Dalla fine degli anni Sessanta Edoardo Salzano ha incarnato e praticato l’urbanistica in tutte le sue forme: come intellettuale, professionista, politico, amministratore e professore. Napoletano d’origine, consigliere a Roma, assessore a Venezia dal 1975 all’85, preside allo IUAV, autore di moltissimi libri e piani, l’ultima sua creatura è il sito Eddyburg.it, un sito frequentatissimo di urbanistica e molto altro.
Perché ritieni che quello dell'urbanista sia un mestiere?
Dire che è un “mestiere”, e non un’”arte” o una “scienza”, significa mettere in evidenza l’aspetto dell’utilità dell’urbanistica. Quello che mi interessa sottolineare è che urbanistica ha senso se è qualcosa che serve. Chi fa quel mestiere non è – non deve essere – interessato a esprimere se stesso, o a proclamare verità assolute: deve contribuire a costruire una società più equa. Poi, naturalmente, l’urbanistica ha anche la sua verità, la sua componente di scienza e arte, legata alla comprensione della città e del territorio e dei modi di governare le sue trasformazioni.
Perché oggi si chiede agli architetti più che agli urbanisti di pronunciarsi sulla città?
Perché l’ideologia dominante è schiacciata sul presente e non riesce ad avere una visione d’insieme: e allora è più semplice rivolgersi all’architettura, che realizza degli oggetti singoli in tempi relativamente brevi, che all’urbanistica, che si occupa della città come sistema di elementi, in cui il tutto è più importante delle sue parti, e che soprattutto richiede tempi lunghi. Ma se una volta il sindaco era espressione di un partito che aveva un progetto di società, di cui la città doveva essere un’espressione coerente, oggi invece è dominato dall’ansia di essere riconfermato alle elezioni. Il tempo del suo “fare” è due o tre anni, i risultati deve vederli subito. Allora una torre o un ponte o un palazzo che “buca lo schermo” è più funzionale alla vittoria e anche alla competizione tra città: il mio grattacielo è più lungo del tuo, la mia città è più importante, più turisti più investitori più clienti la affolleranno.
Tu hai sempre considerato l'urbanistica indissociabile dalla politica, mentre si diffonde sempre di più un'idea della disciplina come una tecnica "neutrale". Quanto è credibile questa idea?
L’urbanistica è indissociabile dalla politica perché è indissociabile dalla società. La politica è l’arte, o la scienza (o il mestiere) del governo della società. In qualche modo si può dire (Leonardo Benevolo lo dice) che l’urbanistica è una parte della politica. Io dico che ne è uno strumento tecnico. Dire questo significa anche dire che l’urbanistica è non neutrale, ma partigiana. L’urbanistica può essere di destra o di sinistra, può aiutare la politica ad accentuare le differenze di classe, o a privilegiare una classe su un’altra. L’urbanistica, come la politica, può anteporre l’interesse della maggioranza a quello dei pochi, o viceversa.
L’urbanistica moderna nasce all’inizio del XIX secolo, quando si comprende che il mercato risolve un sacco di problemi ma ne genera altri, che la spontaneità delle forze in gioco non sa risolvere e anzi peggiora. Da qui l’urbanistica come visione d’insieme delle trasformazioni del territorio, come attenzione a quello che nel territorio c’è e non si vede se non con uno sguardo esperto: anzi, con l’aiuto di più discipline. Perché l’urbanistica è anche questo: il prodotto della collaborazione di molte discipline. Senza il sociologo e il geologo, lo storico e l’economista, senza il giurista e l’architetto, l’urbanista è cieco e monco.
Quali sono state le battaglie più importanti della tua vita? le rifaresti?
Non contano le singole battaglie. Le fai non perché le scegli, ma perché ti trovi in quel luogo, sai quelle cose, vedi quello che sta succedendo e ti sembra giusto o ingiusto, ti sembra che vada favorito od ostacolato e lo fai. Mi sono trovato a essere consigliere comunale d’opposizione a Roma mentre stavano per attuare una previsione del piano regolatore che mi sembrava folle, costruire 5000 ville nella foresta di Capocotta; con Piero Della Seta riuscimmo a bloccare quello scempio. Mi sono trovato nel comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale della Sardegna, ho aiutato il presidente Renato Soru e i suoi uffici a fare un piano che tutelasse il grande patrimonio mondiale della costa, in parte deturpata da realizzazioni e progetti nefasti, e sono contento del risultato. Adesso sto cercando di aiutarli a difendere una straordinaria ricchezza unica al mondo, la grande necropoli fenicia di Tuvixeddu, a Cagliari, che dissennate scelte del passato sacrificano alla costruzione di 400000 metri cubi di palazzoni: è una questione che dovrebbe interessare tutto il mondo, e che invece sembra interamente gettata sulle spalle di Soru e dei sardi che hanno buonsenso.
Ti sembra che la situazione italiana conservi ancora una specificità rispetto all'Europa o al resto del mondo?
Una specificità negativa. In Italia gli interessi che cospirano contro la città sono diventati negli ultimi decenni più forti che altrove. Mi riferisco soprattutto a una forza e a una debolezza. La forza negativa è nel peso straordinario che ha in Italia la rendita fondiaria, e la connessa speculazione urbanistica. Negli altri paesi europei la rendita urbana viene “tosata”, se ne impiega parti più o meno consistenti per finanziare l’attrezzatura del territorio e i servizi urbani, e in ogni caso non è così onnipotente sulle decisioni che riguardano lo sviluppo della città. La debolezza negativa è quella dell’amministrazione pubblica, ora debole, screditata, mal pagata, sempre meno autorevole e quindi inefficace a difendere il bene comune dal prevalere degli interessi individuali.
Sembra che in questo momento storico l'attenzione delle persone comuni nei confronti della città e della sua organizzazione sia interamente assorbita dal problema della sicurezza, mentre tutto il resto passa in secondo piano. Quali sono le ragioni di questo indebolimento?
La politica non ha saputo affrontare decentemente i problemi nati dalla globalizzazione, in primo luogo l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano perché sono strettamente necessari alla sopravvivenza della nostra economia. Invece di moltiplicare i luoghi e le occasioni d’incontro, si è gonfiata artificialmente la sensazione di insicurezza. Le piazze e gli altri spazi pubblici sono stati sostituiti dagli outlet, dai mall, dai centri commerciali, luoghi finalizzati a racchiudere persone capaci di spendere: clienti, non cittadini. E nella città è aumentata la segregazione. Sempre più forte la zonizzazione sociale: qui i poveri, lì i ricchi, racchiusi nei cancelli virtuali o – sempre più spesso – concreti. Vogliamo stupirci se cresce il potenziale di ribellione? L’uomo sopporta l’ingiustizia sociale fino a un certo punto, poi, se è sano, esplode.
Come ti è venuto in mente di mettere in piedi un sito come eddyburg?
La consapevolezza che da soli non si combina niente, che un primo passo per lavorare con gli altri è condividere. Considero eddyburg un po’ come l’espansione del lavoro che ho fatto come docente e come pubblicista: divulgare senza troppa presunzione, consapevole della mia verità ma disposto a discuterla con gli altri. È stato un successo che ha condizionato moltissimo la mia vita: dedico gran parte della giornata a selezionare e inserire nel sito le decine di suggerimenti che mi arrivano ogni giorno da amici e collaboratori, ma anche da persone che non conosco affatto. Mi sento responsabile verso questi lettori sempre più numerosi.