DA « PIANISSIMO »
Padre che muori tutti i giorni un poco
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t'accorgi e non rimpiangi;
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto, il disprezzo ch'hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino,
sotto la rude scorza
l'istintiva poesia della tua anima;
il bene ch'hai voluto alla tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta;
tutta la vita tua sacrificata;
e poi ti guardo così come sei
io mi torco in silenzio le mani.
Contro l'indifferenza della Vita
vedo inutile anch'essa la Virtù;
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre
che ridi se mi vedi e tremi quando
d'una qualche premura ti lo segno,
di quanto fui codardo verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato.
Io giovinetto imberbe ti guardai
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva...
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s'oscurava, in faccia
alla finestra; e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo;
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.
Un pensiero soltanto mi conforta
di poterti guardare a ciglio asciutto;
il ricordo che piccolo, pensando
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell'infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d'aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
Esco dalla lussuria. M'incammino
per lastrici sonori nella notte.
Rimorso non mi punge o turba. Sono
solo tranquillo: immensamente.
Pure
qualche cosa è mutato in me, qualcosa
fuori di me. Ché la città mi pare
fatta paurosamente vasta e vuota;
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i traini e conti l'ore.
A queste vie simmetriche e deserte,
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità. Mi pare
d'esser sordo ed opaco come loro,
d'esser fatto di pietra come loro.
Il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come divenuti estranei,
come sepolti già nella memoria.
Tra me e loro s'è frapposto il mio
peccato come immobile macigno.
E mi dicesser che mio padre muore
sento bene che adesso non potrei
piangere.
Son confinato fuori della vita,
una macchina io sesso che obbedisce,
come il traino e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino per lastrici sonori nella notte.
Il mio cuore si gonfia per te, terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi: tutto quello
che vedo è come per la prima volta;
e l'aspetto più umile e consunto,
tutto m'intenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un'acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, fin che la mia pena in te si scioglierà come la nebbia
nel sole
io non maledirò d'essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra,
ambe le mani aperte sopra l'erba,
guardandomi amorosamente intorno.
E mentre così guardo mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
Taci, anima mia. Son questi i tristi
giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attrista nell'ombra della corte,
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.
Camminando solo
tra la gente che m'urta e non mi vede,
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa,
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volgo al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Ché tutta la mia vita nei miei occhi
ogni cosa che passa la. commuove
come debole vento un'acqua morta.
Non sono che uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei.
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
Nel mio povero sangue qualche volta
fermentano gli oscuri desideri.
Vado per la città solo, la notte;
e l'odore dei fondaci, al ricordo,
vince l'odor dell'erba sotto il sole.
Rasento le miriadi degli esseri
sigillati in se stessi come tombe.
E batto a porte sconosciute; salgo
scale consunte da generazioni.
La femmina che aspetta sulla soglia
l'ubriaco che rece contro il muro
guardo con occhi di fraternità.
E certe volte subito trasalgono,
nell'andito malcerto in capo a cui
occhi di sangue paiono i fanali,
le mie nari che fiutano il Delitto.
Mi cresce dentro l'ansia di morire
senza avere il godibile goduto
senza avere il soffribile sofferto.
La volontà mi prende di gettare
come un ingombro inutile il mio nome.
Con a compagna la Perdizione
a cuor leggero andarmene pel mondo.
6
A volte sulla sponda della via
colto da un infinito scoramento
mi seggo e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e vedo me già preso nella bara
troppo stretta, fantoccio inanimato.
Quant'albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto,
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.
Le generazioni passan come
onde di fiume...
Una mortale pesantezza il cuore
m'opprime. Inerte mi par d'esser fatto
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
gli uomini mutare i passi, i cieli
all'alba colorirsi, scolorirsi
a sera:..
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca chi le somigli
trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest'ora.
Accompagnarti in qualche osteria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto.
Cadavere vicino ad un cadavere,
bere dalla tua vista l'amarezza
come la spugna secca beve l'acqua.
Toccare le tue mani, i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
e sentirmi
guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre !
Nessuna gioia vale questo amaro
poterti fare piangere, potere
pianger con te!
Talora nell'arsura cittadina
un canto di cicala mi sorprende.
E subito ecco m'empie la visione
di campagne prostrate nella luce
e stupisco che ancora al mondo sian
alberi ed acque - le presenze buone
che bastavano un giorno a consolarmi...
Con questo
stupor sciocco l'ubriaco
riceve in viso l'aria della notte.
Ma poiché sento l'anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com'albero con tutte le radici,
sorrido a me smarritamente e come
in uno sforzo d'ali i gomiti alzo...
CAMILLO SBARBARo è nato a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. - Opere: Resine (Caimmi, Genova, 1911); Pianissimo; Trucioli (Vallecchi, Firenze, 1920); Liquidazione (Ribet, Torino, 1928).