Antonio Cederna fu eletto alla Camera dei Deputati, nelle liste del Partito comunista italiano, come indipendente di sinistra, nella X legislatura, iniziata il 2 luglio 1987 e terminata il 22 aprile 1992. Con questo scritto non si può certamente proporsi di ricostruire ed esporre analiticamente la sua attività di parlamentare, che fu (dati i suoi convincimenti e il suo carattere, non poteva essere altrimenti) impegnata, assidua, oserei quasi dire “diligente”: ci si prefigge quindi soltanto di esporre i lineamenti essenziali, nonché la sorte immediata e gli esiti a più lungo termine, delle proposte di legge di cui fu “autore”, in quanto ne volle e ne curò, o ne coordinò, la redazione, ne fu primo firmatario e presentatore, e ne seguì appassionatamente e ostinatamente l’iter parlamentare (quando questo ci fu). Si tratta della proposta di legge contenente Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, di quella relativa a Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica e infine di quella recante Integrazione e coordinamento della legislazione speciale per Venezia.
Cederna svolse invece un ruolo assai meno da protagonista nella formazione della legge che si denominò Legge quadro sulle aree protette, e che fu definitivamente approvata proprio nel corso della X legislatura (nel 1991). Anche se sottoscrisse la proposta di legge che aveva come primo firmatario Gianluigi Ceruti, il quale era stato vicepresidente nazionale di “Italia Nostra” edera allora deputato eletto nelle liste dei Verdi. E anche se sostenne lealmente il testo unificato, rifiutandosi di prestare troppo l’orecchio (salvo talvolta reagire con manifestazioni di sconcerto e rimbrotti) alle critiche che a quel testo muoveva l’autore di queste righe, e a quelle, ancora più drastiche, che gli rivolgeva Antonio Iannello: l’uomo che, secondo Cederna, “pensava male [essendo, e più proclamandosi, un idealista crociano, distantissimo quindi dall’empirismo pragmatista di Cederna, erede del filone cattaneano della cultura politica italiana] ma razzolava bene”.
La difesa del suolo
Negli ultimi mesi della IX legislatura, presso la commissione per i lavori pubblici della Camera, ma a seguito anche dell’espressione di un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e grazie a riunioni concertative informali tra il ministro dei Lavori pubblici, rappresentanti delle regioni e rappresentanti del predetto organo parlamentare, era stata formulata la proposta di un testo unificato recante disposizioni per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, che pareva raccogliere un quasi unanime consenso delle formazioni politiche, e altresì quello, la cui mancanza sin’allora era stata ostativa del procedere del processo decisionale di formazione di una nuova legge sul predetto argomento, delle regioni.
Nel suddetto testo unificato il sistema organizzativo e programmatico finalizzato alla difesa del suolo trovava il suo fondamento nell’individuazione dei bacini idrografi ci, e nella previsione della formazione dei piani di bacino. I bacini erano riconosciuti appartenere a (soltanto) due categorie: bacini regionali e bacini interregionali. Nell’ambito di questi ultimi erano individuati quelli che erano denominati bacini interregionali a regime speciale, i cui piani si prevedeva fossero formati sotto la direzione di comitati istituzionali composti da non meno di quattro rappresentanti del Governo statale e da un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, e fossero definitivamenteapprovati dal ministro dei Lavori pubblici. Si prevedeva inoltre l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti, presieduto dal ministro dei Lavori pubblici e con sede presso il Ministero, la trasformazione della Direzione generale delle acque e degli impianti elettrici del medesimo Ministero in Direzione generale della difesa del suolo e la riorganizzazione dei servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico, attribuendo loro autonomia funzionale nell’ambito dell’organizzazione del dicastero dei lavori pubblici.
Il testo unificato non riuscì a completare il suo iter, con la definitiva approvazione di una legge, prima dello scadere della legislatura.
Alla fine del 1987 Cederna si convinse dell’opportunità di concorrere alla formazione della legge per la difesa del suolo mediante la presentazione di un’autonoma proposta. Per la sua messa a punto chiamò a collaborare Giuliano Cannata, Filippo Ciccone e l’autore di queste righe. Il testo che ne scaturì, e di cui Cederna fu, ovviamente, primo firmatario e presentatore, fu sottoscritto anche dai deputati Franco Bassanini e Stefano Rodotà, entrambi della Sinistra indipendente, nonché da Enrico Testa, del Partito comunista italiano.
Rispetto al testo unificato scaturito dai lavori e dai confronti intercorsi nella precedente legislatura, la proposta di legge di Cederna, assuntone l’impianto strutturale, interveniva con una ingente quantità di modificazioni e integrazioni, anche minute, le più rilevanti e incisive delle quali riguardavano la definizione dei contenuti dei piani di bacino e le espressioni centrali dello Stato che si reputava dovessero assumere dei ruoli nelle attività volte alla difesa del suolo. Quanto al primo profilo, basti dire che si puntava a renderne più ricca la latitudine e più incisiva l’efficacia. Quanto al secondo profilo, si proponeva la costituzione, anziché di un Comitato nazionale per la difesa del suolo composto da tecnici, di un Comitato interministeriale per la difesa del suolo composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per i Beni culturali e ambientali, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro della Marina mercantile, dal ministro per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile. Gli stessi ministri, o loro delegati, era previsto facessero parte dei comitati istituzionali dei bacini a regime speciale, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non meno di sette rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque inferiore (salvo il caso del bacino del Po), di rappresentanti delle regioni. Per l’assolvimento delle funzioni tecnico-consultive si proponeva la trasformazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, ampliandone consistentemente la composizione. E si proponeva che i servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico fossero riorganizzati nell’ambito dell’istituendo Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente.
