Il racconto del giornalista, avvincente, da molti punti vista rischia di vedere solo il dito: la questione vera è quella delle politiche territoriali, come hanno ben capito altri. La Repubblica, 17 marzo 2014, postilla (f.b.)
Sembrano degli Ufo, vascelli spaziali che trasportano alieni. Imponenti, maestosi, e misteriosi, i torpedoni extralusso a due piani si aggirano per le vie di San Francisco inghiottendo il loro carico umano in silenzio. Hanno i vetri oscurati. Sul cruscotto leggo dei cartelli dai simboli arcani: Mtv, Mpk, Gbus. Gli addetti ai lavori sanno decifrare ogni sigla. Mountain View, quartier generale di Google. Menlo Park, sede di Facebook. Gbus sta per Google-bus. Si accostano ai marciapiedi dove li attendono i passeggeri in file ordinatissime, molto più lunghe di quelle degli utenti “normali” che attendono gli autobus pubblici. Questi qui sono tutti ventenni, ragazze e ragazzi, molti di loro asiatici, vestiti ultra-casual (bermuda, T-shirt, sandali e ciabatte infradito) e con zainetto come se andassero a fare surf in spiaggia; gli immancabili auricolari che li isolano dal mondo. Appena salgono sul bus li vedo aprire i loro tablet e sprofondare in un isolamento ancora più completo, a tu per tu con il cyber-lavoro che li aspetta.Questi torpedoni stile Rolls Royce, extra-large e con tutti i comfort delle limousine (wi-fi, snack, bevande, poltrone rilassanti), sono diventati il detonatore di una protesta sociale senza precedenti da queste parti. Occupy Silicon Valley, possiamo chiamarla.
È la rivolta dell’altra San Francisco contro lo strapotere del capitalismo digitale: che genera ricchezze diffuse ma esaspera le diseguaglianze, espelle da questa città interi ceti sociali medio-bassi. Bersaglio della protesta per alcuni mesi sono diventati proprio i torpedoni, simbolo visibile di un privilegio e di un’ingiustizia. Con la loro stazza enorme invadono le strade di San Francisco, peggiorano gli ingorghi, fanno fermate non autorizzate. Ad ogni ora del giorno e della sera (adattandosi agli orari ultra-flessibili dei giovani ingegneri e programmatori di software) fanno la spola tra i quartieri residenziali della città e le varie sedi di Apple, Google, Yahoo, Facebook, disseminate lungo l’autostrada 101 che è l’arteria vitale della Silicon Valley. Trasportano comodamente dalle abitazioni agli uffici hi-tech un popolo di giovani strapagati, coccolati, mentre il resto della popolazione cittadina si accalca sui bus municipali stravecchi e sempre in ritardo.
«Un mattino all’improvviso siamo stati assaliti dai manifestanti, hanno rotto un vetro del torpedone», racconta Craig Frost che lavora da Google. E conserva il volantino che i manifestanti hanno distribuito ai passeggeri. Ecco il testo: «Vi meravigliate di questa protesta? Eccone le ragioni. Le persone che stanno fuori dal vostro Google-bus sono quelle che vi servono il caffè al mattino, vi custodiscono i figli mentre siete al lavoro, si prostituiscono per fare sesso con voi a pagamento, vi preparano da mangiare al ristorante, e vengono espulse dai quartieri di questa città. Mentre voi vivete come maiali d’allevamento ben pasciuti, con i buffet aziendali gratuiti 24 ore su 24, il resto della città sta raschiando il fondo per sopravvivere. Ma noi non esistiamo neppure, nel mondo costoso e artificiale che voi avete creato».
Uno degli organizzatori delle proteste è Tony Robles, attivista di Senior and Disability Action, una ong che assiste anziani e disabili. «Siamo andati alle fermate dei torpedoni — dice Robles — per far capire a quella gente che i loro business hanno conseguenze sociali, e devono farsene carico ». Nel quarto di secolo di storia di Internet, un’era tecnologica che ha avuto nella Silicon Valley il suo epicentro e la sua cabina di regìa, non era mai nata una protesta sociale “mirata” in modo così preciso contro questo mondo.
