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Piero Ostellino
Il partito del non fare
26 Gennaio 2006
Stupidario
L’editoriale è de il Corriere della Sera del 26 gennaio 2006; merita di aprire questa nuova cartella, dedicata al grande Gustave Flaubert, e in particolare ai suoi Bouvard et Pécuchet (un romanzo che consigliamo) e soprattutto al Dizionario delle idee comuni.

In Val di Susa, sono contro il tunnel

, che ci collegherebbe al resto d'Europa (e persino all’Asia); in Campania, contro i termovalorizzatori, con i quali si produce energia dai rifiuti; un po' dappertutto, sono contro gli inceneritori, che i rifiuti si limitano a bruciarli. A Brindisi, non vogliono il degassificatore, che serve a riportare il gas dallo stadio liquido (compresso) — che ci arriva via mare, invece che attraverso gasdotto — a quello gassoso; a Grosseto, le pale eoliche che hanno la funzione di utilizzare il vento per produrre energia. Per altri ancora, il ponte sullo stretto di Messina, che ancorerebbe la Sicilia alla penisola, è inutile. Solo l'altro ieri, la variante di valico sulla Firenze- Bologna, progettata per migliorare il traffico automobilistico, aveva provocato un'ondata di «no». Ora, ci si è messo anche il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, a sollevare dubbi sul Mose — il progetto di paratie mobili per bloccare il flusso delle maree e salvare la città dal pericolo di sprofondare «nell'acqua alta» — suggerendone la revisione a opera già approvata e ormai iniziata.

L'elenco dei «no» — che Piero Fassino ha opportunamente denunciato— sembra destinato a crescere a dismisura e la sua ombra, dopo aver paralizzato quello di centrodestra, minaccia di allungarsi anche su un eventuale governo e sulle future amministrazioni locali di centrosinistra qualora l'Unione vincesse le prossime elezioni. Il grande esercito dei «no» (ecologisti, movimentisti, dirigisti e quant'altro) tende, infatti, a identificarsi prevalentemente con la cultura di sinistra e sulle maggioranze di governo di centrosinistra farebbe certamente sentire il proprio peso. Il rischio, allora — poiché non c'è uomo politico che non sia incline a piegarsi ai «no» per non provocare fratture nella propria parte — è che, a tutti i livelli del processo decisionale, finisca col prevalere la «cultura del non fare». Sarebbe un disastro.

E' un rischio, dunque, che il centrosinistra, in tutte le sue componenti — prima fra tutte quella riformista, ma non escluse quelle radicali — farebbe male a sottovalutare e di fronte al quale farebbe invece bene fin d'ora ad attrezzarsi. Non con un generico e retorico «programmismo », già denunciato su queste stesse colonne da Angelo Panebianco e Dario Di Vico. Ma con un'«idea forte» circa quello che occorre fare per dare al Paese le infrastrutture di cui necessita e consentirgli, così, di stare al passo con i tempi e con il resto dell'Europa.

Il riformismo — che è una sorta di ingegneria sociale gradualistica—è innanzi tutto, rispetto al massimalismo, «una questione di metodo». E' la differenza — ha spiegato bene Karl Popper — «fra un metodo che può essere applicato in ogni momento e un metodo la cui adozione può facilmente diventare un alibi per il continuo rinvio dell'azione a una data successiva, quando le condizioni risultino più favorevoli». Il riformismo — secondo Popper —è, in sostanza, un continuo processo di soluzione di problemi parziali; problemi che il pensiero massimalista rinuncia a risolvere, chiedendosi continuamente se i mezzi adottati siano idonei a raggiungere il Fine ultimo, il Bene assoluto. Ma, conclude Popper, non c'è un metodo razionale per determinare il Fine ultimo (la Perfezione). Ci riflettano tutti quelli che, nel centrosinistra, si dicono riformisti.

Vedi anche, sullo stesso argomento, l’eddytoriale n. 84

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