Meno di un paio d’anni dopo la presentazione della proposta di legge ora sommariamente illustrata, il confronto parlamentare ebbe esito nell’approvazione della legge 18 maggio 1989, n. 183. In essa i bacini idrografi ci erano suddivisi non più in due, ma in tre categorie: bacini di rilievo nazionale, bacini di rilievo interregionale, bacini di rilievo regionale. Quantomeno ai bacini di rilievo nazionale erano preposte autorità di bacino, i cui organi decisionali erano denominati comitati istituzionali. Dei comitati istituzionali dei bacini di rilievo nazionale si disponeva facessero parte il ministro dei Lavori pubblici, il ministro dell’Ambiente, il ministro dell’Agricoltura e foreste, il ministro per i Beni culturali e ambientali, o loro delegati, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non più di quattro rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque sempre inferiore (salvi i casi del bacino del Po e di quello dal Tevere), di rappresentanti delle regioni. La definizione dei contenuti dei piani di bacino faceva proprie le indicazioni della proposta di legge di Cederna, e anzi operava ulteriori arricchimenti. Veniva decisa laistituzione non già del Comitato interministeriale per la difesa del suolo proposto dal testo presentato da Cederna, ma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri e composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile e dal ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Non veniva accolta l’ipotesi di riformare il Consiglio superiore dei lavori pubblici, trasformandolo in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, e veniva riproposta e decisa l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti. Infine, era stabilito che i servizi tecnici nazionali (e innanzitutto quelli già esistenti: idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico) fossero riorganizzati presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, assicurando loro autonomia scientifica, tecnica, organizzativa e operativa.
Una generale quanto puntuale verifica dell’attuazione della legge 183/1989, e del conseguente stato di tutela dell’integrità fi sica del territorio, sarebbe stata, già parecchi anni addietro, e sarebbe tuttora, non essendo mai stata condotta, una delle più essenziali incombenze del Governo statale di un Paese appena appena civile. Il sospetto è che, non già nonostante i ripetuti interventi di modificazione, integrazione, sovrapposizione di dettati legislativi rispetto a quelli della legge 183/1989, ma anche in conseguenza di tali interventi, tale legge sia stata disattesa, soprattutto elusa nelle sue autentiche finalità.
Senza che fosse stata effettuata alcuna seria verifica dell’attuazione della legge 183/1989 e senza che fosse intercorso alcun trasparente dibattito sui suoi elementi di forza e di debolezza, sui risultati raggiunti e su quelli mancati, i contenuti della previgente legislazione per la difesa del suolo sono stati trasfusi, con alcune rilevanti modificazioni, nella Sezione I della Parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, emanato sulla base della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega al Governo peril riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale, fortemente voluta, come il decreto legislativo derivatone, dalla maggioranza di centrodestra dominante nella trascorsa XIV legislatura.
La più incisiva innovazione rispetto al precedente assetto normativo (e organizzativo) è consistita nell’accorpare tutti i bacini idrografi ci, di rilievo nazionale, di rilievo interregionale e di rilievo regionale, definiti dalla legislazione previgente, in otto distretti idrografi ci, a ognuno dei quali era previsto fosse preposta un’autorità di bacino, del cui organo decisionale massimo, denominato conferenza istituzionale, era disposto facessero parte il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, il ministro delle Attività produttive, il ministro delle Politiche agricole e forestali, il ministro per la Funzione pubblica, il ministro per i Beni e le attività culturali, o i sottosegretari da loro delegati, assieme ai presidenti delle Regioni e delle Province autonome interessate, o agli assessori da questi ultimi delegati, nonché il delegato del Dipartimento della Protezione civile. Nelle conferenze istituzionali di quattro autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti dello Stato, in quelle di tre altre autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti delle Regioni, nell’ottava i rappresentanti dello Stato e delle Regioni sarebbero stati in parità. In ogni caso, era previsto che i piani di bacino fossero approvati dal presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Ben lungi dal deplorare che si persegua un assetto legislativo e organizzativo finalizzato alla pianificata tutela dell’integrità fisica del territorio, nel quale siano coinvolti sia il sistema regionale e degli enti locali che lo Stato, e anzi quest’ultimo sia decisore d’ultima istanza, e ciò a prescindere dai caratteri dei bacini idrografi ci considerati, si ha ben più di un motivo per ritenere che la soluzione concreta perciò definita dal decreto legislativo 152/2006 sarebbe destinata a mancare clamorosamente gli obiettivi. Innanzitutto perché, sulla base delle esperienze compiute, che hanno mostrato come sia arduo pervenire in circa trelustri alla definizione di piani afferenti singoli bacini idrografi ci (o tutt’al più alcuni, pochi, bacini di ridotte dimensioni), si può agevolmente prevedere che piani relativi a un quinto, o un sesto, del territorio nazionale, riuscirebbero a vedere la luce (forse) nel prossimo secolo. E ancora più agevolmente si può prevedere un succedersi di “piani stralcio”, approssimativi nell’apparato conoscitivo, grotteschi in quello precettivo, e dalle disposizioni ampiamente “negoziabili” in fase gestionale.
