1 ottobre 2008
Il ventennio di Berlusconi
Alberto Asor Rosa
Nel corso dell'estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto.
Richiamo l'attenzione (se c'è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull'«incipit» di quell'articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi». Di questa frase è soggetto implicito l' Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l'Italia sotto specie di Nazione («dall'Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione.
Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d'accordo su questo punto di partenza, dell'Italia, più esattamente dell'Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l'eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo). Poiché si parla dell'Italia, e dell'Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l' unità (e il senso dell'unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell'identità e dell'appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo.
Dal punto di vista dell' unità la fondatezza di tale affermazione è lampante. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell'unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell'essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani.
Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell'interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l'esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno. Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell'esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all'esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...).
Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico. Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall'impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest'ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo. Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti.
Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all'ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre. Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche.
Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l'identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo. Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant'anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo. Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l'ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent'anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo).
La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d'intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s'accompagnerà, non c'è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov'è? E, visto che non c'è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere?
P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
? ottobre 2008[1]
I ventenni d’Italia
di Piero Bevilacqua
Sull’articolo di Alberto Asor Rosa, Il ventennio di Berlusconi, pubblicato su questo giornale il primo ottobre, vorrei esprimere la mia condivisione di storico, di studioso del mondo contemporaneo. Condivisione di metodo e di merito. Cominciamo col metodo. Certo, può apparire uno stucchevole esercizio fare comparazioni su epoche distanti e diverse, per qualità delle composizioni sociali in gioco, natura dei problemi, diversità profonda delle opinioni pubbliche. Così come si può correre il rischio di intrupparsi in quella vasta letteratura di protesta che dietro la comprensibile demonizzazione del magnate di Arcore, nasconde un drammatico vuoto di progetto politico. E tuttavia, sul piano del metodo occorre dire che la comparazione, con tutti i rischi ben calcolati che comporta, offre la possibilità di una analisi illuminante della situazione presente.L’esercizio comparativo ci consente di osservare quanto è cambiata la società italiana e quanto siamo cambiati noi stessi negli ultimi 15 anni. «Non si fa mai tanta strada come quando non si sa dove si va», diceva quel tizio. E si può andare avanti, ma anche tornare indietro. E noi quanta strada abbiamo nel frattempo percorso e in che direzione ? Che cosa abbiamo perso in tutti questi anni in qualità della democrazia, dissoluzione della solidarietà e dell’identità nazionale, qualità dello spirito pubblico, difesa dell’ambiente e del territorio, rapporto tra cittadini e potere, natura delle relazioni tra gli stessi cittadini? L’inguaribile accademismo della storiografia italiana, incapace di fare storia del medio periodo, impedisce per l’appunto di darci conto di quanto nel frattempo si è consumato intorno a noi. E quindi, chi sa guardare nella profondità del proprio tempo, al di là di angustie accademiche e conformismi – come ha fatto Asor Rosa – assolve ad un compito importante.
Sul piano del merito alle argomentazioni di Asor Rosa vorrei aggiungere un paio di considerazioni Intanto, il tema nazione. Un’asfissiante retorica, condensata nel termine passepartout globalizzazione – il sacro graal del nostro tempo – impedisce di vedere il ruolo ancora decisivo che lo Stato-nazione gioca oggi per l’economia, la coesione sociale, la qualità della vita, l’avvenire delle popolazioni che esso governa. Siamo nell’Europa Unita, d’accordo, ma ci siamo come Stato-nazione e per lunghissimo tempo la dimensione nazionale sarà decisiva per la vita di tutti noi. Dunque l’attacco, diuturno e spesso sordido che la Lega (alleata strategica del magnate di Arcore) va conducendo da vent’anni non colpisce un’entità già dissolta nel gran mare dell’Europa. Più esattamente mina le capacità contrattuali del nostro Paese nell’ oceano agitato dell’economia mondiale. Davvero la Nazione è un ferrovecchio da buttar via? Dobbiamo tornare ai campanili, ai guelfi e ai ghibellini? Può sembrare un esercizio retorico, ma ormai siamo arrivati a questo punto., occorre ritornare a didattiche elementari. Debbo allora ricordare che l’Italia del Rinascimento, che aveva illuminato il mondo coi suoi bagliori di civiltà, fu travolta dai nascenti Stati europei per effetto della sua interna fragilità e divisione. E, com’è noto, essa è rimasta per oltre due secoli, in condizione di marginalità e di minorità, prima che riprendesse il suo ruolo accanto ai grandi partner europei. Quel ruolo l’ha ripreso con l’unità, raccogliendo le sue sparse membra, superando divisioni regionali e comunali. Debbo ricordare che lo Stato, in Italia, ha guidato e spesso direttamente costruito l’industria moderna, in assenza di capitali di rischio da parte degli imprenditori privati? Debbo rammentare che è stato lo Stato unitario ad avere avuto visione strategica – pur sulla base di un punto di vista classista- degli interessi generali del Paese? E’ da qui che veniamo, questa è la nostra storia profonda, non un’altra immaginaria. Perciò bisogna sapere che i colpi inferti all’unità nazionale compromettono gravemente l’avvenire del Paese.
Che gli italiani non si siano ancora ribellati a questo devastante attacco alla loro storia e al loro stesso futuro può apparire un fatto misterioso. E questo è uno degli interrogativi che si pone Asor Rosa a conclusione del suo articolo. Forse una parziale risposta – l’altra sta nelle scelte della parte maggioritaria della sinistra - si può rintracciare nell’opera specificamente berlusconiana di dissoluzione dell’unità nazionale.
