessione di opere, sono stati gli strumenti che hanno accompagnato l'urbanistica contrattata, e con essa hanno costruito il percorso che ha condotto a Tangentopoli.

Si cominciò con una legge del 1978, approvata tra Capodanno e la Befana, quando i parlamentari erano ancora impegnati nella digestione delle feste. Una leggina transitoria (doveva durare solo tre anni, ma fu prorogata silenziosamente di triennio in triennio fino al 1987, e poi resa permanente) consentì che le opere pubbliche fossero eseguite anche se in contrasto con gli strumenti urbanistici. Per poter derogare al piano regolatore e costruire là dove esso non lo consentiva, o realizzare, per esempio, un parcheggio o un ospedale là dove erano invece previsti un parco pubblico o una scuola, bastava che il relativo progetto fosse approvato dal Consiglio comunale [2].

Pochi anni dopo, nel 1980 e nel 1982, due leggi finalizzate alla realizzazione di edilizia abitativa pubblica cominciarono a introdurre la concessione in un senso che aveva poco a che fare con l'originario significato di questo istituto [3]. Fino ad allora, la concessione era stata utilizzata per la realizzazione di opere che costituivano un vero e proprio servizio pubblico o di pubblico interesse, del quale era necessaria una gestione tecnica (per farle funzionare e mantenerle in efficienza) ed economica (per rientrare nelle spese che era co­stata la loro realizzazione). Ferrovie e autostrade sono stati gli esempi classici della con­cessione in Italia. Nell'uno e nell'altro caso, affidarle in concessione a imprese private do­veva significare mobilitare, per la loro realizzazione, risorse del mercato finanziario priva­to, significava consentire alle imprese realizzatrici di rientrare nelle spese sostenute inca­merando le entrate connesse alla gestione del servizio (i biglietti dei treni e i pedaggi au­tostradali), e significava infine garantire alla pubblica amministrazione che la realizzazione tecnica delle opere fosse corretta, poiché era alle stesse imprese realizzatrici che spettava l'onere della manutenzione. Del resto, era nelle mani del pubblico che rimanevano le deci­sioni relative all'impostazione (politica, tecnica, amministrativa) dell'opera, poiché era ad esso che restavano affidate le scelte d'impostazione, fino alla redazione del progetto di massima delle opere.

E' evidente che utilizzare l'istituto della concessione, come con le leggi ora citate si é iniziato a fare, per la realizzazione di alloggi di proprietà pubblica, gestiti dai comuni o dagli Istituti per le case popolari o dagli altri soggetti previsti dalla legislazione in materia ha costituito l'inizio di una distorsione di uno strumento di per sé non perverso. La distor­sione si é accresciuta poi quando si é esteso (come é avvenuto nel 1987 [4]) l'impiego della concessione a ogni opera comunque di competenza pubblica, quando si sono affidati e ai concessionari anche le competenze di redazione degli studi preliminari e della progetta­zione di massima (e cioè la determinazione della qualità del prodotto), e quando infine si sono affidate al concessionario le competenze della direzione dei lavori.

Il massimo della perversione si é peraltro raggiunto là dove ai concessionari si é di fatto assegnato addirittura il compito di procacciare i finanziamenti per la realizzazione delle opere. E' quello che succede, senza sollevare scandalo eccessivo, nel Mezzogiorno, pro­prio ad opera dell'azione statale.

Con la legge di riordino dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno [5] si apre infatti la strada "all'iniziativa progettuale e programmatoria di tecnostrutture aziendali e professio­nali che si sostituiscono, di fatto, alle istituzioni elettive, nel quadro di una interpretazione lottizzatoria dei rapporti tra le forze politiche e la distribuzione ed utilizzazione delle risor­se finanziarie" [6]. In definitiva, "sono così le aziende a redigere i progetti sui quali cerche­ranno esse stesse i 'canali' giusti per ottenere il finanziamento, in cambio dell'affidamento dell'esecuzione e, talvolta, della gestione dell'opera"[7]. E assai più della qualità delle opere, della loro utilità sociale, della loro priorità, contano le "entrature e le "relazioni.

Ma a quel punto, l'unico ruolo che rimane al potere politico, delegati tutti gli altri al potere economico, é quello di "rappresentare il popolo", cingendo magari la fascia trico­lore. Sicché in definitiva la tangente si configura come il compenso per il servizio (di rap­presentanza e copertura) reso: uno stipendio.

Condono dell'abusoe delegittimazione del piano

E' sempre agli inizi degli anni '80 che si colloca il più dispiegato contributo alla delegit­timazione della pianificazione urbanistica: il condono dell'abusivismo edilizio e urbanistico. Nel 1980 era iniziata la discussione di una legge sull'abusivismo. Nelle sue prime formula­zioni era un provvedimento che, per poter combattere con maggiore efficacia le iniziative edilizie e urbanistiche abusive (che si erano molto diffuse in alcune città e siti del meridione e nell'area romana), accompagnava le nuove, e più severe, norme repressive con una con­trollata sanatoria dell'abusivismo pregresso. Ma nell'estate del 1982 ecco la svolta: il Go­verno decide di utilizzare l'abusivismo per ridurre il disavanzo pubblico. L'obiettivo perse­guito diventa adesso non la repressione, ma il condono dell'abusivismo. Un lunghissimo braccio di ferro tra Parlamento e Governo (dove quest'ultimo parte in condizioni di forza, avendo approvato fin dal 1982 un decreto legge, più volte reiterato) conduce, nel 1985, all'approvazione del provvedimento [8]. Questo si configura, alla fine del suo percorso, co­me una sanatoria pressoché generalizzata, a buon mercato (con buona pace per l'intenzio­nalità economica) e, nelle esplicite intenzioni di molti dei suoi sostenitori di destra e di si­nistra, aperta anche al futuro. Un incentivo all'abusivismo, insomma, anziché un deterrente [9].

