In un’ampia intervista rilasciata a la Repubblica (1 novembre 2006) il Ministro per i beni e le attività culturali, cui spetta anche la competenza sul paesaggio, alla domanda “Lei pochi giorni fa è stato a Monticchiello, dove sindaci, cittadini, amministratori locali, hanno lanciato un grave allarme sul nuovo sacco edilizio. Cosa può fare il ministero?”, ha così risposto: “Il codice dei beni culturali prevede che ogni regione faccia i propri piani per il paesaggio, e che in questa fase vengano interpellate anche le soprintendenze. Alcune regioni sono già in regola, altre no. Quello che noi vorremmo è utilizzare proprio la Toscana come regione pilota di questa ‘collaborazione’. Per poter prevenire le brutture cementizie piuttosto che scoprire che è impossibile abbatterle dopo”.
Ottime intenzioni, quelle del Ministro. Ma non vorremmo che Rutelli avesse espresso (o che l’intervistatore avesse registrato) un’impressioni un po’ troppo superficiale della pianificazione paesaggistica così come disposta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.
E’ vero, il Codice prevede che ogni regione faccia il proprio “piano paesaggistico”. Ma ove la regione lo faccia (o voglia attribuire carattere ed efficacia di piano paesaggistico al suo piano territoriale regionale, comunque denominato), il codice prescrive molto esattamente quali devono essere: il contenuto del piano (molto definito e dettagliato, perché i beni tutelati devono essere precisamente individuati o individuabili), la sua precettività (molto cogente), la sua estensione (l’intero territorio della regione), la sua fonte (la regione in prima persona). La Corte costituzionale ha poi ribadito che il piano paesaggistico deve essere formato dalla regione, e non può essere un collage di piani comunali o provinciali, né può consistere in un mero rinvio a questi, se non per il recepimento e l’ulteriore specificazione delle norme di tutela.
Nella pianificazione paesaggistica regionale decisivo è il rapporto tra regioni e governo nazionale: non solo perché una malaugurata formulazione delle competenze attribuisce ai poteri esclusivi dello Stato la “tutela” e a quelli concorrenti di Stato e Regione la “valorizzazione”, ma anche e soprattutto perché la tutela del paesaggio è, per i principi stessi della Costituzione, preminente interesse della Repubblica, mentre la pianificazione del paesaggio è responsabilità della Regione. Perciò il Codice è molto attento alle modalità con le quali quel rapporto si esplica.
Si può dire che viene configurato una sorta di doppio regime. Nel regime separato la regione provvede alla “tutela e valorizzazione” dei beni mediante il piano paesaggistico, lo Stato li tutela mediante l’autorizzazione paesaggistica, e i due poteri si sovrappongono con distinti provvedimenti. Nel regime integrato invece il piano paesaggistico è redatto d’intesa tra Stato e Regione, e allora l’autorizzazione paesaggistica non è più necessaria. Ciò ovviamente accade solo se il piano ha i contenuti, la precettività, l’estensione, la fonte, la procedura di formazione prescritte dettagliatamente dal Codice, e quando le province e i comuni abbiano adeguato il loro strumenti al piano paesaggistico regionale.
Se il piano vuole avere gli effetti “liberatori” dell’autorizzazione paesaggistica, allora non basta che “in questa fase vengano interpellate le soprintendenze” (come un po’ burocraticamente si esprime il Ministro), ma che sempre il piano regionale, sia formato d’intesa con il ministero dei Beni e delle attività culturali e quello della Tutela dell’ambiente e del territorio. Ciò significa che non basta “interpellare” le soprintendenze, nè acquisire un loro formale parere, ma che i competenti uffici statali devono essere coinvolti nella formazione del piano, sì da poter essere d’accordo con ogni singola scelta del piano regionale.
“La Toscana come regione pilota” della collaborazione prevista dal Codice, auspica Rutelli. Ottima intenzione. La tutela del paesaggio ha, in quella regione, una tradizione che qualche malaugurato episodio non può cancellare. Tuttavia, per evitare equivoci, è lecito domandarsi se il PIT (piano d’inquadramento territoriale) che la Regione Toscana sta redigendo, avrà le caratteristiche prescritte dal Codice. Lo speriamo vivamente, ma dai documenti e dalle posizioni che conosciamo sembra che, per ora, tra la Toscana e il Codice la distanza sia molta: non sul terreno delle dichiarazioni d’intenti e degli obiettivi, ma certamente su quello della struttura, del contenuto e dell’efficacia. Non vorremmo che la distanza fosse superata non adeguando la pianificazione toscana alle regole stabilite dallo Stato, ma ammorbidendo il rigore del Codice. Come non vorremmo neppure che il ministero per i Beni e le attività culturali e quello per la Tutela dell’ambiente e del territorio, entrambi coinvolti nelle “intese” per la pianificazione paesaggistica, avessero sottovalutato le pesanti responsabilità che il Codice affida loro, e l’attrezzatura che è loro necessaria per adempiervi.