La riqualificazione della città di Roma, capitale della Repubblica
Il 6 febbraio 1985 la Camera dei Deputati aveva approvato, a larga maggioranza, una solenne mozione volta a impegnare ogni competente articolazione della Repubblica a operare per conferire a Roma un assetto degno della “capitale europea dello Stato alle soglie del 2000”.
Cederna aveva salutato l’evento correlandogli molte positive attese, e i migliori auspici. Poco meno di due anni appresso, aveva dovuto constatare che quasi nulla era stato attuato. In particolare, lo Stato si era limitato a un’“affannosa rincorsa dell’emergenza”, con il varo, nel 1987, di un primo decreto legge, e con l’emanazione, alla fine del 1988, di un secondo decreto legge, poi reiterato due volte per mancata conversione in legge nei termini, che nella primavera del 1989 non aveva ancora completato il suo iter. Entrambi i provvedimenti, riteneva Cederna, non rispondevano minimamente all’“esigenza di organicità” della redigenda legislazione per Roma che era sottesa alla mozione parlamentare di cui s’è detto, e che, comunque, era imperiosamente posta dall’obiettivo di riqualificare la città.
Decise quindi di presentare una propria proposta di legge. Per la sua messa a punto chiamò anche questa volta a collaborare Filippo Ciccone e l’autore di queste righe, ma, più ancora che nella precedente esperienza, fu l’autentico ispiratore dell’impianto generale, e attentissimo verificatore d’ogni elemento, e diretto redattore di ampie parti degli elaborati, soprattutto di quella relazione illustrativa che Vezio De Lucia ha più volte citato come “una delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna”.1
La proposta di legge, presentata il 26 aprile 1989, si articola in quattro capi:
- il capo I raggruppa e specifica con il massimo dettaglio possibile i concreti obiettivi del provvedimento;
- il capo II identifica gli organismi che dovranno attuare la legge e ne prescrive articolatamente la composizione e i compiti;
- il capo III è dedicato alla descrizione delle procedure;
- il capo IV contiene le norme per l’acquisizione pubblica dei beni immobili oggetto degli interventi previsti. Assunto che l’interesse dello Stato per “Roma capitale” si debba sostanziare nel deciso avvio della “riqualificazione” della città, Cederna afferma perentoriamente che
tale riqualificazione si potrà ottenere solo attraverso l’avvio simultaneo di tre operazioni:
- decongestionando e valorizzando l’area centrale insieme con il suo enorme patrimonio archeologico e storico-artistico;
- avviando, a partire dalla nuova localizzazione dei ministeri, la riqualificazione della periferia orientale della città;
- ristrutturando complessivamente il sistema di mobilità dell’area romana e basandolo sulla costituzione di una rete pubblica integrata, su ferro e in sede propria.
La prima operazione coincide con la realizzazione del parco storico- archeologico dei Fori e dell’Appia antica: un’operazione, anzi, scrive Cederna, “un’impresa”, i cui precedenti risalgono a più di un secolo prima, e che egli ricostruisce puntigliosamente e sinteticamente espone. Per concludere che il progetto che si propone
configura uno straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli Romani, una struttura fatta di spazi liberi, di vuoti, di verde, che si presenta come complementare a quella complessa struttura edilizia, stradale e di servizi che sarà il Sistema direzionale orientale (SDO). L’archeologia, la natura e il paesaggio diventano l’asse portante dell’immagine di Roma, per una sostanziale riqualificazione urbanistica.
La seconda operazione consiste, per l’appunto, nella costruzione del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), nelle aree della prima periferia romana, trasferendovi innanzitutto i ministeri allora (come ancora, larghissimamente, oggi) installati nel centro della città.
Un’operazione che, per Cederna, doveva avvenire “a saldo zero”. Così egli proclama nella più volte citata relazione illustrativa:
gli uffici ministeriali (e di altra natura) trasferiti ad oriente non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico sulle aree centrali. Di quelle sedi e di quei siti va fatto un uso leggero, finalizzato alla più ampia valorizzazione del sistema dei Fori e dell’Appia antica. […] Fin d’ora può […] dirsi che l’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’intervento.
In secondo luogo, fa presente Cederna ripetendo sue precedenti lezioni impartite almeno sei lustri prima,
la qualificazione della città non può essere perseguita operando solo sul centro storico. Anzi, è ormai noto che la stessa salvaguardia del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati ad ospitare funzioni di prestigio. È allora essenziale il controllo della qualità delle funzioni che si trasferiscono, e perciò nel sistema direzionale orientale devono essere collocati gli uffi ci ministeriali principali e rappresentativi. Se il trasferimento fosse limitato a uffici pubblici secondari e a funzioni private di tipo marginale, verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico e progressivamente dell’intera città.