Per poter condonare così estesamente gli interventi posti in essere contro la pianifica­zione urbanistica, occorreva sostenere che la colpa dell'abusivismo sta proprio nella piani­ficazione. E' proprio questo ciò che avvenne, nel corso del primo quinquennio degli anni '80 e, in particolare, nelle polemiche che accompagnarono la discussione della legge. In quegli anni all'urbanistica si attribuiscono le peggiori nefandezze. Gli urbanisti sono dei "giacobini". L'urbanistica é un insieme di "lacci e lacciuoli" che frena ogni sviluppo. E l'abusivismo é nato e si é sviluppato per effetto della pianificazione e delle sue "rigidezze". Nessuno dei numerosi propagandisti di questi slogan [10] spiegò mai per quale misteriosa ragione l'abusivismo era praticamente sconosciuto proprio in quelle zone del paese dove si era consolidata una "cultura della pianificazione", ciò che sembrerebbe dimostrare che l'abusivismo nasce invece, come difatti é nato e si é rigogliosamente sviluppato, là dove la pianificazione non c'è, o si riduce alla burocratica approvazione di un pacco di carte chiuso nel cassetto e là dimenticato.

Nel commentare a caldo la conclusione della vicenda si poteva legittimamente osservare che la questione del condono edilizio aveva provocato in Italia l'emergere di una vera e propria "cultura dell'abusivismo condonato" [11]. Una parte consistente dell'opinione pubbli­ca era giunta ormai a considerare l'abusivismo come qualcosa che non é un vero e proprio reato, ma una infrazione che, in un modo o nell'altro, può essere sanata senza neppure pa­gare un prezzo troppo elevato. Del resto, al tema del condono si era intrecciato, fino a sal­darvisi, il tema della deregulation, consolidando così la convinzione che l'origine dell'abu­sivismo risiede nell'impraticabilità della pianificazione urbanistica. "Sicché, in definitiva, l'abusivismo appariva come qualcosa di assimilabile a una disobbedienza civile nei con­fronti di regole ingiustificate e ingiuste: regole che, appunto, ci si proponeva di smantellare (e non di modificare e sostituire), completando l'oggettiva delegittimazione (mediante le deroghe e le deleghe) della pianificazione urbanistica" [12].

Nuovi poteri per la lobby del mattone

Non sono soltanto i lottizzatori e costruttori abusivi i nuovi soggetti che intervengono attivamente nei processi di urbanizzazione degli anni '80. Alle imprese tradizionali, agli abusivi, agli enti pubblici tendono ad affiancarsi, sostituendo questi ultimi, le grandi impre­se. Già ai tempi della discussione delle leggi per la casa, negli anni tra il '70 e il '78, queste avevano tentato di presentarsi alla ribalta come soggetti, "di alto profilo organizzativo e di elevata capacità economica", capaci di sostituire lo Stato nella realizzazione, progettazione e gestione non di singole opere, ma di interi "sistemi urbani". Il pretesto, e l'alibi, erano costituiti dal divario tra le emergenti necessità sociali e le condizioni della pubblica ammi­nistrazione. Quest'ultima, si diceva, richiede per il suo adeguamento tempi non compatibili con l'urgenza di provvedere (alle case, alle autostrade, ai tribunali, alle poste ecc.ecc.). In attesa della sua riforma - dicevano allora i propugnatori dello "Stato in appalto" - , affi­diamo dunque alle grandi imprese i compiti di programmare, pianificare, progettare, co­struire, gestire.

Il nesso tra degrado della pubblica amministrazione (e in particolare dei suoi corpi tec­nici, a tutti i livelli) e delega di poteri pubblici alle grandi imprese meriterebbe una indagi­ne attenta. Certo é che, nella nostra storia recente, quel nesso si é rivelato un vero circolo vizioso: il degrado degli strumenti dell'azione pubblica costituiva l'alibi per la delega di competenze, quest'ultima deprimeva ulteriormente le strutture pubbliche accrescendo così la credibilità di nuove deleghe e così via, allontanando sempre più il funzionamento del si­stema dal modello costituzionale.

La linea dello "Stato in appalto" fu sconfitta negli anni '70, in Parlamento, da una pro­posta "istituzionalista", che correttamente attribuiva a una equilibrata composizione delle competenze dei diversi livelli istituzionali le funzioni di programmazione territoriale degli interventi nell'edilizia[13]. Ma le parziali riforme di quegli anni non furono accompagnate da un'azione politica coerente, né furono completate in alcuni aspetti essenziali del quadro ne­cessario per esercitare un efficace governo del territorio. E' anche per questo che, a metà degli anni'80, riemerge qualcosa che sembrava sepolto.

Nel marzo del 1987 che Luigi Lucchini, allora presidente della Confindustria, aprendo l'assemblea della sua organizzazione afferma che lo Stato deve rilanciare la spesa per opere pubbliche, smobilizzare "l'ingente patrimonio demaniale non più funzionale alle esigenze", agevolare l'afflusso del risparmio privato alle "grandi opere pubbliche" [14]. La stampa dell'epoca pone in relazione queste richieste del leader degli industriali con le iniziative che stavano avvenendo in quei mesi. Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese non si limitava più alla formazione di episodici consorzi di imprese del settore. Si puntava più in alto: a organizzarsi per un poderoso rilancio degli investimenti pubblici, reso possibile dal risparmio conseguito con la crisi del petrolio, che avrebbe potuto compensare il venir me­no della spinta alle esportazioni.

Già al potente gruppo Italstat, ferreamente diretto da Ettore Barnabei (arrestato per lo scandalo dei "fondi neri" dell'Iri, e poi rilasciato per un'amnistia "confezionata apposta per lui" [15] ), si erano affiancati due poderosi consorzi: le Grandi opere (Rendo, Di Penta, Gam­bogi, Del Favero, Maltauro, Pizzarotti, Romagnoli, Segesta) e la Argo (Impresit, Astaldi, Cogefar, Girola, Federici, Recchi, Lodigiani, Vianini).

Accanto a questi, si costituisce l'Igi, l'Istituto per gli studi e la promozione delle grandi infrastrutture, presieduto da Giuseppe Guarino (poi più volte ministro). Nell'Igi ci si pro­pone di realizzare la saldatura organica tra le tre grandi componenti del mondo imprendi­toriale: le imprese private, quelle di capitale pubblico, quelle cooperative, rappresentate ciascuna da uno dei tre vicepresidenti. All'Istituto partecipano trentasei tra le maggiori imprese italiane. Interessante la dichiarata finalità sociale: "accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture, attuare un migliore e più attento uso del territorio, stimolare un in­tervento per il mezzogiorno, promuovere l'attuazione di un sistema delle concessioni che superi le attuali difficoltà delle procedure".

