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Lawrence Veiller
Suddividere la città in zone omogeneee con i regolamenti comunali (1916)
6 Febbraio 2008
Urbanisti Urbanistica Città
Un piano è efficace se definisce con precisione gli usi delle diverse parti della città: un contributo di rilievo nella discussione sull’introduzione dello zoning a New York nel 1916 (g.b.)

Tratto da: Proceedings of the Eighth National Conference on City Planning, Cleveland, June 5-7, 1916 (New York: National Conference on City Planning, 1916)

Titolo originale: Districting by Municipal Regulation – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli urbanisti devono proprio ammettere che ce n’è abbastanza per dar ragione alle frequenti critiche al movimento per la pianificazione comunale in questo paese, con il risultato che di questo movimento si è tanto discusso ma che poca concreta pianificazione è stata fatta, e i risultati raggiunti sono stati ignorati.

Sono convinto che il motivo per cui si è fatto così poco è perché non siamo mai stati in grado di attuare un piano regolatore e questo è successo perché non abbiamo mai adottato un piano che suddividesse correttamente in zone le nostre città.

Abbiamo sentito questa mattina, e chi studia urbanistica questo lo sa, che se la parola pianificazione significa qualche cosa, significa principalmente diversificare – diversificare, ad esempio, l’uso delle strade, diversificare i viali e le strade locali, diversificare la larghezza delle strade.

Ma in che modo possiamo creare delle differenze nel resto del mondo se non riusciamo nemmeno a capire come farlo a casa nostra?

Questo è il problema con cui si confronta chi pianifica una città in anticipo rispetto al suo sviluppo. Quanti urbanisti possono dire con certezza quando redigono un piano: “quest’area sarà una zona residenziale e rimarrà tale. E questa parte della città sarà una zona produttiva e rimarrà tale. E quest’altra parte della città sarà una zona destinata a quartieri operai”. Sarebbe bello se potessimo fare affermazioni del genere. Parole magiche per chi si è confrontato sul campo con le difficoltà di ordine pratico.

Pianificare significa diversificare anche sotto altri aspetti. Ad esempio, differenziare la dimensione dei lotti. Il lotto per la casa di un milionario, come quelli da trecento metri che abbiamo visto oggi, sarà totalmente diverso da quello necessario per costruire la casa di un meccanico.

O ancora, avremo bisogno di un lotto dalle dimensioni differenti a seconda che si tratti di un lavoratore non specializzato, che guadagna al massimo 15 $ a settimana o di un artigiano specializzato che guadagna da 25 a 40 $ a settimana.

Ovviamente il lotto di una fabbrica sarà diverso per dimensione e forma da quello di una residenza.

Come urbanisti, ci è stato richiesto di progettare le nostre città, anche se ogni volta era impossibile sapere in anticipo quale parte della città sarebbe diventata una zona produttiva e quale una zona residenziale e se sarebbero rimaste tali per un lasso di tempo ragionevolmente lungo rispetto alla vita di quei centri.

In queste circostanze, non è così strano che, mancando quegli elementi essenziali per un corretto sviluppo dei piani, non siano stati fatti passi avanti verso una pianificazione comunale attuabile.

Con l’espressione “suddivisione in zone” intendiamo, a quanto ho capito, il dividere la città per grandi linee in quartieri o in comparti e il definirne le caratteristiche attraverso leggi e ordinanze che prescriveranno gli usi e le altezze degli edifici con criteri diversi da zona a zona, così come la quantità di spazi aperti necessaria per garantire aria e luce.

Potremo anche veder crescere un meraviglioso centro civico come è successo qui a Cleveland; potremo anche avere un meraviglioso sistema di parchi come ce l’hanno Boston e Philadelphia; o un meraviglioso sistema di edifici ricreativi come quelli di Chicago – ma tutto questo, anche se è importante, non è pianificazione. E’ solo una fase del processo pianificazione.

Non ci può essere un piano urbanistico se gli usi delle varie parti di una città non possono essere definiti con un certo grado di precisione.

Non è strano, quindi, che prima d’ora gli urbanisti non abbiano fatto molta pianificazione reale. Non è stata colpa loro. Sanno bene cosa vogliono fare, ma non hanno ancora capito cosa possono fare nelle condizioni di governo più comuni nel paese.

