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La riflessione sugli “urbanisti pubblici” mi sembra possa essere affrontata con l’aiuto non piccolo delle categorie analitiche introdotte da Max Weber da una parte negli studi sulle caratteristiche delle pubbliche burocrazie moderne, dall’altra, nel famoso saggio dedicato al “lavoro intellettuale come professione” (che contiene anche una parte sul lavoro “politico”). Questo porta ad imbattersi per prima cosa nel significato duplice del termine “professione” in tedesco (e dunque anche nelle speculazioni di Weber): beruf.
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Da un lato l’urbanista pubblico è un“funzionario”, leggittimamente chiamato/legato all’obbedienza nei confronti di un potere di comando la cui legittimità deriva da regole razionali stabilite, e dunque il suo “ufficio è una professione”, nella sua fedeltà descritta consiste il suo beruf;
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Dall’altro lato è un “urbanista”, un professionista “libero” rispetto ai “valori”, che può avere una propria specifica deontologia professionale, il cui beruf è assimilabile a quello del lavoratore politico (etica della convinzione; in questo caso beruf è meglio traducibile nell’altro suo significato –originario – di “vocazione”; si dovrebbe riflettere sul fatto che la lingua tedesca disponga di una sola parola per indicare ciò che in italiano è espresso da due termini non necessariamente sovrapponibili e comunque nel linguaggio corrente di solito non sovrapposti).
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Il funzionario, nel perseguire lo “scopo oggettivo” riferito al suo dovere di “fedeltà d’ufficio”, si trova allo stesso tempo automaticamente a perseguire anche le “idee di valore” che stanno dietro questo scopo o che per meglio dire in esso sono oggettivate – come ad esempio lo “stato”. Ricordiamo che fino a qualche decennio fa anche in Italia – non so altrove – il funzionario pubblico di ruolo prestava un apposito e un po’ ridicolo giuramento.
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Nel caso in cui i contenuti (in termini di “valore”, oggettivato o meno in norme razionali) dei due diversi beruf che costituiscono l’identità dell’urbanista pubblico si trovino a non coincidere, si apre evidentemente una situazione di conflitto interiore, simile a quella che dilanierebbe un medico che si trovasse costretto contro la sua volontà ad eseguire esperimenti su cavie umane in un campo di sterminio.
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L’esempio del medico porta immediatamente con sé la constatazione che l’urbanista, così come lo conosciamo, dunque figura professionale relativamente “moderna”, non conosce né ha conosciuto in forme organizzate, visibili o note, l’esistenza di un suo proprio codice di deontologia professionale.
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Un simile “codice” costituirebbe comunque un “sistema di regole razionali stabilite”, anche se di pertinenza, anziché “statale”, “cetuale” o “corporativo”(prepolitico?), e funzionerebbe più o meno come il famoso Giuramento Ippocratico nel caso dei medici – Giuramento che ha avuto nel corso del tempo ampia fortuna, risultando ufficialmente adottato con le variazioni del caso almeno fino al secolo scorso (non sono certa di quel che accade al presente) in alcuni paesi occidentali, e che letto con gli occhi di oggi mostra senz’altro i segni dell’età.
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In altre parole, il riconoscimento del Giuramento Ippocratico da parte dell’autorità statale equivale al riconoscimento di limiti che l’etica intrinseca alla professione medica in termini universali impedisce al singolo medico di oltrepassare, anche sotto minaccia, comando, imposizione, corruzione e via discorrendo: stabilisce un confine alla fedeltà del medico alla potenza costituita in stato, sia pure dotata di norme razionali (le quali, come insegna il caso della Germania nazista, possono con molta razionalità e tranquillità prestarsi a perseguire qualsiasi obiettivo).