La stampa parla più volte di una nuova potente "lobby del mattone". Altri mettono in evidenza un aspetto preoccupante. Afferma la rivista dell'Istituto nazionale di urbanistica: "Una simile nuova potenza si pone direttamente al livello dei poteri centrali dello Stato: suoi interlocutori non sono le regioni e i comuni, ma direttamente il governo (e le segrete­rie dei partiti). Eppure esse si propongono di intervenire nelle scelte che determinano il futuro dell'assetto delle città e del territorio. E tra i suoi obiettivi non c'é solo la 'sparti­zione della torta', ma lo scavalcamento dei metodi e dei procedimenti della pianificazione e la sostituzione ad essi di un potere direttamente gestito dalle aziende" [16]

Il vento dell'emergenzanelle vele della deregulation

Già lo si era visto con i primi passi sulla via della "de-pianificazione": le vele dei distrut­tori dell'urbanistica si gonfiano col vento dell'emergenza. Negli anni '78-'82 era stata "l'emergenza casa", che aveva giustificato le prime deroghe delle leggi di quegli anni e aveva in qualche modo contribuito anche ad alimentare il più esasperato condonismo dell'abusivismo (lo slogan era: "che senso ha prevedere la distruzione di casette abusive se c'é una così forte carenza di case?"). Ma altre "emergenze" si susseguono, e quando non sono causate da calamità naturali e altri eventi imprevedibili, si inventano con italica fanta­sia. Terremoti, alluvioni, alghe, manifestazioni sportive, esposizioni, celebrazioni, esigenze di ordine pubblico: tutto fa brodo per gli sregolatori.

Tra le "emergenze inventate" va annoverata la calamità territoriale dei Mondiali di cal­cio. Dal maggio del 1984 si sapeva che la grande kermesse agonistica si sarebbe tenuta in Italia nel 1990, sei anni dopo. Tutto il tempo di provvedere, quindi: ma allora, non sarebbe stata un'emergenza! E infatti si dorme per tre anni. Ci si sveglia nel 1987, e si approva un decreto, dominato dall'urgenza [17]. Questo prevede, nella sostanza, due cose: soldi per opere d'ogni genere, e facoltà di derogare dalle procedure urbanistiche.

Lo strumento impiegato per derogare é la "conferenza". Una riunione di rappresentanti di tutti gli enti interessati, vuoi per competenza tecnica vuoi per obbligo di esprimere pa­reri o accertare conformità, esamina frettolosamente i progetti delle opere e li approva, an­che se sono in deroga agli strumenti urbanistici. Un rappresentante del comune presente a una riunione, in cui in mezza giornata si esaminano decine di progetti, col suo "si" o, molto più raramente, col suo "no", scavalca la discussione dl Consiglio comunale, la partecipa­zione dei quartieri, il parere della cittadinanza: senza alcuna pubblicità, decide per tutti su opere che, in molti casi, condizionano pesantemente il futuro delle città coinvolte [18].

Osserva Luigi Scano: "L'evento calcistico viene cupidamente visto come una nuova oc­casione per riproporre un vecchio e adusato gioco: prendere le mosse da una circostanza 'straordinaria' per attivare ingenti investimenti, totalmente o prevalentemente pubblici, es­senzialmente nel comparto delle opere edificatorie, assumendo l'urgenza e la ristrettezza dei tempi disponibili, l'assenza di coerenti e funzionali previsioni sedimentate negli stru­menti di pianificazione e di programmazione, e anche la farraginosità (presunta, e anche reale) delle ordinarie disposizioni di merito, le carenze dei sistemi decisionali politici e delle amministrazioni, come ragioni ('e che ragioni forti!', direbbe Leporello) per sospendere l'efficacia del maggior numero possibile di 'regole'" [19].

I Mondiali fanno rapidamente scuola. Le procedure derogatorie si allargano via via, con ogni legge o leggina che riguarda, direttamente o indirettamente, il governo del territorio. Tra gli esempi più significativi, la legge per le mucillaggini [20], i provvedimenti per le cele­brazioni di Cristoforo Colombo [21] e i nuovi provvedimenti speciali per la salvaguardia di Venezia. E' sulle vicende della città lagunare (uno dei bunker di Tangentopoli colpita dalla Magistratura) che é utile soffermarsi.

Una laguna di consorzi

Nel bene e nel male, Venezia é stata spesso un laboratorio di formule politiche e di istituzioni e procedimenti. Negli anni '70, con la legge scaturita dagli eventi calamitosi del 1966 [22], si cerca di sperimentare la pianificazione di "livello intermedio", il risanamento dell'edilizia storica senza espulsione di abitanti, lo "sportello unico" per l'approvazione dei progetti, l'alleanza programmatica tra Dc, Psi e Pci. Negli anni '80 si sperimentano due istituti, tra loro strettamente connessi nella recente esperienza italiana, tipici della nascente Tangentopoli: i consorzi di imprese e la concessione.

Il consorzio di imprese si é rivelato, in questi mesi di riflessioni giudiziarie, essere diven­tato lo strumento ideale per evitare gli "inconvenienti" (per le imprese) della concor­renza, per tenere con ciò stesso alti per la collettività i costi della realizzazione delle opere pubbliche, per aumentare infine (in virtù delle "sinergie", parola divenuta alla moda proprio in questi anni) la forza di pressione diretta a ottenere dallo Stato consistenti finanziamenti per i grandi progetti volta per volta decisi. La concessione, cui si é già accennato, é diven­tata lo strumento per la delega alle aziende private a capitale privato, cooperativo e pub­blico (la presenza delle tre componenti é stata sempre considerata necessaria per ottenere una copertura politica completa) della progettazione e realizzazione di grandi progetti di trasformazione territoriale. La connessione tra consorzi e concessione (realizzata mediante l'assegnazione ai consorzi della concessione di opere e/o di servizi) ha costituito infine lo strumento ideale per la simbiosi, in molti casi malavitosa, tra imprenditori, in molti casi corruttori, e politici, in molti casi concussori.

