Percezione e condizionamento sociale
Il participio presente “percepito” è adoperato sempre più largamente. La Convenzione europea del paesaggio definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni”. A proposito di povertà si distingue quella misurata in termini di possibilità o meno di soddisfare i bisogni di sussistenza da quella “percepita” in relazione a un mix desiderato di consumi: si sa che non era tanto la fame che spingeva gli albanesi a gettarsi nei gommoni che li portavano in Italia quanto gli orpelli di vita beata formiti dalle nostre televisioni. Anche in termini di sicurezza e di rischio ci si riferisce sempre di più a quelli “percepiti” che a quelli reali, statisticamente comprovati.
Questa enfasi posta sull’elemento soggettivo della percezione individuale è certamente il portato di quel rifluire sull’individualismo e sull’intimismo che pervade l’insieme della nostra vita – e su cui tornerò fra breve. Ma io vorrei a questo punto porre una questione: quanto, dell’insicurezza che alimenta le nostre paure nella condizione urbana e metropolitana è davvero sentimento che nasce da un rischio effettivo, e quanto invece è il prodotto di un’azione penetrante, sistematica, vorrei dire cocciuta, degli organi di formazione dell’opinione pubblica? Di quegli organi – i grandi giornali e le loro appendici gratuite, la pubblicità, e soprattutto la televisione – che hanno ormai sostituito non solo la parrocchia e la casa del popolo, ma finanche la scuola e la famiglia nel formare le coscienze.
Non voglio negare affatto, con questo, la realtà di una situazione nella quale i rischi per l’incolumità personale sono davvero cresciuti rispetto al passato: nelle strade, nelle piazze e nei giardini – come peraltro nelle case e nelle famiglie. Non voglio negare che le città sono più pericolose che nel passato – che le città e le metropoli sono più pericolose di quanto non fossero i paesi e le cittadine. E neppure voglio soffermarmi sulla considerazione che le città di oggi sono in realtà non più, ma diversamente pericolose rispetto a quelle di ieri, perché abbiamo comunque drasticamente ridotto il rischio, allora dominante, di epidemie, di malattie urbane, di miseria endemica (vi invito a leggere le splendide pagine di Matilde Serao nel suo “Il ventre di Napoli).
Vorrei dire soltanto che ciò che appare profondamente e intimamente individuale, privato, soggettivo – appunto la percezione - è a sua volta il portato di un forte condizionamento sociale.
Individuale e sociale
Individuale e sociale sono termini che esprimono due tensioni, due presenze, due caratteristiche della persona che fanno parte entrambe della nostra natura. La bilancia tra l’una e l’altra deve essere in equilibrio, perché la persona non sia annegata in una massa indistinta, oppure al contrario racchiusa nella sua più infernale solitudine.
Richard Sennett, uno studioso a un tempo della società e della città e delle reciproche relazioni, afferma che il prevalere dell’individuale (dell’intimismo) sulla socialità è un processo che inizia da un tempo assai lontano, ma ha avuto la sua esplosione nei decenni più vicini. Colloca l’inizio del processo alla fine dell’Ancien régime e alla nascita del sistema capitalistico-borghese.
Ma quella fase della nostra storia, voglio sottolineare, aveva non uno, ma almeno due modelli di città: la città soggetta al Signore, al Feudatario, al Padrone delle terre, e la città del medioevo comunale, la città della nascente borghesia e del nascente diritto di cittadinanza. La città del Castello assediato dalle casupole della povera gente e dalle “cafonerie”, e la città delle piazze e dell’orgoglio comunale, la cui aria rende liberi.
La nostra città, la città che amiamo (ricordo una bellissima poesia di Luigia Rizzo Pagnin, che trovate in eddyburg.it), è una città nella quale il momento individuale e il momento sociale sono entrambi presenti – come lo erano nel villaggio e nel paese, prima che la grande città, la città cosmopolita, divenisse il modello prevalente. Ma il villaggio e il paese erano, e sono ancora, fortemente caratterizzati da un’identità e una società (una comunità) chiusa: lo straniero, il diverso, l’estraneo vi è immediatamente individuato, controllato, isolato. Non può divenire un rischio solo perché è sottoposto a uno stringente controllo sociale.