In terzo luogo, specifica Cederna, è stato necessario “affrontare la questione della proprietà delle aree che formano il Sistema direzionale orientale”, giacché “l’esperienza italiana ed europea insegna che obiettivi ambiziosi come quello appena illustrato sonoincompatibili con la proprietà privata delle aree”, poiché “quando […] si perseguono finalità generali di riequilibrio funzionale e di trasformazione qualitativa, è indispensabile la preventiva acquisizione dei suoli da parte dell’amministrazione pubblica”. E non è stato possibile limitarsi soltanto a prevedere l’obbligo dell’acquisizione pubblica della totalità degli immobili interessati dalla creazione del Sistema direzionale orientale, sottolinea Cederna, ma è stato giocoforza necessario impegnarsi a delineare e a proporre un sistema di determinazione delle indennità espropriative, stante che, in argomento, presentemente (cioè al momento della presentazione della proposta di legge), l’ordinamento legislativo italiano presenta una vistosa lacuna. Per sopperire alla quale, viene precisato, è stato studiato, e viene proposto, un metodo di determinazione delle indennità di espropriazione che “tiene conto delle lecite ed effettive utilizzazioni degli immobili (suoli ed edifici), ma non delle trasformazioni urbanistiche potenziali, e cioè previste dai piani”. Vale la pena di soggiungere, incidentalmente, che se tale metodo fosse stato assunto (eventualmente affinandolo) dal legislatore, e traslato nel diritto positivo generale vigente, sarebbero stati, da ormai parecchi anni, perseguiti assai più efficacemente ed efficientemente, tutt’assieme, obiettivi equitativi e di drastico contenimento del peso della rendita immobiliare nelle trasformazioni urbane (a tutto vantaggio della loro qualità complessiva), nonché nell’economia nazionale.
“È evidente”, afferma infine Cederna concludendo l’esposizione dei capisaldi della riqualificazione della città di Roma da lui proposta, che il programma sostenuto
non può non essere accompagnato da una profonda trasformazione dei sistemi di circolazione, finalizzata a dotare la città di una rete su ferro in sede propria, che integri reti sotterranee, ferrovie di superficie e collegamenti di tipo più leggero. Tale rete deve avere un respiro metropolitano e servire gradualmente l’intera città a partire dal settore orientale. Solo in questo modo si avrà un rimedio effettivo e duraturo al grave inquinamento atmosferico e ai suoi nefasti effetti sulla salute pubblica e sul patrimonio storico-archeologico più volte denunciati.
L’esame della proposta di legge di Cederna e altri, e delle svariate diverse proposte presentate sul medesimo argomento, sortì infine l’approvazione parlamentare, e l’entrata in vigore, della legge 15 dicembre 1990, n. 396, recante “Interventi per Roma, capitale della Repubblica”.
Essa non aveva la nettezza, e la solidità d’impianto della proposta di legge di Cederna e altri, ma indubbiamente assumeva, seppure “annacquandoli” nel contesto dell’elencazione di altri obiettivi, i tre capisaldi strategici della riqualificazione della città di Roma additati da Antonio Cederna.
Recita, infatti, il comma 1 dell’articolo 1 della legge 396/1990, che
sono di preminente interesse nazionale gli interventi funzionali all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica e diretti a:
a) realizzare il sistema direzionale orientale e le connesse infrastrutture, anche attraverso una riqualificazione del tessuto urbano e sociale del quadrante Est della città, nonché definire organicamente il piano di localizzazione delle sedi del Parlamento, del Governo, delle amministrazioni e degli uffici pubblici anche attraverso il conseguente programma di riutilizzazione dei beni pubblici;
b) […] creare parchi archeologici e in particolare quello dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica […]; […]
d) adeguare la dotazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità urbana e metropolitana anche attraverso […] il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie; […].
Tutti e tre gli obiettivi sono stati, nella concreta attività delle istituzioni statali, regionali e locali, disattesi, contraddetti, esplicitamente negati, quand’anche le surriportate disposizioni di legge siano sempre vigenti.2
Infine, è il caso di fare presente che la dianzi ripetutamente citata legge 396/1990 affermava, con l’articolo 8:
Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […], il comune di Roma delibera un programma pluriennale contenente l’indicazione degli ambiti da acquisire tramite espropriazione e dei termini temporali al decorrere dei quali si intende procedere ad acquisirli, restando l’esecuzione delle espropriazioni subordinata solamente al decorrere dei predetti termini temporali.
Gli immobili acquisiti […], eccettuati quelli destinati ad utilizzazioni da parte del comune di Roma o comunque interessati alla localizzazione delle sedi pubbliche, sono dal comune medesimo ceduti, anche tramite asta pubblica, in proprietà o in diritto di superficie a soggetti pubblici o privati che si impegnano mediante apposite convenzioni ad effettuare le previste trasformazioni ed utilizzazioni. I prezzi di cessione sono determinati sulla base dei costi di acquisizione maggiorati delle quote, proporzionali ai volumi o alle superfici degli immobili risultanti dalle previste trasformazioni, dei costi delle opere, di competenza del comune, per la sistemazione e le organizzazioni degli ambiti in cui ricadono gli immobili interessati.
Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […] è applicabile l’articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, anche per insediamenti per attività terziarie e direzionali.
La Corte costituzionale, con sentenza 5-8 maggio 1995, n. 155, aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge ora riportate, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 42, terzo comma, della Costituzione.
Senonché, al momento di definire il decreto del presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, il legislatore delegato (Governo Amato), pensò bene di abrogare, con l’articolo 58 di tale provvedimento, non soltanto, com’era del tutto coerente, l’articolo 7 della legge 396/1990, che stabiliva i termini di determinazione delle indennità di espropriazione, ma anche l’articolo 8 della medesima legge, sopra riportato, il quale, invece, con una disposizione tutt’affatto “di merito” e “provvedimentale” (piaccia o meno questa tipologia di norme legislative), stabiliva che una determinata operazione urbanistica dovesse realizzarsi previa acquisizione pubblica, tramite espropriazione, della totalità degli immobili interessati. “Eccesso di delega”? è difficile dubitarne.