A Venezia le esperienze si sono snodate, in rapida successione, a partire dal 1984, ruo­tando attorno a tre personaggi di diverso (ma sempre notevole) spessore politico, tutti e tre inquisiti dalla Magistratura in relazione ai noti eventi: Gianni De Michelis, Carlo Ber­nini e Franco Cremonese. Leader indiscusso del Psi veneziano il primo e due volte mini­stro, prima alle Partecipazioni statali poi agli Esteri, attualmente vicesegretario del suo partito; leader della Dc veneta dopo Toni Bisaglia, presidente della Regione e poi ministro per i Trasporti il secondo; presidente della Regione dopo Bernini, infine, il terzo.

Tutto é cominciato, cronologicamente, con le modifiche alla legislazione speciale per Venezia apportate con una legge del 1984 [23]: nello stesso anno, quindi, del condono dell'abusivismo edilizio. La nuova legge affida a un consorzio di imprese, denominato Consorzio Venezia Nuova e costituito dal fior fiore delle imprese italiane di costruzioni e di ingegneria, gli studi, la progettazione e l'esecuzione delle opere di competenza dello Stato: opere altamente complesse, e altrettanto costose, che si ritengono necessarie per ripristinare la morfologia lagunare e regolare le maree [24].

Una successiva legge per Venezia [25] si pone l'obiettivo di affrontare in modo finalmente efficace il problema del disinquinamento della laguna, intervenendo organicamente sull'in­tero bacino scolante con le opere di competenza della Regione: naturalmente, affidando a un apposito consorzio i compiti di progettare ed eseguire le ingenti opere necessarie. Ma é, programmaticamente, un consorzio diverso dal primo, per la sola ragione che i patrons dorotei del Veneto non si fidano del colore politico prevalente attribuito, a ragione o a torto, al Consorzio Venezia Nuova. Il nuovo organismo viene costituito; senza troppa fantasia, viene denominato Consorzio Venezia Disinquinamento: un nome che entrerà, nella torrida estate del 1992, nelle cronache giudiziarie.

Due consorzi dunque, e due concessioni, in relazione alla stessa laguna: l'uno sul solo invaso lagunare, l'altro sull'intero bacino scolante. Come si può pensare però che disinqui­namento e riassetto morfologico della medesima laguna, affidati a due soggetti diversi, possano procedere senza un opportuno coordinamento? Ecco allora che, dopo lunghe e animate discussioni "politiche", interviene provvidenzialmente una ulteriore legge [26]. Que­sta dispone che, per coordinare tra loro i programmi e l'operato della longa manus del Ministero dei lavori pubblici (primo consorzio) con quella della Regione (secondo consor­zio). intervenga il Ministero dell'Ambiente. Con quale strumento? Lo spirito dei tempi lo impone. Naturalmente, lo strumento non può essere una struttura pubblica: dovrà essere anch'esso un consorzio, il terzo.

I giochi sembrerebbero finiti. Non é così. Tra le cose urgenti per Venezia c'é la neces­sità di riprendere il sistematico lavoro di manutenzione dei rii e canali interni, occlusi dal fango e dalle immondizie depositate sul fondo dopo un secolo d'incuria; contemporanea­mente, riprendendo anche qui un'antica tradizione abbandonata, si potranno risanare le murature di fondazione dei palazzi. La competenza é del Comune (i soldi, come sempre, sono del contribuente). Ma il Comune non compare alle spalle di nessuno dei tre consorzi fin qui costituiti. Ecco allora che ci si adopera per costituire un quarto consorzio, formato da un accorto dosaggio di partecipazioni incrociate dei componenti degli altri tre consorzi. Si formerebbe così un ideale quadrivio, nel quale far convergere sinergie, finanziamenti, appalti (e, se occorre, tangenti). Le iniziative della Magistratura hanno suggerito di so­spendere la formazione del terzo e del quarto soggetto.

Expo 2000: un esperimento?

Non sempre la costituzione di consorzi é promossa da una iniziativa legislativa, o co­munque da una (almeno apparente) promozione pubblica. A volte, la partenza é assoluta­mente privatistica, anche se, come vedremo, con singolari e discutibili intrecci tra pubblico e privato. A volte, sono le aziende che si organizzano, "inventano" un progetto su cui si propongono di attirare l'opinione pubblica e i "decisori" politici, per ottenere risorse da gestire. A volte, insomma, é l'offerta che si dà da fare per creare la domanda.

Anche qui, Venetia docet. Il caso più singolare é la vicenda della tentata (secondo altri, minacciata) Expo Del Terzo Millennio. Il sasso in piccionaia lo lanciò Gianni De Michelis, nel 1984, in un'intervista giornalistica. Sulla sua idea, e sulle prospettive che essa faceva balenare, si costituì un consorzio di imprese, autodefinitosi Venezia Expo. Lo componeva il solito pool di imprese, molte delle quali autorevoli, potenti, e alcune nella condizione del "privato vicino al pubblico" [27]. L'obiettivo era di sollecitare il Governo italiano a premere perché l'apposito Ufficio internazionale delle esposizioni (il Bie) decidesse di tenere a Ve­nezia la prestigiosa Esposizione universale nell'anno 2000: naturalmente candidandosi a gestire i consistenti flussi finanziari.

Il Governo, naturalmente, si impegnò, con le dichiarazioni e i conseguenti atti di due Presidenti del Consiglio, Craxi e Andreotti. La cosa sembrava fatta. Il gigantesco battage pubblicitario, e le sofisticate operazioni di cattura del consenso dell'opinione pubblica, sembravano essere lì lì per far assegnare all'Italia (e a Venezia) l'onere di organizzare la grande fiera e di realizzare, con una ingentissima spesa mai esattamente quantificata, le costose opere necessarie. La stampa di quei mesi informa che le ambasciate italiane, so­prattutto quelle nei paesi che ricevevano, o speravano di ricevere, assistenza dall'erario tramite la Farnesina, sono sollecitate ad adoperarsi per convincere i relativi governi a vota­re per la soluzione veneziana alla riunione del Bie che deve decidere tra le candidature concorrenti (Ministro per gli Affari esteri era all'epoca De Michelis).

