Il manifesto, 15 aprile 2014
A Torino esiste sì, un Istituto intitolato a Gramsci (denominazione che a un certo momento, nei primi anni ’90, si propose di cancellare, nel furore autodistruttivo del postcomunismo). Un istituto, che proprio in quei frangenti si affrettò a togliere, nel proprio Statuto, ogni riferimento al marxismo. Un istituto, che come tutti gli altri intitolati al “fondatore del PCdI”, è sotto stretto controllo del partito, con le conseguenze che si possono immaginare a livello degli organi scientifici e delle attività culturali: certo a Torino si tocca il colmo: neppure uno studioso di Gramsci vi figura… Del resto, il nesso tra il pensiero e opera dell’intestatario e le attività dell’istituto è assai flebile. E in fondo il suo direttore può essere soddisfatto del Cancan su quella che era impropriamente chiamata “Casa Gramsci”, stia per diventare “l’Hotel Gramsci”.
Improvvisamente una esistenza umbratile come quella della istituzione da lui diretta, è stata vivacizzata da qualche riflettore giornalistico. E ne abbiamo lette di tutti i colori. Purtroppo egli stesso, il direttore non gramsciano dell’Istituto Gramsci, è tra coloro che le ha sparate più grosse, sia a livello di inesattezze sulla biografia di Antonio Gramsci, sia per perorare la secondo lui ottima causa della intitolazione di un albergo di lusso al rivoluzionario e pensatore sardo.
Vale la pena di ricordare, a mo’ di difesa contro le tante sciocchezze che stanno circolando, che quella fu la terza ed ultima dimora di Gramsci sotto la Mole, e che di fatto, era talmente preso dal lavoro giornalistico, che spesso gli capitava di dormire in redazione, oppure a casa di compagni. Non era neppure un appartamento, il suo, ma un bugigattolo subaffittato dalla mamma di un suo compagno di corso all’Università. E che comunque non v’è stata mai la sede dell’Ordine Nuovo, come si sta ripetendo. E che tutt’al più i quattro fondatori (oltre lui, Terracini Togliatti e Tasca, che abitava praticamente dall’altra parte della piazza, in via San Massimo) si sono riuniti talvolta, prima di fondare il giornale, a casa di Tasca. In ogni caso l’edificio fu bombardato e anche se i locali originali non esistono più, quel luogo è “gramsciano”.
La mobilitazione dei “soliti” professori (che oggi godono di pessima nomea, nella nuova ondata anticulturale guidata dal neofuturista Matteo Renzi) ha messo in guardia sull’operazione, ossia di trasformare il nome dell’autore italiano più tradotto e studiato nel mondo in un brand turistico-commerciale: un autore che fece della rivoluzione dei subalterni contro l’oppressione del capitale la sua fede. Ma naturalmente i “professoroni” sono subito incappati nella censura del pensiero dominante. Cito per tutti Fabrizio Rondolino (sul quotidiano fantasma, eppure organo ufficiale del Pd, Europa), il quale non ha esitato a irridere oltre che biasimare i firmatari di un appello al sindaco Piero Fassino per chiedergli di scongiurare l’operazione. E li ha trattati in pratica non solo da veterocomunisti, ma più specificamente da stalinisti.
In vero, questo appare l’ennesimo oltraggio postumo, di una lunga serie, dal Gramsci convertito in punto di morte, al Gramsci demoliberale, fino al Gramsci che rinnega il comunismo in un quaderno finale, opportunamente sottratto dalle adunche mani di Piero Sraffa, per conto del solito cattivo Togliatti.
A suo tempo (una decina di anni fa, sindaco Sergio Chiamparino, ora candidato alla presidenza della Regione), la vendita di quel grosso immobile, di proprietà comunale, a una ditta di “imprenditori illuminati”, vicini al Pd, suscitò qualche voce contraria, immediatamente zittita in malo modo. Personalmente facevo notare, agli economicisti realisti guidati da Chiamparino (fra gli altri Luciano Violante e Furio Colombo, all’epoca direttore del giornale fondato da Gramsci, l’Unità!), che in politica e nella storia i simboli contano. Un edificio pubblico diventava privato, là dove vivevano i poveri (la casa era abitata da famiglie disagiate) venivano portati i ricchi, là dove comandava il Comune, arrivava il capitale finanziario; là dove visse un nemico del lusso borghese, arrivava il lusso borghese.
Ora la ciliegia sulla torta. La denominazione Hotel Gramsci: si era parlato di Hotel Cavour e Hotel Carlina, dal nome della piazza, ma Gramsci, come brand internazionale, per la clientela straniera d’élite attesa in quegli ambienti raffinati, con tanto di centro salute e piscina sul tetto, sarebbe stato più opportuno. I fautori dell’operazione hanno avuto l’insperato sostegno del nipote di Gramsci, Antonio jr. Insospettitomi, conoscendolo, l’ho cercato: ed ecco che mi risponde: «Mi ha chiamato un giornalista da Torino chiedendomi un mio parere su questo hotel. Mi ha spiegato che si trattava non solo di un hotel ma anche di un centro studi che starebbe nello stesso palazzo e anche di una biblioteca. Ho avuto poco tempo per parlare con lui, perciò non avevo abbastanza tempo per pensarci bene. Non sapevo che fosse l’hotel 5 stelle lusso».
In realtà l’albergo avrà uno spazio conferenze, come tanti alberghi, con esposizione di edizioni gramsciane. Come in tanti hotel, che mostrano in vetrina libri, ceramiche, foulards. Aveva detto a suo tempo Luciano Violante che esiste un modo laico di conservare la memoria, e che l’hotel rientrava nella categoria. Non la pensavo così allora, non la penso così adesso, perché al di là del discorso sui simboli, non si può dimenticare che Antonio Gramsci è stato una vittima illustre di un regime totalitario, che era un marxista rivoluzionario, e che il suo nome ha una oggettiva sacralità, e certo non può esser speso come decoro per il lusso “dei signori”. Possiamo tollerare certo l’Hotel Cavour, o Carlo Alberto, ma risparmiateci l‘Hotel Gramsci.