A causa di questi limiti, i costruttori e gli operatori immobiliari in passato hanno provato come potevano, mediante vincoli di tipo privato, a conseguire i risultati prefissati. Sappiamo tutti che questi vincoli privati, di solito, sono anche meritevoli.

Stamattina, in uno dei dibattiti, qualcuno ha domandato quando dovrebbero scadere i vincoli privati. Non si pone proprio il problema, perché sappiamo tutti che dopo 25, 50 o 75 anni di continua crescita, le condizioni cambiano e i tribunali vanno avanti, e, morto chi per primo pose quei vincoli, le corti di solito sentenziano: “non manterremo oltre questi vincoli”. Con questo non voglio dire che non ci siano molti aspetti che possono essere tranquillamente regolamentati mediante accordi privati, ma, ad esempio, per mantenere l’uso residenziale di un quartiere l’esperienza generale sembra suggerire che non possiamo contare su quello che è semplicemente un contratto privato o un accordo tra due parti. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che quando due parti vogliono sciogliere il contratto non c’è ragione perché questo non debba avvenire. La questione dell’interesse pubblico normalmente non viene proprio considerata.

Alcune delle difficoltà incontrate nel tentativo di definire il carattere di un quartiere imponendo dei vincoli privati sono deliziosamente illustrate da un rapporto elaborato recentemente da una commissione del Consiglio di Consulenza per le Rendite Immobiliari di New York City. Se posso, vorrei leggervi brevemente cosa ha scoperto la Commissione, che è solo la punta dell’iceberg.

Oggetto dell’indagine era quello di mettere a punto una base di lavoro ragionevole, grazie alla quale potessero essere superate le difficoltà delle convenzioni vincolanti, ma la Commissione ne ha quasi ammesso l’impossibilità, dicendo apertamente “al momento non siamo in grado di redigere una legge guida per i consorzi immobiliari, e quindi il problema delle convenzioni vincolanti in questa città diventa contraddittorio, un problema senza una soluzione”.

”Un riassunto del rapporto della commissione è un elenco di situazioni che dimostrano chiaramente le molte incongruenze delle decisioni giuridiche.

E così, i palazzi ad appartamenti sono autorizzati, nonostante i vincoli per le abitazioni nel tratto di Murray Hill, sulla Ventesima strada, a Manhattan, e sulla Settantottesima Ovest tra Broadway e Amsterdam Avenue, sulla Centoquarantesima Strada e su St. Nicholas Avenue, ma una trifamiliare non potrebbe esistere su Sedgwick Avenue e Undercliff Avenue nel Bronx; un’abitazione non può essere usata come sanatorio a Brooklyn nè un garage può essere costruito sullo stesso lotto a White Plains. Una casa popolare può essere costruita nonostante le convenzioni per abitazioni a Brooklyn ma non sulla Tenth Avenue o sulla Sessantaquattresima, a Manhattan. Un’abitazione può essere trasformata nella sede di un’impresa su Madison Avenue e sulla Quarantunesima; in una sartoria sulla Ventiquattresima Ovest; ma non in un palazzo per uffici sulla Quarantesima Ovest, né uno stilista può mettere un’insegna sulla Cinquantaduesima Ovest.

Un’infermeria può essere costruita sulla Settantunesima e su Madison Avenue, una scuderia di cavalli può rimanere tra gli appartamenti sulla Centottantanovesima Strada; una casa-albergo è autorizzata sulla Quarantatreesima e sulla Fifth Avenue, ma per acquistare pane e torte da un fornaio è meglio il Southern Boulevard. La raffineria di resine nel quartiere Erie Basin di Brooklyn non piace a nessuno, ma la sopraelevata nel Bronx è permessa. Una palazzo di uffici di venti piani può essere costruito lungo un fronte edilizio in violazione di una norma esistente sulla Ventiseiesima, maguai a chi osa tirare su un rifugio a un piano nel retro di Brooklyn. Una stazione di servizio a Broadway e sull’Ottantunesima non è conforme, ma un garage vicino alle abitazioni va bene a Flatbush.

”Sono amare considerazioni, che scoraggiano chi opera nel mercato immobiliare e chi si sente in dovere di consigliare proprietari e progettisti” dice la Commissione.

Il concetto è espresso molto più sinteticamente di come lo avrei espresso io, e vi dà un’immagine chiara dei risultati sconfortanti che emergono dalle varie interpretazioni giuridiche dei diversi contratti tra proprietari che hanno venduto per mantenere il carattere residenziale del quartiere in cui stavano costruendo e per preservarlo da ciò che ritenevano essere un danno.