Ma si era messa in moto, nel frattempo, la reazione di chi, temendo l'effetto perverso che una Expo a Venezia avrebbe provocato sul delicato tessuto fisico e sociale della città, contrastava l'iniziativa. Essa coinvolse la più qualificata opinione pubblica nazionale e in­ternazionale, e finì per determinare il pronunciamento sfavorevole del Parlamento europeo e di quello italiano. Il pallone si sgonfiò. Ma il Consorzio rimase in piedi, é ancora vivo in attesa di costruire nuove occasioni d'affari: quello dell'Expo é fallito solo per un soffio, non tanto da spegnere le speranze per il futuro. E comunque, la vicenda é servita per di­mostrare come le "sinergie" tra pubblico e privato, costruite spavaldamente fuori dalle re­gole dell'ufficialità (ma utilizzando senza pregiudizi le leve del potere) possono produrre, per le imprese, e per chi con esse si allea o strumentalmente le utilizza, interessanti pro­spettive di lavoro.

Le cautele della Cee

Concessioni, consorzi di imprese, delega di poteri, nuovi intrecci tra pubblico e privato che consentano di "sveltire", "snellire", "semplificare", "rendere più fluidi i percorsi", "realizzare fruttuose sinergie". Nella costruzione e nell'impiego dello strumentario dell'Ita­lia "moderna" ci sono indubbiamente motivazioni rispettabili (ancorché, nel merito, spesso mal poste e mal risolte). Ma c'é anche, e vorrei dire soprattutto, la formazione dell'am­biente più propizio all'intreccio malavitoso tra i pubblici poteri e le risorse collettive da una parte, e gli interessi privati di potenti soggetti economici e influenti soggetti politici dall'altra parte.

Del resto, per quanto riguarda i due attrezzi di cui ci siamo ora occupati (la concessione e i consorzi) la Comunità economica europea ha da tempo raccomandato di limitare e cir­condare di garanzie l'istituto della concessione, considerato suscettibile di provocare effetti perversi per l'interesse pubblico e per il corretto funzionamento del mercato. Puntare, da parte della pubblica amministrazione, sull'accordo preventivo tra imprese, tramite la for­mazione di consorzi che tendano a comprendere al loro interno tutti i potenziali concor­renti, indubbiamente consente di controllare meglio l'esito degli appalti. Non però nel senso di spuntare prezzi migliori, quali sarebbero quelli determinati da una "libera concor­renza", ma in quello di garantire meglio, ponendosi al riparo dalla concorrenza, che i prezzi siano tali da consentire il passaggio di mano di robuste tangenti.

Da questo punto di vista, la panoramica finora aperta su Tangentopoli ha rivelato dav­vero un inquietante intreccio di responsabilità, di colpe e di tradimenti. Da una parte, i concussori: i politici, in teoria (e nei rotondi discorsi pronunciati nelle cerimonie e sul vi­deo) gli esponenti dell'espressione democratica degli interessi generali, che tradiscono il loro mandato, e quindi la moralità del loro ruolo sociale, barattando l'interesse collettivo per una lucrosa sistemazione dei propri interessi economici e/o di potere. Dall'altro lato, i corruttori: gli imprenditori, in teoria (e nelle chiacchiere dei salotti come nei sussiegosi editoriali sui giornali a loto più vicini) i depositari e gli interpreti delle virtù del capitalismo (e occorre dire, in questi chiari di luna, della sua superiorità storica sul socialismo), che gettano via mercato e concorrenza per acquisire sicure rendite di posizione. A un bel con­nubio davvero era affidata la "modernizzazione" del paese!

Pubblico e privato

La distinzione dei ruoli tra pubblico e privato quale premessa per i rapporti economici tra i soggetti dell'una e dell'altra categoria, é indubbiamente una base indispensabile per il corretto funzionamento di una democrazia moderna. Più antica ancora é la consapevolezza della necessità della distinzione tra pubblico e privato nella gestione dell'urbanizzazione del territorio. Qui la subordinazione degli interessi economici privati agli interessi della città in quanto tale é riconosciuta, fin dai "secoli bui" del medioevo europeo, come la condizione perché la città cresca e si trasformi libera, bella e funzionale [28].

In un'epoca dominata dall'individualismo proprietario, quale é quella che caratterizza la lunga fase dell'egemonia capitalistico-borghese fino alle sue più recenti mutazioni ed espressioni, quella subordinazione ha avuto bisogno di specifici strumenti tecnici perché le regole dell'individualismo proprietario non prevalessero nella città: dunque, là dove ciò - se fosse avvenuto - avrebbe prodotto un insostenibile caos. Per imprimere, all'azione dei sin­goli proprietari e costruttori, una regola d'insieme volta agli interessi collettivi, si é inven­tato nella seconda metà del XIX secolo il piano regolatore; e nei primi decenni del XX se­colo si é compreso che era necessario accompagnare il piano con gli strumenti che rendano possibile una politica fondiaria non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria, e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare.

L'Italia é arrivata abbastanza tardi, rispetto agli altri paesi europei, a generalizzare la pianificazione urbanistica. Una buona legge fu quella approvata nel 1942, cinquant'anni fa, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni [29]. Essa però rimase inutilizzata per molti anni, finché gli scandali esplosi all'inizio degli anni '60, e le stesse esigenze di efficienza del si­stema produttivo, non indussero a generalizzarne l'applicazione [30]. Quando questo avven­ne, la Corte costituzionale, con una serie di sentenze pronunciate a partire dal 1968, fece emergere un nodo di fondo irrisolto: la contraddizione tra i "vincoli", e soprattutto quelli "di tipo espropriativo", necessariamente posti dalla pianificazione urbanistica alla utilizza­zione edilizia della proprietà privata, e i princìpi ordinatori del sistema giuridico italiano.

Sono passati quasi venticinque anni, e il nodo non é stato ancora sciolto [31]. La legittimi­tà dei vincoli urbanistici e delle indennità espropriative, e quindi della stessa pianificazione, sono messe in dubbio. E' chiaro che questo fornisce alibi consistenti a chi vuole "regolare" l'uso del territorio a partire non dagli interessi della collettività, ma da quelli dei proprie­tari.