La salvaguardia di Venezia e della sua laguna
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, e a decorrere dall’inizio dei precedenti anni Settanta, quando il Parlamento italiano aveva voluto trarre, in qualche modo, le conclusioni del grande dibattito sviluppatosi a scala locale, nazionale e internazionale, sulla situazione e sulle prospettive della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, anche e soprattutto in conseguenza della disastrosa “acqua alta” eccezionale del 4 novembre 1966, la legislazione speciale “per Venezia” si era arricchita di numerosi provvedimenti.3
Antonio Cederna, che fin dagli esordi della sua attività di polemista aveva rivolto anche a Venezia e alla sua laguna particolarissime attenzioni, dopo averne ragionato con varie persone, con le quali si sentiva, sull’argomento e non soltanto, in sintonia culturale,4 si convinse della necessità di un forte intervento di integrazione e di coordinamento della legislazione speciale per Venezia, e decise di presentare una propria proposta di legge rivolta a tal fine. Fui ancora una volta chiamato a collaborare per la messa a punto della proposta, che, avendo Cederna ottenuto la sottoscrizione anche di Ada Becchi e di Franco Bassanini (entrambi appartenenti, come lui, al gruppo della Sinistra indipendente), fu presentata il 2 aprile 1991.
La proposta di legge, esordisce la relazione illustrativa,
si propone, in buona sostanza e in sintesi, i seguenti obiettivi, da perseguirsi congiuntamente:
a) correggere le prescrizioni della vigente legislazione speciale per Venezia che la riflessione, e soprattutto la prassi attuativa, abbia negli anni mostrato errate e/o di impossibile o difficile praticabilità;
b) integrare la medesima legislazione speciale con le disposizioni la cui necessità, o almeno utilità, si sia appalesata a seguito, anche in questo caso, di maturazioni teoriche scaturenti dalla verifica nella prassi;
c) risolvere le incongruenze, al limite della contraddittorietà, sedimentatesi in conseguenza del succedersi per accumulo di disposizioni legislative speciali (e ordinarie);
d) ricondurre le discipline speciali valevoli per Venezia nel l’alveo delle discipline ordinarie, nella misura in cui ciò sia reputabile utile e congruo, anche alla luce dell’essersi il complesso normativo ordinario arricchito di disposizioni attinenti tematiche che, precedentemente, erano state disciplinate con riferimento alla sola area veneziana;
e) porre le premesse e i presupposti per il coordinamento e la unificazione in un testo di agevole interpretabilità e praticabilità delle disposizioni legislative concernenti Venezia.
Così delineato il complesso degli obiettivi perseguiti, la relazione illustrativa procede a esporre le ragioni e i contenuti di una delle più incisive previsioni innovative della proposta di legge.
Premesso che
il faticato procedere delle azioni e degli interventi che, secondo la volontà del legislatore, avrebbero dovuto assicurare la salvaguardia di Venezia e della sua laguna […] è stato largamente insoddisfacente […], sicuramente e marcatamente, per quanto attiene alla tutela dell’integrità fisica […] del territorio lagunare,
si sostiene che
la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi dianzi detti […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra una logica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt’al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive.
Occorre quindi, prosegue la relazione,
chiarire quale sia il vero nodo da sciogliere: non procedimentale, ma di merito. Il che non nega affatto che sia necessario ridisegnare l’attuale meccanismo decisionale e operativo degliinterventi e delle azioni per Venezia […]. Piuttosto, evidenzia come tale ridisegno, per essere efficace, non possa essere neutro, ma, al contrario, debba essere, finalmente, coerente e funzionale al pieno e incontrovertibile affermarsi dell’approccio sistemico ai problemi del territorio veneziano.
Inoltre, soggiunge, non si ritiene opportuno “inventare nuovi e straordinari soggetti (che tendono, di norma, a dare pessime prove)”, ma invece si reputa doversi “assumere come riferimento il modello ordinariamente configurato, per le autorità di bacino di rilievo nazionale, dalla legge 18 maggio 1989, n. 183”. Che è quello che fa la proposta di legge, istituendo l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, indicandone l’ambito territoriale di competenza, e dettando, per essa, alcune disposizioni particolari, parzialmente discostantisi da quelle di cui alla legge 183/1989.
Particolarmente rilevante risulta il fatto che, precisato di non ritenere
né opportuno né necessario negare radicalmente una scelta già affermatasi […], si prevede […] che sia le amministrazioni dello Stato che la Regione Veneto, che gli altri enti pubblici interessati, possano fare ricorso per la realizzazione di quanto rientri nelle rispettive competenze a concessioni a soggetti idonei sotto il profilo tecnico e imprenditoriale, anche individuando uno o più soggetti quali concessionari unici di più enti pubblici.
Ma, per converso, si afferma perentoriamente,
l’ambito del concedibile viene […] ristretto alla realizzazione di opere ed eventualmente alla loro gestione nonché alla redazione dei relativi progetti esecutivi, nella ferma convinzione che non possa né debba essere concessa (soprattutto dal momento in cui si costituisce un nuovo soggetto istituzionale dotato di propri robusti supporti scientifici, tecnici e operativi), in blocco e per di più allo stesso soggetto concessionario della realizzazione delle opere, l’effettuazione degli studi e delle ricerche preliminari e la progettazione generale e di massima (cioè, di fatto, la pianificazione e la programmazione degli interventi e delle azioni).