Comunque, anche se l’insuccesso nel mantenimento di un uso è un problema serio, ancora più serio è che in questo sistema un vincolo privato è più che altro un’ombra sul relativo titolo di proprietà e così contribuisce a distruggere i valori immobiliari. Poche persone sono disposte a investire i loro capitali nel mercato immobiliare in circostanze come queste, in cui l’unica garanzia della stabilità del carattere residenziale di un quartiere deve essere ricercata in un accordo privato, che come già detto, è materia di controverse decisioni giuridiche.

Per dare fiducia agli investitori, una restrizione di questo tipo non deve solo essere favorevole, deve anche sembrare favorevole. E’ come un uomo che è onesto di questi tempi. Non deve solo essere onesto, deve anche sembrare onesto.

Dunque, siamo costretti ad accettare le conclusioni che Mr. Taylor ha formulato, che, per certi aspetti essenziali, possiamo controllare il carattere del nostro quartiere solo attraverso normative nazionali o comunali.

Se io suggerissi a quest’uditorio di cercare di controllare la qualità del latte venduto a Shaker Heights mediante un atto di convenzione (sic), pensereste giustamente che è una proposta ridicola.

Allo stesso modo, se si proponesse di garantire la sicurezza dei pedoni sulle nostre strade e sulle superstrade mediante accordi privati tra proprietari, messi agli atti, chiunque penserebbe che è una cosa assurda.

I tempi sono ormai maturi per chiamare gli Stati all’uso del grande potere che è nelle loro mani, affinché proibiscano ciò che sappiamo essere sicuramente dannoso per la comunità.

Sette anni fa, lo stato più a ovest, la California, progressista come sempre, ha aperto la strada ai piani per zonizzare le città. Non voglio annoiare la platea spiegando in dettaglio i piani elaborati per la zonizzazione. Si è già detto tutto più di due anni fa all’incontro di Toronto. Lasciatemi però ricordare brevemente qual era il piano per Los Angeles.

Fu approvato un’ordinanza municipale, in base alla quale la città venne divisa in tre zone principali – zona industriale, zona residenziale e quella che fu chiamata “eccezione alla residenza” una sorta di zona ibrida dove alcune industrie non dannose erano consentite.

In una delle zone che l’ordinanza definiva residenziali c’era una fabbrica di mattoni, proprietà di un certo Hadacheck, un nome destinato a rimanere celebre.

Non so se Hadacheck fosse un tipo eccessivamente litigioso, ma, ad ogni modo, era determinato a scoprire se lo Stato avesse il diritto di privarlo della sua fabbrica.

L’ordinanza in questione era retroattiva e non solo proibiva la localizzazione futura di qualsiasi fabbrica di mattoni in una zona residenziale, ma dichiarava illegittima qualsiasi fabbrica già esistente e imponeva che venissero smantellate.

Il caso fu portato all’attenzione della Suprema Corte della California e nonostante il fatto che Hadacheck riuscì a dimostrare alla Corte che la fabbrica era stata costruita lì in un’epoca in cui il quartiere non era entro i limiti del centro abitato, che esisteva da molto prima che si sviluppasse il carattere residenziale del quartiere, che il sito era molto più idoneo alla produzione di mattoni che alla residenza, che il suo investimento di 50.000 dollari sarebbe stato completamente inutile se gli fosse stato imposto di abbandonare la fabbrica – nonostante tutti questi elementi, la Suprema Corte della California stabilì che l’ordinanza era costituzionale e ad Hadacheck fu imposto di dismettere la produzione di mattoni in quel luogo.

Sull’esempio della California, ma apparentemente ignare di ciò, diverse altre città hanno emanato simili ordinanze e alcuni Stati hanno approvato leggi in materia.

Quelli di noi che credevano nel principio della zonizzazione aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto la massima autorità del Paese, la Suprema Corte degli Stati Uniti, quando avrebbe esaminato il caso, sperando che venisse confermata la decisione della California.

A dire il vero, molti di noi non credevano che sarebbe stata confermata, anche se ci speravamo fermamente. Gli avvocati che avevamo consultato sulla costa orientale ci dissero “Si, certo, è una decisione della California, ma i tribunali qui non tengono in grande considerazione le decisioni della California”.