Affrancare il profitto dalla rendita: una tendenza contraddetta

Nel corso degli anni '70 si era compiuto, in particolare a Roma, uno sforzo consistente per raggiungere un obiettivo di grandissimo interesse politico, economico, sociale: rompe­re la saldatura tra impresa edilizia e speculazione fondiaria, tra profitto e rendita. Ta­gliando faticosamente con una tradizione che vedeva, nel bilancio delle attività edilizie, prevalere massicciamente gli utili della speculazione su quelli dell'impresa produttiva con­sistenti gruppi di imprenditori avevano scelto di orientare la loro attività alla realizzazione di edifici sulle aree preventivamente espropriate dal Comune. Ciò era stato possibile utiliz­zando con intelligenza politica lo strumento costituito dalla legge 167/1962 e trovando una sinergia (questa volta virtuosa) tra la volontà dell'amministrazione di sinistra di realizzare alloggi senza pagare prezzi elevati alla rendita, e la disponibilità di alcune componenti dell'Associazione dei costruttori di ammodernare la categoria avviandola su una strada nettamente "imprenditoriale" [32].

A Roma, ma non soltanto a Roma: in tutte le zone del paese dove il governo del terri­torio adopera gli strumenti forniti dalle leggi urbanistiche degli anni '60 e '70 (la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale) si cominciano ad affermare realtà imprenditoriali "pulite", che operano (naturalmente senza rimetterci) nelle aree preventivamente espro­priate dai comuni, per interventi edilizi in cui i prezzi di vendita sono convenzionati con l'Amministrazione comunale: a carte scoperte.

La tendenza s'inverte nettamente nel decennio successivo. I piani della legge 167/1962 sono svuotati: prima c'era l'esproprio preventivo, adesso sono i proprietari i favoriti nell'edificazione. Avere il "vincolo" del piano 167 sul proprio terreno non é più una pena­lizzazione, é un premio. Sembrano frustrati i tentativi di affrancare il profitto dalla rendita: quest'ultima riprende il sopravvento. E le cronache urbanistiche degli anni '80 sono costel­late da progetti in cui l'iniziativa é assunta da grandi gruppi economici in cui il motore non é l'attività imprenditoriale, ma la "valorizzazione immobiliare".Ciò che interessa non é tanto realizzare, quanto "mettere in portafoglio" il valore di un'area che, da agricola, o in­dustriale (magari coperta da fabbriche obsolete) diventa edificabile per destinazioni ricche: prevale il terziario, privato e pubblico. E il Comune va a rimorchio, mette lo spolverino a decisioni già prese, copre e avalla affari altrui.

Succede dappertutto. Nelle città grandi e in quelle medie e piccole. Nei centri storici (come con la proposta Neo Napoli, sponsorizzata da Paolo Cirino Pomicino) e negli am­bienti naturali più delicati e pregevoli (come nella Baia di Sistiana, nel comune di Duino Aurisina). Nelle zone industriali dismesse (come il Lingotto a Torino, la Bicocca e l'Alfa-Portello a Milano, la Zanussi a Pordenone, l'Italsider a Napoli, la Fiat-Novoli a Firenze) e nelle zone esterne ai centri (come i numerosi tentativi nella periferia di Roma e in quella di Milano). Con le amministrazioni di destra, di centro, di centro sinistra, e anche con quelle di sinistra. Il caso tipico, quello che fa esplodere la questione dell'urbanistica contrattata per la dura reazione del nuovo segretario del Pci, é Firenze. Su di esso è opportuno ri­chiamare la memoria non tanto perché sia l'episodio più grave di urbanistica contrattata, ma per il significato emblematico che ha assunto, e per il possibile punto di svolta che ha rappresentato.

Il trauma di Firenze

A Firenze, nell'estate del 1984, vengono resi pubblici due progetti d'investimento im­mobiliare, l'uno della Fiat, nell'area di Novoli, l'altro della Fondiaria. La prima era già proprietaria dell'area, e voleva "valorizzarla". La Fondiaria aveva comprato in vista dell'operazione un vasto compendio di aree nella piana a nord-est della città, lungo una direttrice considerata strategica per la riorganizzazione dell'intera area metropolitana. L'insieme dei due progetti comportava la costruzione di 4,2 milioni di metri cubi, su 228 ettari, e un investimento valutato in 2 mila miliardi.

Il Comune aveva avviato la redazione del nuovo piano regolatore. Attendere la forma­zione di questo (affidato a due consulenti di grande prestigio e affidabilità, Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti) avrebbe permesso di compiere le scelte sulle aree interessate dall'operazione nel quadro, ed in funzione, delle scelte più complessive sulla città, finalizzando gli interventi nell'area nord-est a un progetto di riqualificazione ambien­tale, all'esigenza di decongestionare il centro storico, all'obiettivo di una più corretta loca­lizzazione metropolitana delle attrezzature urbane. E' quello che suggerisce, ad esempio, l'Istituto nazionale di urbanistica.

Ma le esigenze di "valorizzazione immobiliare" non possono attendere. Gli investitori fremono. Acquisiscono le necessarie comprensioni politiche e amministrative, e ottengono dal comune l'approvazione di una variante ad hoc al piano regolatore vigente. Questa viene adottata dal Consiglio comunale (a maggioranza di centro sinistra) nel marzo 1985. La maggioranza (di sinistra), che subentra dopo le elezioni amministrative conferma le deci­sioni. La variante prosegue il suo iter, tra le polemiche più aspre e la crescente opposizione di un fronte composito e ampio, indebolito dalla posizione defilata, ma favorevole alla va­riante Fiat-Fondiaria, del Pci.

Prima che la variante giunga alla sua conclusione, un colpo di scena. Nel giugno del 1989 il Segretario del Pci, Achille Occhetto, intima l'altolà. In una riunione del Comitato federale di Firenze, piena di tensione, giungono una telefonata e due messi del Segretario: i comunisti non possono ulteriormente avallare le scelte della Fondiaria e della Fiat per l'area nord-est, il cui destino deve essere tracciato da un vero piano regolatore generale.

Il partito, a Firenze e non solo a Firenze, é diviso. Anche chi non era convinto dell'operazione Fiat-Fondiaria esprime preoccupazione per il fatto che sia stata necessaria la "telefonata di un segretario di partito" per correggere scelte sbagliate. Il punto é che non si trattava solo di correggere le decisioni di una federazione o di una giunta. Si trattava an­che e soprattutto di indicare, con un gesto forte e chiaro, che l'andazzo seguito per oltre un decennio non era compatibile con il nuovo corso del Pci. Un trauma quindi, certamente, ma un trauma necessario: poiché bisognava superare un vuoto che per troppi anni aveva caratterizzato la politica del Pci nei confronti dell'urbanistica: nei confronti dei metodi e degli strumenti per il governo del territorio.