La previsione, palesemente non disarticolabile nei suoi elementi (i quali, si dirà in un dibattito pubblico organizzato a Venezia per illustrare la proposta di legge, simul stabunt aut simul cadent), di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, e di riservare a essa la redazione e la definizione decisionale degli studi, delle ricerche, delle sperimentazioni, della pianificazione e della programmazione generale, della progettazione di massima degli interventi e delle opere, fu frontalmente respinta dai soggetti (istituzionali, politici ed economici) che avevano ottenuto, e sono riusciti fino ai giorni nostri a preservare, con le unghie e con i denti, la scelta, sancita legislativamente dai commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798, dell’affidamento in “concessione unica”, al Consorzio “Venezia Nuova”, di ogni competenza afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla realizzazione delle opere, riguardanti il riequilibrio idrogeologico della laguna di Venezia, l’arresto e l’inversione dei processi di degrado del bacino lagunare, la difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle “acque alte” eccezionali. “Concessione unica” in virtù della quale un consorzio di imprese di diritto privato è divenuto, grazie alle enormi risorse (erogategli dallo Stato) di cui poteva disporre, dominus pressoché incontrastato degli studi attinenti la laguna veneziana, della progettazione delle opere da effettuarsi in essa, del controllo della validità dei primi e della seconda, asservendo ai propri obiettivi e ai propri interessi gli organi decentrati (il Magistrato alle acque di Venezia) e quelli centrali delle amministrazioni statali.
Ma la previsione di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia fu, al momento della sua presentazione, fortemente criticata anche da molti esponenti e settori della sinistra, in particolare di quella radicale a ambientalista (nemica acerrima del Consorzio “Venezia Nuova”), in quanto “centralista”.
Per il vero, anche se la proposta di legge di Cederna per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare, il Parlamento nazionale, pochianni appresso, decise di superare radicalmente il sistema della “concessione unica”, dello Stato al Consorzio “Venezia Nuova”, stabilendo, con il comma 11 dell’articolo 12 della legge 24 dicembre 1993, n. 527, che
il Governo è delegato ad emanare, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, diretti a razionalizzare l’attuazione degli interventi per la salvaguardia della laguna di Venezia con l’osservanza dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) separare i soggetti incaricati della progettazione dai soggetti cui è affidata la realizzazione delle opere;
b) costituire, d’intesa tra lo Stato e la regione Veneto, ai fini della attività di studio, progettazione, coordinamento e controllo, una società per azioni con la partecipazione maggioritaria dello Stato nonché della regione Veneto, della provincia di Venezia ovvero della città metropolitana se costituita, dei comuni di Venezia e di Chioggia e di altri soggetti pubblici utilizzando a tal fine i finanziamenti recati da leggi speciali inerenti allo scopo;
c) conferire alla costituenda società i beni da individuare con provvedimenti delle competenti Amministrazioni, e ridefinire le concessioni di cui all’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798.
Nell’immediato il Governo (Ciampi) ottemperava alla volontà e al mandato del Parlamento, ed emanava il decreto legislativo 13 gennaio 1994, n. 62. Alle cui disposizioni più di un ministro avrebbe dovuto, conseguentemente, dare concreta attuazione, con propri atti. Cosa che i ministri interessati, facenti parte del Governo (Berlusconi) nel frattempo subentrato, si guardavano bene dal fare: senza, se vogliamo dirla tutta, essere richiamati a compiere il proprio dovere né dalla Regione Veneto (governata dal centrodestra), né dalla Provincia di Venezia (governata dal centrosinistra), né dal Comune di Venezia (governato dal centrosinistra), né dal Comune di Chioggia (governato prima dal centrodestra e poi dal centrosinistra).
Nel frattempo, peraltro, lo stesso Parlamento nazionale aveva espressamente abrogato, con il comma 1 dell’articolo 6-bis (aggiunto dalla legge di conversione) del decreto legge 29 marzo 1995, n. 96, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 31 maggio 1995, n. 206, il terzo e il quarto comma dell’articolo 3 della legge 798/1984, vale a dire le basi giuridiche legittimanti la stipula, dello Stato con il Consorzio “Venezia Nuova”, della “concessione unica”. Malauguratamente la solita lobby dei “concessionisti” era riuscita a ottenere che fosse contestualmente votato un comma 2 del medesimo succitato articolo, secondo il quale “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni” abrogate. Emerse che la convenzione generale stipulata, per conto dello Stato, dal Magistrato alle acque di Venezia, con il Consorzio “Venezia Nuova”, aveva latitudine tale da ricomprendere, praticamente, ogni e qualsiasi studio, ricerca, sperimentazione, intervento fosse ipotizzabile nella laguna di Venezia nei prossimi secoli. Anche se la cosa non è mai stata puntualmente verificata, e men che mai sottoposta al giudizio di un soggetto dotato dell’opportuna indipendenza e “terzietà”, è “su questi bei fondamenti” (come direbbe il Manzoni) che da quasi quattro anni, ormai, si sta realizzando, con ritmi di lavoro forsennato, l’insieme delle opere costituenti il cosiddetto Modello sperimentale elettromeccanico (Mo.S.E.), alterando gli equilibri idraulici lagunari, facendo scempio dei valori paesaggistici della laguna e dei litorali, distruggendo siti naturalistici di primaria importanza europea e mondiale, e via massacrando.5
Nel frattempo, pare che nell’ambito del comitato di studio per la revisione del decreto legislativo 152/2006, di cui s’è detto in conclusione del primo paragrafo di questo scritto, si stia facendo strada l’ipotesi di ricomprendere in un unico bacino idrografico, governato da un’unica autorità di bacino, l’intero bacino scolante nella laguna veneziana, nonché, ovviamente, la laguna medesima, i suoi litorali e il mare a essi latistante, affidando a tale autorità ogni funzione afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni preliminari, alla pianificazione generale del territorio attinente tutto quanto concerna la sua integrità fi sica, alla programmazione temporalizzata dei necessari interventi,alla progettazione di questi ultimi. A condizione, ovviamente, che fossero nel frattempo sospesi i lavori di realizzazione del Mo.S.E., sarebbe uno splendido omaggio alla lungimiranza di Antonio Cederna, nel decennale della sua morte.