Le ragioni di questa protesta le riconosce lo stesso sindaco di San Francisco, il cinese-americano Edwin Lee, che molti manifestanti accusano di essere legato a doppio filo alle grandi imprese della Silicon Valley. «Non lo nego affatto — dice Lee — in questa città esiste la povertà. C’è una parte della popolazione che sta lottando per sopravvivere». Eppure per molti, incluso Barack Obama che lo invitò in tribuna d’onore al discorso sullo Stato dell’Unione, il sindaco Lee è il simbolo di un’America che ha sconfitto la crisi, che è tornata a crescere, che tutti vorrebbero imitare. Il tasso di disoccupazione a San Francisco è al 4,8% contro la media nazionale del 6,6%. Mentre nel resto degli Stati Uniti esplode lo scandalo degli stagisti non remunerati (una forma di sfruttamento illegale ma diffusa), qui a San Francisco uno stagista di Twitter guadagna 6.791 dollari al mese, più di 80.000 dollari all’anno, una cifra notevole se confrontata col reddito medio della famiglia americana: 53.000 dollari all’anno. Eppure la stessa sede di Twitter — l’unica che è nel centro di San Francisco — è stata presidiata da manifestanti con gli striscioni. Denunciano i generosi sgravi fiscali che il sindaco Lee haofferto a quest’azienda: dieci anni di esenzione dalla payroll tax (l’equivalente dei contributi previdenziali), pur di convincere Twitter a insediarsi in città.
L’ennesimo boom della Silicon Valley sta creando un esercito di giovani milionari, a una velocità esponenziale. Quando Google si quotò in Borsa furono “solo” mille i nuovi milionari creati da quel collocamento, per Facebook e Twitter la stima è salita a 1.600 milionari cadauna. Il salario “minimo” di un dipendente hi-tech nella Silicon Valley è centomila dollari annui secondo i dati del Bay Area Council, una sorta di Confindustria locale. Ma tutta questa ricchezza provoca un fenomeno di “gentrification” senza precedenti: espulsione dei ceti meno abbienti. L’affitto di un modesto appartamento a due stanze è salito a 3.250 dollari, secondo la San Francisco Tenants Union. La bolla immobiliare è ancora più evidente nelle compravendite: l’80% delle abitazioni messe sul mercato vengono acquistate a prezzi superiori a quelli chiesti dai proprietari, in una folle spirale di aste competitive. Un professore di liceo statale guadagna 59.700 dollari all’anno: con questo costo della vita, gli è diventato impossibile rimanere a San Francisco. Un’altra attivista che ha organizzato le proteste è Rebecca Gourevitch di Eviction Free: «Siamo di fronte a due San Francisco, due città sempre più distanti tra loro, con un divario economico che cresce a dismisura ».
Il movimento contro le “eviction” cioè gli sfratti, ormai coinvolge ampie fasce di ceto medio. Non è più un gap tra ricchi e po-veri, ma tra i nuovi ricchi dell’economia digitale e la maggioranza degli altri, inclusi tutti quegli addetti ai servizi essenziali per gli stessi ventenni della Silicon Valley: che quando tornano a casa la sera si aspettano di trovare una San Francisco pulita e ordinata, con pattuglie di polizia, vigili del fuoco, nettezza urbana, licei e università che funzionano. Nessuno di questi servizi paga stipendi sufficienti, ormai, per una città in preda alla febbre delle stock option. «Il 23% degli abitanti — riconosce il sindaco Lee — vive sotto la soglia della povertà».