Ai colpi della Lega, infatti, negli ultimi 15 anni, si è accompagnato un lavoro culturale e ideologico di vasta portata, orchestrato dalle TV di Mediaset, che ha fatto leva sulla parte più arcaica e anarcoide dello spirito nazionale. Quel particulare che già Francesco Guicciardini individuò nel XVI secolo come un tarlo nella coscienza civile degli italiani. La libertà osannata in mille guise da Forza Italia ha incarnato la versione paesana di quel neoliberismo devastatore che oggi morde la polvere negli USA, e che ha precipitato il mondo in uno dei più devastanti tracolli finanziari dell’intera storia del capitalismo. Ma da noi libertà ha significato soprattutto possibilità di violare le regole di una condotta civile, di rompere i patti di mutua solidarietà che fanno il tessuto vivente di una nazione. Libertà di aprire imprese senza vincoli ambientali e controlli, libertà di manomettere il patrimonio edilizio urbano, di saccheggiare il territorio, di non pagare le tasse. In nessun Paese del mondo si era mai vista la novità storica assoluta di un presidente del Consiglio che esorta i cittadini a non pagare le tasse. E le tasse sono il fondamento storico del patto che regge le nazioni moderne.
E’ stata dunque questa ideologia a svolgere un’opera culturalmente e spiritualmente dissolvitrice. Ha trasformato gli italiani in gente, i cittadini in produttori e consumatori, ciascuno libero in casa propria( ma anche fuori di essa), individui solitari privati di un’idea di nazione come comunità solidale, monadi isolate, ispirate esclusivamente dalla ricerca dei propri privati interessi. Ma quando si smarrisce, come in questo caso, il senso di far parte di un patto collettivo e ci si sente, per l’appunto, individui solitari, non si ha più la forza di reagire, di contrastare le avversità che arrivano, le oppressioni di nuovo conio che il potere appresta. Nessuno vede più nel vicino un compagno con cui lottare per difendere il bene comune minacciato.
Asor Rosa tocca un punto importante, nella comparazione tra Mussolini e il Magnate di Arcore. Il dittatore fascista mise in piedi uno Stato totalitario, che oggi non sarebbe per fortuna possibile. Nel tempo della rete, delle interconnessioni avanzate tanto dell’informazione che dell’economia mondiale quel modello di sopraffazione non sarebbe possibile. E certo la qualità di quella dittatura non è paragonabile all’autoritarismo di oggi. La libertà di stampa e di espressione, benché potentemente condizionata e manipolata, costituisce in effetti un quid importante della democrazia contemporanea. E tuttavia a nessuno sfugge la gravità di quello che Asor Rosa definisce con il termine neutro di «corruzione». Neppure sotto il fascismo il capo del governo era arrivato al punto di fare della cosa pubblica materia del proprio personale dominio e interesse. Non è solo un incommensurabile passo indietro di natura morale. Si tratta di un passaggio politico di grande rilevanza storica. Esso potrebbe costituire un pernicioso modello avvenire, come il fascismo lo fu negli anni ’20 e 30 per altri Paesi. Nell’epoca in cui dominano giganteschi colossi multinazionali il rischio che si affermi una nuova forma di Stato è evidente. In Italia – unica al mondo, lo sappiamo – un detentore privato di capitale mette al servizio della sua azienda e dei suoi casi personali l’intera macchina dello Stato. Sia pure giunto al governo per via elettorale, un segmento del potere economico privato piega il potere pubblico ai suoi particolari interessi.. Mussolini agiva, per sete di potere, certo, ma entro l’involucro di una ideologia totalitaria che separava gli interessi privati da quelli pubblici. Come definiamo la situazione presente?
Infine, un’altra considerazione aggiuntiva. Anche qui lamento la disattenzione degli storici: ai quali, per la verità, i giornali spesso non danno lo spazio che sarebbe necessario per fare storia del breve periodo. Pochi,infatti, hanno pensato in prospettiva storica alla sorte subita dal lavoro in Italia negli ultimi venti anni. E’ progredita la condizione dei lavoratori ? Sappiamo tutti quel che è accaduto. Il lavoro è stato frantumato in mille modalità contrattuali diverse, costretto a mansioni rapidamente mutevoli, di breve e brevissima durata, regolato da orari imprecisati, remunerato con salari spesso di umiliante esiguità. La flessibilità: quanti peana da destra e da sinistra alla nuova formula magica che riduce la persona umana ad un accessorio variabile dell’impresa! Certo, non è tutta responsabilità dei governi di centro-destra, anche il centro sinistra (subalterno alla cultura degli avversari ) ha fatto la sua parte. Ricordate la legge 30? Certo, ci sono stati periodi di più dura miseria per i lavoratori italiani nel Novecento. Certo, sotto il fascismo le condizioni di illibertà sindacale erano pesanti e incidevano sulla vita delle persone. Eppure, io sento di assumermi, come storico, la responsabilità di affermare che neppure sotto la dittatura fascista il lavoro umano in Italia ha conosciuto le forme di degradazione, svuotamento, precarietà, umiliazione patite nell’ultimo ventennio nella cornice di uno Stato formalmente democratico.
[1] L’articolo è stato inviato a eddyburg prima che fosse pubblicato su il manifesto.Ne ringraziamo l’autore