Il "rito ambrosiano" negli anni '80

Un trauma come quello di Firenze non ci fu, in quegli anni, a Milano. E fu un peccato, perché proprio nella "capitale morale d'Italia" la prassi dell'urbanistica contrattata aveva preso più piede, ed era stata anzi teorizzata: proprio negli anni delle giunte di sinistra [33].

A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il "rito ambrosiano": una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall'assessore democri­stiano Filippo Hazon, che "superava" le norme del piano regolatore vigente concedendo concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora "licenze di costruzione") là dove non si sarebbe potuto, con l'ipocrita formula della "licenza in precario". Ma é all'inizio degli anni '80 che il "rito ambrosiano" entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strut­ture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente.

Ma il rito ambrosiano non si ferma alle varianti. Come descrivono Barbacetto e Veltri, "in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finan­ziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io ammini­stratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)" [34]: contropartite garantite da lettere private, tenute ac­curatamente segrete. Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensa­re che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi! Il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle suc­cessive azioni della magistratura.

Il libro di Barbacetto e Veltri é uscito pochi giorni prima dell'esplosione innescata dal giudice Di Pietro, ed ha un singolare carattere profetico. Ma ancor più profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio, riportata nel libro. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto:" Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca" [35]. Così era, a Milano (e non solo).

Sebbene a Milano non ci sia stata nessuna telefonata dalle Botteghe oscure, il Pci (nel frattempo era divenuto Pds) uscì comunque dal gioco, con uno scontro aspro che si aprì quando due consiglieri comunali della lista Pci-Pds, Franco Bassanini e Paolo Hutter, deci­sero di opporsi a un provvedimento fatto su misura per gli interessi fondiari dell'Italstat, provocando la caduta della giunta di sinistra. Si trattava di un piano che riguardava tre aree limitrofe: una di proprietà della Fiera, l'altra del Comune e la terza (pari a oltre la metà del complesso) dell'Alfa, poi passata in mano all'Iri, da questa all'Italstat e da questa alla Sistemi urbani. In totale, 22 ettari Le esigenze di razionalizzazione della Fiera (un ente di diritto pubblico) erano il grimaldello "d'interesse pubblico" che si voleva utilizzare per rendere edificabile, con 400 mila metri cubi di terziario conditi da alberghi e da un centro congressi (raggiungibile solo in automobile!), l'area della Sistemi urbani.

Il piano era stato approvato dalla precedente amministrazione. I due consiglieri del Pds, i Verdi, e un vasto fronte di associazioni ambientalistiche e culturali, chiedevano che il piano fosse ridimensionato e finalizzato solo alle esigenze pubbliche. Un aspro scontro nel Pds portò al prevalere di questa posizione. Il piano fu bocciato in Consiglio comunale. Su questo si aprì la crisi, e il Pds uscì dalla maggioranza e, anche a Milano, dal sistema dell'urbanistica contrattata. Almeno, si spera.

Uscire da Tangentopoli

Così vasta si é rivelata Tangentopoli che uscirne non sembra facile. La società si é manifestata in preda a un'infezione così ramificata e coinvolgente che non basta intervenire su di un solo aspetto.

Non bastano le cure più evidenti, quali le nuove norme per gli appalti delle quali da tempo le organizzazioni più direttamente coinvolte nel processo edilizio (dai sindacati dei lavoratori all'associazione padronale) suggeriscono la necessità. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combat­tere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta sforzarsi di ripristi­nare la concorrenzialità tra le imprese, come la Cee invita a fare e come sembra stia facen­do il ministro per i Lavori pubblici.

Occorre anche altro. Non si tratta infatti solo di un problema di corruzione diffusa: si tratta di una distorsione pesante e consolidata delle basi del sistema dei poteri. Occorre allora, in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del go­verno del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò nei terribili anni '80 é stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.

Da dove cominciare, però? Dov'é il capo del filo di Arianna che può aiutarci a uscire da Tangentopoli?

"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che analizzava Tangento­poli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si é tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprat­tutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbat­timento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse" Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legi­slazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e pro­getti organici sul regime degli immobili" [36].

Serve la pianificazione

La soluzione giusta di un problema é in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'am­biente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi é stato artificial­mente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianifi­cazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e spero che il lettore che mi ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora é evidente il che fare.

Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo ge­nerale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e me­tropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli in­terventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Basta con le deleghe a strutture pri­vatistiche di compiti che sono propri dei poteri elettivi, e basta con le deroghe, le varianti e variantine a vantaggio di Tizio e di Sempronio: basta insomma con l'armamentario dell'"urbanistica contrattata". E basta con la distrazione e con il disinteresse dei politici, come se la pianificazione non fosse il compito e lo strumento indispensabile di una politica moderna, e fosse invece soltanto una ubbia "culturale" o una mansione meramente "professionale" di una qualche corporazione.

Occorre, insomma, una pianificazione efficace ma trasparente, flessibile ma capace di imprimere sempre alle trasformazioni del territorio la coerenza necessaria al governo di mutamenti rapidi in una realtà complessa. Una pianificazione che sappia ripristinare un adeguato sistema di garanzie: garanzie per i diversi livelli istituzionali coinvolti, garanzie per gli interessi economici presenti, ma soprattutto garanzie per i fruitori della città: quelli di oggi, e quelli di domani.

Occorre poi, in secondo luogo, che vada affrontata in modo rigoroso, e finalmente ri­solta, la questione del regime degli immobili, soprattutto nei suoi due punti cardini: quello dei valori economici e quello dei poteri.

Dal punto di vista del valore economico da riconoscere alla proprietà immobiliare (aree ed edifici), è opinione da tempo consolidata che esso non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma de­ve compensare solo l'uso legittimo del bene. Tanto antico è questo principio che esso era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865, anche se l'affermazione di principio non é stata mai tradotta in norme e comportamenti con essa conseguenti. E anco­ra a proposito di valori, una riforma appena appena seria dovrebbe stabilire che quello ri­conosciuto alla proprietà immobiliare dalla legge deve essere assunto come limite massimo (ovviamente, a favore della collettività) in qualsiasi transazione nella quale il pubblico sia uno degli attori. Esso dovrebbe valere quindi in caso di indennità di espropriazione, di convenzionamento dei prezzi e dei canoni d'uso, di acquisto bonario, di imposizione fisca­le, di cessione o permuta dei beni tra amministrazioni diverse, e così via.