La città moderna, la città della nostra epoca, la città formatasi e affermatasi con le vittoria della produzione industriale su quella agricola, la città cosmopolita ha rotto gli steccati delle individualità chiuse. La città è diventata sempre di più il luogo dell’incontro con l’altro, con il diverso, con lo straniero. La città è, per definizione, il luogo dell’incontro, dello scambio: il mercato è l’emblema della sua nascita e, ancora oggi, ne è forse il luogo più significativo. L’incontro e lo scambio con chi? Evidentemente con l’altro, con colui che viene da fuori – il foresto -, con il diverso.
La città può inglobare l’altro, il nuovo arrivato, può assorbirlo nella sua vita sociale. E la storia di molte nostre città è stata questo: penso alle città-porto mediterranee, come penso alla stessa Venezia. Il diverso, il foresto, anziché un rischio può diventare una ricchezza, a causa della sua stessa diversità e dell’accrescimento della nostra comprensione del mondo che provoca.
Ma perché ciò avvenga sono necessarie due cose: (1) che nella città ci sia una vera vita sociale, (2) che questa vita sociale abbia i luoghi nei quali esprimersi. Occorre che la città sia polis e civitas, politica e società, oltre che urbs, città fisica. Che ci sia la politica, la partecipazione piena alla vita della città, e che ci siano i luoghi nei quali la politica, lo stare insieme, l’incontrarsi per riconoscersi e scambiarsi opinioni, passioni, soluzioni sia possibile, sia un condimento della quotidianità, non la sua negazione.
La tendenziale scomparsa del sociale dalla città
La storia della città della nostra epoca, dell’età della sua affermazione come città cosmopolita, come modello di vita vincente su tutti gli altri, lo città del sistema capitalistico-borghese è caratterizzata da un vizio di fondo: la contraddizione tra il carattere profondamente sociale, collettivo, comune che la città rappresenta ed esprime, e l’individualismo che, dal momento dell’economia si è impadronito dell’insieme del pensiero e della prassi della società.
La città non è un aggregato di case, è la casa della società, dico spesso ai miei studenti. Ma l’individualismo ha dissolto il legami che univano gli uomini tra loro. Da cittadini siamo diventati consumatori. Gli spazi pubblici sono scomparsi un quanto tali.
Scrive Richard Sennett:
“I traumi del capitalismo ottocentesco spinsero chi ne aveva i mezzi a tutelarsi in qualche modo dagli sconvolgimenti di un sistema economico incomprensibile […]. La volontà di controllare e modellare la sfera pubblica andò progressivamente scemando, e la gente badò sempre più a difendersene. La famiglia divenne uno di questi ‘scudi’. […] finì per apparire sempre meno il centro di una sfera particolare, privata, e sempre più un rifugio idealizzato, un mondo a sé, con un valore etico superiore rispetto alla sfera pubblica[1]”.
La casa, il luogo del privato, non si apre più verso la strada e la piazza, verso l’esterno. Le donne non piazzano più la loro sedia fuori dall’uscio per chiacchierare con le vicine e i passanti, per aprirsi al mondo. Si rinchiudono al terzo o quarto o dodicesimo piano di una casa, segregata in una “zona residenziale”, divenute ormai un mero aggregato di case: di alloggi individuali.
Ci sarebbe molto da ricordare e commentare su questa vittoria dell’individuale sul collettivo, del privato sul pubblico. A me interessa sottolineare come dalla città moderna e contemporanea siano scomparsi gli spazi pubblici in quanto tali, in quanto luoghi dell’incontro e dello scambio, della con-presenza di persone appartenenti a età, mestieri, ceti, condizioni – ed etnie, culture, lingue – diversi. Si sono trasformate nei luoghi dai quali si passa per andare altrove – gli spazi del traffico – oppure sono stati sostituiti nei luoghi nei quali si va per comprare – i centri commerciali, i mall, gli outlet – oppure ancora dove si va per assistere a spettacoli.