Alcuni protagonisti del nuovo boom digitale reagiscono alle proteste con una suprema arroganza. Un celebre venture capitalist come Tim Draper promuove un referendum per la secessione della Silicon Valley che la trasformi in uno Stato indipendente dalla California. Altri perfino più temerari immaginano di trasferire i quartieri generali delle aziende hi-tech su piattaforme marine, extra-territoriali. Il simbolo dell’insensibilità è Tom Perkins, uno dei più celebri finanziatori del venture capital, un genio dell’investimento che ha contribuito alla nascita di Google e di tante altre start-up di successo. Grande visionario nelle tecnologie, ma solo in quelle. «I manifestanti che bloccano i torpedoni privati diretti nella Silicon Valley mi ricordano la Gioventù nazista che agli ordini di Hitler assaltava le aziende degli ebrei durante la Notte dei cristalli». Questa frase Perkins ladice davanti a una folta platea, parlando in uno dei centri culturali più frequentati a San Francisco, il Commonwealth Club. Secondo Perkins c’è un «accanimento contro l’un per cento». E il suo suggerimento a Google è spietato: «Ignorino le proteste».
Ma l’azienda diretta da Eric Schmidt non segue i consigli del suo illustre finanziatore. Almeno sembra avere più sensibilità alle relazioni pubbliche, rispetto al capitalismo di Wall Street che domina sull’altra costa. Di fronte a Occupy Silicon Valley, la risposta è astuta. Google stacca un assegno da 7 milioni di dollari, intestato al Public Transit System, l’azienda dei trasporti municipali: offre biglietti gratis sugli autobus pubblici a tutti i giovani sotto i 17 anni che appartengono a famiglie a basso reddito. La portavoce di Google, Meghan Casserly, si esibisce in un capolavoro di diplomazia: «I residenti di San Francisco hanno ragione ad essere frustrati. Pagheremo di più per l’uso delle fermate pubbliche. E nel frattempo tutti gli studenti a basso reddito viaggeranno a nostre spese almeno per i prossimi due anni». Google aderisce anche all’iniziativa di Marc Benioff, fondatore di Salesforce: si chiama San Francisco Gives, ha raccolto già 10 milioni per iniziative contro la povertà. La filantropia come risposta alle disuguaglianze sociali: i giovani capitalisti della Silicon Valley sperano che basti.
postilla
Parafrasando un celebre proverbio, verrebbe da dire: se indichi la luna, lo stolto guarda il dito, il saggio vede lo sprawl. Ci sono due facce dello sganciamento fra capitale e territorio che ci perseguitano almeno dagli anni della deindustrializzazione e libera circolazione dei capitali globalizzata. La prima è quella dell'apparente indifferenza localizzativa, che prosciuga da un momento all'altro intere regioni di risorse economiche, posti di lavoro, prospettive future, spostandosi là dove hanno deciso i contabili e un consiglio di amministrazione estraneo al mondo reale. La seconda, una specie di strascico novecentesco superstizioso ma micidiale, è il riorganizzarsi locale delle cosiddette mega-regioni (nel caso specifico la Bay Area di San Francisco, ma vale benissimo per altri luoghi come la nostra pianura padana) secondo il modello tradizionale dello sprawl e della specializzazione territoriale. A cui a quanto pare sinora non hanno dato risposta convincente le teorie di Richard Florida e della sua classe creativa che attraverso processi di gentrification avrebbe controbilanciato la dispersione insediativa. Avviene, invece, che il ricentraggio parziale gestito dal libero mercato speculativo produca da un lato l'impennarsi dei valori immobiliari in centro, dall'altro l'espulsione ulteriore dei ceti popolari e progressivamente anche di quelli medi. Ma c'è un altro fattore che Rampini non coglie: la persistente tendenza delle grandi imprese a organizzarsi su campus suburbani, anziché contribuire a costruire città vere e proprie, che da sole (con ovvie politiche pubbliche) sarebbero già una risposta sociale ai disastri raccontati dall'articolo. Un aspetto lo abbiamo raccontato a suo tempo su Mall e anche qui su Eddyburg, nel pezzo Steve Jobs Urbanista. Chi volesse verificare gli ultimi sviluppi può ad esempio leggersi l'ultimo documento elaborato dal centro studi San Francisco Planning and Urban Research Association SPUR, Agenda for Change; su Millennio Urbano qualche considerazioni in più (f.b.)