Dal punto di vista dei poteri, ciò che soprattutto interessa è che il meccanismo di de­terminazione dei valori sia tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo requisito é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se esso non fosse ottenuto (e quindi delle inevitabili e giuste cen­sure di costituzionalità) ma anche perché non raggiungerlo significherebbe porre ipoteche fortissime sulla pianificazione urbanistica, e quindi sullo strumento che concretamente la collettività utilizza per definire le scelte sul territorio.

Soltanto se questi due obiettivi (la rinascita della pianificazione e la riforma del regime degli immobili) saranno raggiunti si saranno poste le condizioni di fondo perché anche gli altri provvedimenti necessari possano trovare una dispiegata efficacia, e perché possa esse­re così prosciugato il terreno melmoso del disordine e della corruzione su cui sorge Tan­gentopoli. Senza illudersi con ciò di aver realizzato la città ideale o costruito la società perfetta, ma con la certezza di essere almeno più vicini all'obiettivo di rendere l'Italia un paese moderno e civile, al livello degli altri che appartengono all'Europa.

Venezia, H aprile aa[1] - Mi riferisco alle dichiarazioni programmatiche pronunciate dall'on. Giuliano Amato al Senato della Repubblica il 30 giugno 1992 e al documento illustrato dall'on. Achille Occhetto, a nome del Pds, al Presidente della Repubblica nell'incontro del 17 giugno 1992.

[2] - Legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Con questa legge l'urbanistica, nei comuni, passò di fatto dalle competenze degli assessorati all'urbanistica a quelli ai lavori pubblici. Le decisioni, anche formali, sul territorio non avvenivano infatti più mediante i piani (e le lunghe e ampie discussioni che questi provocavano), ma con un comma marginale introdotto nelle delibere di approvazione dei progetti di opere pubbli­che, di competenza appunto degli assessori ai lavori pubblici. Non a caso, negli anni '60 e '70 i partiti si contendevano gli assessorati all'urbanistica, mentre negli anni '80 di­vennero invece più ambiti quelli ai lavori pubblici.

[3] - Legge n.25 del 15 febbraio 1980 e legge n.94 del 25 marzo 1982.

[4] - Legge n.80 del 17 febbraio 1987, .

[5] - Legge n.64 del 1 marzo 1986.

[6] - Alessandro Dal Piaz, "La questione urbana nel Mezzogiorno", in: La città sostenibile, a cura di Edoardo Salzano, Edizione delle autonomie, Roma 1992, p.187.

[7] - Ibidem.

[8] - Legge n.47 del 28 febbraio 1985, Norme in materia di controllo dell'attività ur­banistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive.

[9] - Vezio De Lucia osserva che, nella fase della discussione della legge e nel regime determinato dai decreti-legge, l'abusivismo raggiunge il suo massimo storico. La di­mensione dell'abusivismo passa infatti dai 65 mila alloggi all'anno del periodo '50-'60, dai 120 mila all'anno del periodo '61-'76, dai 115 mila all'anno del periodo '77-'83, ai 200 mila nel corso del 1984. (V. De Lucia, Se questa é una città, Editori riuniti, Roma 1989; cfr.p.199).

[10] - Tra i più attivi é giocoforza ricordare Lucio Libertini, in quegli anni (e per un lungo e nefasto decennio) autorevole e incontrastato responsabile per il settore, denomi­nato all'epoca "Trasporti, casa, e infrastrutture" (sic) della Direzione del Pci.

[11] - Si veda, ad esempio, l'editoriale del n.80, marzo-aprile 1985, della rivista Ur­banistica informazioni.

[12] - Ibidem.

[13] - Mi riferisco soprattutto alla legge per la casa, n.865 del 22 ottobre 1971 e alle leggi del periodo 1977-78.

[14] - Si veda, ad esempio, Urbanistica informazioni, n.92, marzo-aprile 1987, p.2.

[15] - Come dichiarava, ad esempio, Franco Bassanini; si veda Panorama, 25 settem­bre 1988, p.58.

[16] - Ibidem.

[17] - Decreto-legge n.2 del 3 gennaio 1987, convertito in legge e integrato con succes­sivi provvedimenti del 1987, del 1988 e del 1989.

[18] - Alcuni esempi: la ristrutturazione della stazione ferroviaria di Firenze e del piaz­zale di S.Maria Novella, la grande circonvallazione a Cagliari, la tangenziale a Verona, tronchi di autostrade un pò dovunque, e poi dappertutto alberghi, centri congressi e, na­turalmente, stadi e parcheggi. Grandissima parte delle opere finanziate e "facilitate" per i Mondiali sono state completate soltanto dopo il suo svolgimento.

[19] - LuigiScano, "Anni ottanta e mondiali. Chiuso il cerchio della deregulation", in Urbanisticainformazioni, n.119, gennaio-febbraio 1990.

[20] - Legge n.426 del 30 dicembre 1989, Misure di sostegno per le attività economi­che nelle aree interessate dagli eccezionali fenomeni di eutrofizzazione verificatisi nel­l'anno 1989 nel mare Adriatico. Per ovviare alla sovralimentazione delle alghe si sono riempite le coste di piscine, acquasplash, ampliamenti di alberghi e così via. .

[21] - Legge n.205 del 29 maggio 1989. Anche le Colombiane sono servite soprattutto a finanziare strade, non solo a Genova, sede delle celebrazioni. Tra i casi più straordi­nari si ricordano la Dogana di Segrate, la tangenziale Cremona-Brescia, la complanare di Lucca, la tangenziale di Piacenza, la Torino-Frejus. Parafrasando il noto detto fran­cese, si potrebbe dire che "la politica delle opere pubbliche ha le sue ragioni che la ra­gione non comprende".

[22] - Legge n.171 del 16 aprile 1973.

[23] - Legge n.798 del 29 novembre 1984.

[24]

ARTICOLI CORRELATI
© 2024 Eddyburg