Eravamo ormai arrivati ad un punto in cui avremmo voluto sapere con chiarezza cosa potevamo e cosa non potevamo fare e alcuni di noi erano dell’idea che sarebbe stato saggio prendere un caso tipo e portarlo fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, in modo da chiarire una volta per tutte se fosse possibile controllare il carattere residenziale di una zona usando i poteri di polizia. Come già detto, era ora che la massima autorità del paese ci dicesse se questo era possibile e, se si, come avremmo dovuto farlo.

Ce l’hanno detto a Gennaio, quando la Suprema Corte degli Stati Uniti prese una decisione nel caso Hadacheck. Non solo confermarono la costituzionalità dell’ordinanza e che fosse legittimo l’uso dei poteri di polizia, ma scrissero una sentenza che è una pietra miliare della storia della giurisprudenza Americana, una sentenza a cui aveva lavorato l’intera Corte. Si tratta della sentenza più radicale che ho mai avuto il piacere di leggere. A mio giudizio, rivoluzionerà le condizioni di vita delle città americane e la vita quotidiana di tutti noi.

Voglio richiamare la vostra attenzione su due punti di questa sentenza che sono di particolare importanza.

Per la prima volta nella giurisprudenza americana abbiamo una legge di questo tipo sostenuta non sulla base della salute pubblica o della pubblica sicurezza ma da un principio nuovo, più generale e radicale, “il benessere generale”.

Si apre uno spiraglio, che potrebbe allargarsi molto di più. Fino a che punto, pochi di noi possono dirlo. Sappiamo tutti che i poteri di polizia sono piuttosto vaghi e non ben definiti. Le corti li hanno saggiamente mantenuti tali e all’epoca a molti sembrava che si fossero tenuti abbastanza larghi. [...].

Naturalmente, non dobbiamo fare tutto mediante regolamenti comunali. Non possiamo, ad esempio, definire lo stile architettonico nello sviluppo di Shaker Heights; non possiamo nemmeno fare in modo che le abitazioni in quella zona costino non meno di 10.000 $ o 15.000 $. Non possiamo stabilire che tutti i tetti di una certa zona debbano essere rosa, come sono in Forest Hills. Qualcuno sarà contento che non possiamo farlo.

Ci sono ancora molti altri aspetti che saranno affidati ad atti di convenzione privati. Senza dubbio molti vincoli di questo tipo avranno effetti per molti anni, e il mio consiglio a chi lottizza è di restare nei paraggi, non importa quanti siano i regolamenti comunali.

Prima di chiudere, due parole sulla mia New York. E’ stato fatto un lavoro colossale per suddividere in zone quella enorme comunità cosmopolita di oltre 5 milioni di persone e i cittadini di New York e dell’intero paese devono molto agli uomini che hanno fatto questo lavoro. Mi riferisco in particolare a uomini come Ed. Bassett, il Presidente della Commissione per la Zonizzazione di New York, che vi ha dedicato gran parte del suo tempo e non è solo bravo ma sembra anche uno bravo! Non è solo un uomo imparziale, ma sembra assolutamente imparziale; almeno a tutte le audizioni pubbliche.

Perchè, signori e signore, uno può sottoporre un caso a Bassett, tornare a Flatbush e ritornare a Manhattan per la prima udienza e Bassett ha già preso una decisione definitiva.

Uno degli aspetti interessanti del lavoro di New York è stato l’atteggiamento del pubblico. Con grande sorpresa dei membri della Commissione e dei loro amici, le maggiori critiche sono arrivate non dagli riformisti e dagli urbanisti, ma dagli operatori immobiliari e dai proprietari, e non perché le sue raccomandazioni erano troppo radicali ma perché non erano abbastanza severe.

Praticamente tutti i quotidiani di New York hanno scritto editoriali in merito quasi ogni settimana, lodando il lavoro della Commissione e sottolineando la grande importanza di vedere le sue raccomandazioni trasformate in legge.

Questo atteggiamento della stampa è dovuto in larga parte al modo intelligente in cui la Commissione si è occupata della cosa.

Così come è stata la Commissione di Bassett, è stata anche la commissione di Ford – ma non nel modo in cui pensate voi - perchè Ford, come molti di voi sanno, è stato una delle tre guide del lavoro. L’altro è stato Whitten, il segretario della Commissione. Whitten, comunque, è talmente impegnato da non poter essere qui. Non voglio dire che Ford non faccia nulla, ma qualcuno deve pur lavorare e dato che Ford è il più mondano dei due, Whitten è rimasto a casa.