Resistono miracolosamente in alcuni luoghi: a Venezia, nei suoi incomparabili campi, e in qualche città minore, in qualche paese. Non conosco molti altri esempi di piazza viva, luogo pubblico nel senso pieno del termine, dove urbs e civitas s’incontrano nella polis.
C’è un punto solo cui vorrei ancora accennare a questo proposito. Parallelamente al dato sociologico e antropologico del prevalere del privato sul pubblico, dell’individuale sul comune, vi è stato un fenomeno ancora più strutturale che ha inciso sulla trasformazione della città: la privatizzazione del suolo urbano e la sua utilizzazione come strumento per l’arricchimento dei suoi proprietari. È una questione complessa, sulla quale vi invito ad altre letture (è appena uscito il mio “Ma dove vivi?”, dove cerco di spiegare questo e altri aspetti della città e dell’urbanistica in modo semplice) e che, se vorrete, potremo riprendere nella discussione.
Qui mi serve soltanto ricordare che la lotta contro la proprietà privata del suolo urbano ha cominciato ad esser vinta, sia pure parzialmente, proprio in occasione di una battaglia per l’esistenza nelle nostre città di spazi pubblici in quantità adeguata, con provvedimenti legislativi che dobbiamo in gran parte alla rivendicazione del movimento femminile. Voglio concludere parlando brevemente della questione degli “standard urbanistici”.
La vicenda degli standard urbanistici
Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi. Lo standard è un valore minimo, considerato come livello di dotazione obbligatorio e come soglia minima al di sotto della quale non si può considerare soddisfatto il disposto normativo.
Per molti anni, in Italia, nei piani urbanistici nei quali di definisce il futuro della città gli spazi pubblici sono stati considerati dei residui, scampoli di terra poco utilizzabili per altri usi, localizzazioni spesso marginali. Nei casi migliori, lotti della lottizzazione edilizia, uguali a tutti gli altri. Nessuna attenzione alla quantità dello spazio necessario né alla sua accessibilità, nessuna attenzione alla centralità che i luoghi dell’interesse pubblico dovrebbero avere, come hanno sempre avuto nei momenti felici della storia della città. Questa è indubbiamente una conseguenza del fatto che la città moderna è diventata il luogo dell’individualismo, il piano regolatore è diventato lo strumento per la regolazione e la valorizzazione della rendita fondiaria, gli interessi comuni sono stati relegati ai margini.
Nel 1967 fu introdotto per legge (con la “legge ponte” urbanistica” l’obbligo di prevedere, in tutti i piani urbanistici, una determinata quantità di aree da destinate alla costituzione di spazi pubblici: dalle scuole ai parchi, dalle attrezzature sanitarie a quelle culturali e religiose, dai parcheggi ai mercati. L’esigenza che fino allora veniva soddisfatta con qualche brandello strappato alla speculazione fondiaria ora diventava una parte consistente della città: circa metà del suolo urbano doveva essere destinato agli usi collettivi, doveva diventare pubblico.
In questa sede voglio ricordare, come faccio ogni volta che parlo o scrivo su questo argomento, il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di questo strumento essenziale per rendere più vivibile la città. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne (l’UDI), per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse appunto a stabilire, per legge, che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico.
Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo. Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.
Io credo che proprio da qui - dalla rivendicazione e dalla conquista e dalla gestione degli spazi pubblici - si debba partire per costruire una città nella quale la paura del diverso non sia più un sentimento pervasivo. Una città che non si chiuda in se stessa, ma si apra all’altro, al diverso, allo straniero, come a qualcuno a cui dare e da cui prendere, a cui insegnare e da cui apprendere.
Non illudiamoci però che l’urbanista e l’architetto, prevedendo spazi pubblici in quantità è di qualità adeguate, aperti alla socialità e non al traffico di automobili o alla vendita di merci, luoghi di sosta e di convivialità e non luoghi di passaggio e di spettacolo, possano risolvere i problemi di cui stiamo parlando. Ma certo possono offrire alcuni strumenti, alcune occasioni e alcuni obiettivi di una battaglia da ingaggiare per costruire (o ricostruire) nella città uno spirito pubblico: unica strada per vincere la paura.
[1] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Milano 2006 Bruno Mondatori editore, p. 23.