Una seconda incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna per l’integrazione e il coordinamento della legislazione speciale per Venezia riguardava la pianificazione territoriale unitaria dell’entroterra e della laguna di Venezia. Tale pianificazione unitaria era stata già prevista dalla legge 16 aprile 1973, n. 171, e disciplinata dalla conseguente legge regionale 8 settembre 1974, n. 49, le quali, come si è dianzi accennato, avevano affidato la redazione e l’adozione di un “piano comprensoriale” (che avrebbe dovuto essere formato, e trovare vigenza, una tantum) a uno speciale Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, vale a dire a un soggetto pubblico “di secondo grado”, il cui organo decisionale, cioè, si prevedeva formato dall’assemblaggio dei rappresentanti degli enti territoriali (Comuni e Regione) interessati.
La relazione illustrativa della proposta di legge di Cederna rileva che
la debolezza intrinseca dell’organismo comprensoriale e il crollo verticale della cultura della pianificazione, avvenuto in tutto il Paese alla fine degli anni settanta, concorsero, assieme a irrisolte dinamiche di confronto politico, a non consentire che il piano comprensoriale (che comunque era stato redatto, e aveva notevolissimo valore culturale e tecnico), dopo aver conseguito un primo voto favorevole dell’organo competente, completasse il suo iter formativo.
La relazione prosegue:
occorre oggi prendere atto della mancata definizione dello speciale piano comprensoriale previsto dalla legge 171/1973, quasi tre lustri dopo la scadenza del termine previsto per tale adempimento. Ma anche del fatto che, nel frattempo, la legislazione urbanistica regionale ha definito ricche e articolate previsioni di strumenti di pianificazione territoriale sovracomunale (sia regionale che provinciale). E del fatto chela Regione Veneto è andata concretamente predisponendo strumenti di pianificazione territoriale, relativi sia all’intero territorio regionale che, specificamente, all’area veneziana. E soprattutto del fatto che la legge 8 giugno 1990, n. 142, ha sia attribuito funzioni proprie di pianificazione territoriale alle province, che previsto la costituzione, tra le città metropolitane, di quella di Venezia.
E conclude che
nella convinzione che sarà la città metropolitana di Venezia a rispondere, compiutamente, all’istanza […] di un governo unitario delle trasformazioni territoriali del sistema lagunare veneziano, ma anche nella consapevolezza dei tempi non brevi necessari all’avvio dell’operatività pianificatoria del nuovo ente territoriale, […] la presente proposta di legge stabilisce […] che il primo strumento di pianificazione territoriale, regionale, provinciale o metropolitano, che consideri unitariamente il territorio della laguna di Venezia e del suo entroterra e che giunga a vigenza, tenga luogo, a tutti gli effetti previsti, del piano comprensoriale di cui alla legge 171/1973.
La scarsa fiducia nel sollecito “avvio dell’operatività pianificatoria” dell’istituenda “città metropolitana” di Venezia doveva rivelarsi ben fondata, quand’anche eccessivamente ottimistica: la “città metropolitana” di Venezia, infatti, non soltanto non è mai divenuta operativa ma non è neppure stata costituita, come del resto tutte la altre previste “città metropolitane” d’Italia, e ciò a più di tre lustri dalla loro prima previsione, in una legge, quale la legge 142/1990, di rango immediatamente sub-costituzionale. A dimostrazione del fatto che nel Paese dell’incessante chiacchiericcio sulle “riforme istituzionali” e sulla “modernizzazione”, semmai accade che una legge delinei un’autentica riforma istituzionale modernizzatrice, semplicemente non le si dà attuazione, per non urtare la suscettibilità dei cacicchi, ovvero dei “nuovi sindaci” e dei “governatori regionali”.