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Il fatto che il Giuramento Ippocratico e ciò che ne deriva – ad es., di questi tempi in cui spesso si discute di bio-etica, prese di posizione degli ordini professionali – sia stato messo a punto fra il quinto e il quarto secolo avanti Cristo, e dunque tanto presto, si spiega con buona probabilità con il fatto che l’oggetto delle cure mediche era ed è la salvaguardia e la preservazione della vita umana; anche al momento in cui, molti secoli più tardi, l’occidente comincerà a discutere di giusnaturalismo, e dunque a gettare le fondamenta di tutti i discorsi sui “diritti umani” che ci capita di ascoltare nel presente, il diritto “naturale” è legato alla vita; la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti – i quali ci hanno ricordato di recente di avere inventato loro, e non l’Europa, la democrazia, e qualsiasi altra cosa gli piaccia chiamare anche a sproposito con questo nome - reca come primi diritti dell’uomo quelli “alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità”.
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Proprio la strada dello sviluppo democratico delle nazioni, la strada del progressivo riconoscimento dei diritti come pilastro inamovibile delle “regole razionali” la cui esistenza legittima la potenza dello “stato”, ha reso nel tempo in certo modo ridondante il Giuramento Ippocratico: se è lo “stato” a prendersi cura della vita e della salute umana, la sua norma erga omnes può surrogare l’etica formalizzata in norma condivisa da una corporazione professionale (fino a un certo punto: come si diceva, le attuali frontiere della bioetica sembra abbiano riaperto un largo spiraglio d’incertezza nel problema).
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Niente del genere è mai accaduto agli urbanisti, pubblici o privati che fossero; ed anzi è difficile dire che siano anche solo un embrione di corporazione. Non esiste un “Giuramento Ippodamico” che risalga ai tempi della fondazione di Mileto per darci una mano nelle peste in cui ci troviamo (forse potrebbe esistere?, chissà…).
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Per contro, la breve storia dell’urbanistica moderna, e l’ineliminabilità – in regime capitalistico – delle relazioni di tale professione con il problema della rendita fondiaria, hanno reso sempre più strette le relazioni tra questa “professione” e l’agire politico; forse nel nostro Paese più che altrove, l’urbanistica è “di destra” o “di sinistra”, “riformista” o “controriformista”, non “morale” o “immorale” (a parte i ladri, che sembra siano ancora, sia pure sempre più tendenzialmente e discrezionalmente, perseguiti e puniti dallo “stato di diritto”).
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Ora è evidente che se il conflitto cui prima si accennava tra le “vocazioni” dell’urbanista pubblico dovesse esaurirsi nel riconoscere all’urbanistica stessa contenuti esclusivamente “politici”, la situazione sarebbe quella di completa schizofrenia fra le due identità del malcapitato urbanista: da un lato “funzionario pubblico”, legato da un vincolo di obbedienza e di lealtà nei confronti di un sistema di regole democraticamente mutevole, e che dunque può trovarsi a non condividere, dall’altro “funzionario politico” mancato (per usare le parole di Weber), comunque interiormente vincolato alle proprie scelte etiche o di valore, che a seconda dei casi possono o non possono coincidere con l’applicazione delle norme che sostanzia la sua prima identità.
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Il fatto che egli sia una funzionario politico “mancato” deriva, nello specifico dell’attuale situazione italiana, dall’ancora largamente imperfetta e incompleta applicazione dello spoil system, ovvero della nomina di funzionari pubblici (almeno ai livelli dirigenziali) da parte degli stessi rappresentanti politici ogni qualvolta vengono eletti; benchè la pratica sia andata diffondendosi in particolare negli ultimi anni, si trova a coesistere in misura molto ampia con l’esistenza (anzi, la pre-esistenza) di schiere di funzionari/dirigenti pubblici che hanno assunto quel ruolo (con gran dispetto del Presidente del Consiglio) invece grazie a pubblici concorsi, sono inquadrati in contratti di lavoro a tempo indeterminato e teoricamente privi di alcuna relazione di condivisione di convinzioni con i rappresentanti eletti.