Mentre organizzavo questa sessione della conferenza, ho chiesto a Ford se volesse darci qualche suggerimento su cosa dovessimo discutere in questa sessione.

Mi ha spedito cinquantasette temi, ognuno dei quali diceva essere fondamentale, per poi scoprire che ognuno di essi avrebbe impegnato in una discussione praticamente tutto il pomeriggio.

Appena seduto, lascerò a Ford qualche istante per discutere di quei 57 temi, se il Presidente gliene concederà facoltà.

Scherzi a parte, il problema a New York è di una certa dimensione e il lavoro fatto è di portata epocale. Naturalmente la Commissione è riuscita a fare la metà di quello che avrebbe dovuto fare. Gli standard che hanno stabilito non sono molti, ma non avrebbero potuto stabilirne quanto avrebbero voluto e riuscire allo stesso tempo a mantenere il consenso dell’intera comunità – gli interessi immobiliari, quelli finanziari, quelli degli edifici, praticamente di tutti. Con i loro regolamenti, non hanno fatto tutto quelle cose che qualcuno di noi avrebbe voluto facessero e che loro stessi avrebbero voluto fare, ma è un buon inizio.

Nè il merito del loro lavoro è limitato alla sola New York City. Come tante altre cose fatte in questo grande centro abitato, ciò che è fatto qui ha valore per l’intero paese. Con l’adozione di regolamenti di questo tipo a New York City, un’ondata si propagherà per tutto il paese, anche nei paesi più piccoli, un’ondata di sensibilità pubblica che porterà all’adozione di regolamenti di questo tipo.

In molte città del paese si sente dire sempre più spesso “Se lo fa New York, perché noi non possiamo?” e loro cominceranno a zonizzare le loro città.

Quella che vedo è la situazione più favorevole che il gruppo degli urbanisti abbia mai fronteggiato. Lo ripeto, siamo sul punto di assistere a un grande cambiamento nelle condizioni di vita in America. Stiamo per rivoluzionare la situazione nell’arco di una sola generazione, al punto tale che la generazione che verrà dopo di noi dirà: “Non è quella un’interessante dimostrazione della timidezza e della mancanza di coraggio degli uomini che sono venuti prima di noi? Perché mai hanno perso tempo a decidere quando avrebbero potuto iniziare a zonizzare una città?

Nota. Vale la pena evidenziare due questioni cruciali poste dalle parole di Veiller, ben sintetizzate nel titolo originale “Districting by Municipal Regulation”. La prima è di ordine semantico: il termine “districting” definisce l’azione di suddividere la città in distretti omogenei. Oggi viene spontaneo pensare alla “zonizzazione” e alle “zone territoriali omogenee”, ma il fatto che il termine “zoning” non venga mai adoperato dimostra il carattere fondativo e “pionieristico” del dibattito che si sviluppa intorno al Piano di New York in quegli anni.

La seconda questione è più sostanziale. I “vincoli privati” e le “convenzioni vincolanti” di cui si parla traducono rispettivamente “restrictions” e “restrictive covenant”. Ci si riferisce a particolari accordi privati, con i quali i primi proprietari e lottizzatori dei terreni pongono delle limitazioni che vanno dalle destinazioni d’uso fino alla manutenzione degli spazi aperti e che valevano anche in caso di vendita dei terreni e degli edifici.

Vincoli di questo genere costituivano un limite per lo zoning, che non poteva definire con sufficiente precisione gli usi delle diverse parti della città, limitando, di fatto, l’efficacia dell’intero piano. Da qui l’esigenza che alcuni aspetti essenziali venissero regolamentati solo attraverso regolamenti comunali.

Infine, vale la pena ricordare la figura di Lawrence Veiller (1872–1959), che fu uno dei maggiori esperti americani di politiche abitative. Fu segretario della Commissione per le Case Popolari dello Stato di New York e tra i promotori della prima Legge per l’Edilizia Popolare. E vale la pena ricordare che questo documento fa parte della ricca antologia curata da John Reps, liberamente accessibile on-line all’indirizzo www.library.cornell.edu/Reps/DOCS/homepage.htm. (g.b.)

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