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Questa situazione è apparentemente uno stato transitorio, ma infiniti precedenti che riguardano le trasformazioni anche piccole della pubblica amministrazione in Italia lasciano presumere che non sarà affatto breve; e, infine, non si può pensare, a partire da una situazione del lavoro come quella italiana, e in particolare del pubblico impiego, che la transizione avvenga mai del tutto, e dunque sia destinata a coinvolgere l’universo dei funzionari ai diversi livelli, rimbalzati ad ogni scader di mandato a rimpiguare l’esercito intellettuale di riserva sperando nelle prossime elezioni.
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Tuttavia è leggittimo il dubbio – e questo è un invito alla riflessione – che il problema non sia solo questo, che non si tratti semplicemente di un “disagio” causato dalla difficoltà di adeguarsi a “servire uno stato” che esprime orientamenti politici opposti a quelli del singolo funzionario. E’ senz’altro vero che l’urbanistica, prima ancora di essere una “disciplina”, è una “tecnica di governo”, ma può darsi che, anche nel caso dell’urbanistica, si possa giungere all’individuazione di qualche cosa (principi?) di analogo a quello che sono stati i diritti naturali dell’uomo, di qualcosa su cui presumere di fondare una anche parziale deontologia, che non sia destinata a perdere immediatamente ogni credibilità in quanto attribuibile a mera faziosità politica.
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Per il momento la strada per cominciare – e non è neppure una strada facile, né priva d’impedimenti – sembra quella legata agli aspetti ambientali della pianificazione. Naturalmente, gli aspetti che toccano la salute dell’uomo per primi, ma anche quelli che trattano della salute e del futuro del pianeta; certo la vicenda dei soliti Stati Uniti e di Kyoto può dare adito all’acuta osservazione che la salute è (come l’inflazione) notoriamente “di sinistra” – ma da qualche parte bisogna cominciare. Il riconoscimento giuridico della sostenibilità ambientale come principio di livello costituzionale da parte di alcuni paesi (come la Germania) può anche essere un precedente di cui seguire l’esempio; l’attività delle tanto bistrattate Nazioni Unite in tema di diritto internazionale e di ambiente (e questa volta in senso molto ampio, vedi le conferenze sull’urbanizzazione) è un altro caso. I diritti legati alla salvaguardia ambientale, e la loro connessa estensione nello spazio e nel tempo (le generazioni future), non hanno infatti seguito neppure nell’ambito dei regimi democratici il percorso di formalizzazione che ha riguardato invece la vita e le varie sfaccettature della libertà (lasciamo stare la felicità). In questo caso, sembra a mala pena avviato il primo passo. In questo momento, il complesso di norme razionali che legittima la potenza del singolo stato (probabilmente soprattutto di questo stato), e allo stesso tempo il complesso di vincoli ed impegni dovuti ai purtroppo sempre meno potenti organismi internazionali, non paiono offrire garanzie sufficienti.
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Il punto è allora riuscire a “isolare” un “nocciolo duro” di principi attorno ai quali cominciare a ragionare: dopodichè, si può anche, provocatoriamente, proporre d’introdurre dopo l’esame di stato il Giuramento d’Ippodamo di Mileto, o il Giuramento di Dedalo & Icaro, o il Giuramento di Vitruvio e chi più ne ha più ne metta; e questo oltre l’attività politica e lo specifico schierarsi e combattere di ciascuno e di tutti; le due cose non mi paiono affatto in contrasto, anzi, in un certo modo, l’una completa l’altra.
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Mi rendo conto che “costruire un’etica professionale” su due piedi non è proponibile, e nemmeno era questa l’intenzione di questa nota; porsi qualche obiettivo di crescita, al quale lavorare umilmente, mi sembra invece cosa molto più aggredibile ed anche necessaria: come diceva ancora il vecchio Max Weber, certo che la politica è l’arte del possibile, ma quel possibile spesso è stato raggiunto guardando all’impossibile che stava dietro di lui.
Bologna, 9 maggio 2003
Allegati: Il Giuramento d’Ippocrate