Accadde peraltro che la Regione Veneto, in ottemperanza della sua allora vigente legge urbanistica regionale, la legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, e successive modificazioni e integrazioni,formò, tra la fine del 1986 e quella del 1999, sia il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) che tre “piani di area”, tra i quali il “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana” (P.A.L.A.V.), il cui ambito di applicazione era fi n dall’inizio del relativo iter formativo portato a coincidere con il territorio per il quale avrebbe dovuto essere definito il “piano comprensoriale” di cui si è trattato precedentemente. Per di più, nel corso di tale iter, veniva approvata la legge regionale 27 febbraio 1990, n. 17, la quale, così come modificata dall’articolo 2 della legge regionale 24 gennaio 1992, n. 8, con l’articolo 8, abrogava espressamente la legge regionale 49/1974, e, con il comma 4 dell’articolo 3, stabiliva che il “piano comprensoriale relativo al territorio di Venezia e al suo entroterra”, richiesto dalla legge 171/1973, fosse costituito dal “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana”, integrato dal “Piano per la prevenzione dell’inquinamento e il risanamento delle acque del bacino idrografico immediatamente sversante nella Laguna di Venezia”. Le efficacie dei “piani di area vigenti”, quali “parte integrante del piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC)”, sono state poi confermate dal comma 2 dell’articolo 48, recante le “Disposizioni transitorie”, della nuova legge urbanistica regionale veneta 23 aprile 2004, n. 11.
Si può quindi asserire che, seppure per vie impreviste, e un po’ tortuose, un’ipotesi avanzata da Antonio Cederna nella sua proposta di legge sia stata attuata.
Una terza incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna che si sta qui illustrando riguarda la pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici.
La relazione illustrativa rammenta che la legge 171/1973 e il conseguente decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791
hanno ribadito la subordinazione di quasi ogni intervento negli insediamenti storici lagunari ai piani particolareggiati, e, per molti versi, assunto l’impianto complesso e farraginoso di disciplina delle trasformazioni (e di attuazione velleitariamente pubblicistica e dirigistica delle stesse) configurato dallo strumentario urbanistico allora in corso di formazione,
e che, peraltro,
il sistema pianificatorio definito si rivela impercorribile […], paralizzante rispetto alla generalizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio storico, suscitatore di spinte a interpretazioni disinvolte delle norme in assenza di una pertinente disciplina. Tant’è che, con l’inizio degli anni ottanta, lo stesso Comune di Venezia avvia un lavoro di integrale ripianificazione (di tipo generale) di Venezia insulare. In tale lavoro, viene assunta la metodologia che sinteticamente può essere denominata di analisi morfologica dell’insediamento urbano e tipologica delle unità di spazio (edifici e scoperti) che lo compongono. [E] occorre sottolineare che lo strumento relativo alla città storica di Venezia, finalmente in corso di completamento in questi mesi, si presenta ricco di affinamenti e innovazioni di grande valore, anche rispetto alle precedenti esperienze pianificatorie fondate sulla stessa metodologia.
Conseguentemente, conclude la relazione,
si reputa necessario che la nuova metodologia pianificatoria assunta dal Comune di Venezia trovi supporto anche nella legislazione speciale statuale, e comunque indispensabile che non possa in nessun caso trovare in essa ostacolo.
Occorre fare presente che la variante generale al piano regolatore per la città storica di Venezia, a cui Cederna alludeva nella relazione alla sua proposta di legge, e che aveva appassionatamente illustrato, come in seguito appassionatamente difenderà, in molteplici articoli su diversi organi di stampa, era stata in effetti messa a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della “giunta rossoverde” diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), essendo quasi al termine il mandato del consiglio comunale in carica. Lo strumento fu peraltro adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta, che oggi definiremmo di centrodestra, diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno). Per essere successivamente “disadottato”, e quindi riadottato, in una versione pesantemente manipolatrice non tanto dei suoi aspetti quantitativi, cioè dell’ingentissima mole delle sue cartografi e analitiche e classificatorie, e delle suepuntualissime prescrizioni normative, quanto in alcuni elementi cardine della sua ingegneria ed efficacia precettiva, alla fine del 1996 (all’epoca della giunta “progressista” diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino). L’esito di quest’ultimo strumento urbanistico, e della sua alquanto disinvolta gestione, è sotto gli occhi di chiunque voglia realmente “vedere” la città storica di Venezia: una squallida, degradata, volgare, tragica maschera imbellettata di sé stessa, con la residenza stabile dilagantemente ed enormemente erosa dal proliferare non soltanto di alberghi, quanto, soprattutto, di affittacamere e di (sedicenti) bed & breakfast, tutt’altro che una “città-museo” (espressione che, se usata per indicare un destino da combattere, faceva inferocire Cederna, e ben a ragione: il “museo”, alla fin fine, è “il luogo delle Muse”!) ma, piuttosto, una Disneyland di quart’ordine.
Come non è stato possibile neppure accennare alle disposizioni di dettaglio della proposta di legge afferenti alla pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici e al controllo delle trasformazioni dei relativi immobili, così non è possibile neppure accennare a tutte le altre puntuali disposizioni, meno innovative di quelle che, in quanto tali, sono state sinora, seppure sinteticamente, esposte, ma non per questo di scarso rilievo, con le quali la proposta di legge si prefiggeva di perseguire il complesso degli obiettivi indicati all’inizio della relazione illustrativa, e riportati all’inizio di questo paragrafo. Si confida, ciononostante, di avere raggiunto almeno lo scopo di arricchire, di un po’, la conoscenza del pensiero e dell’azione di Antonio Cederna nell’assolvimento di uno dei non pochi ruoli che ricoprì nel corso di una vita tutta improntata dall’essere una “persona civile” per la quale con “i vandali odierni nessun compromesso è possibile”, dall’intransigenza (innanzitutto con sé stessi) praticata come serietà, rigore, precisione, rifiuto della superficialità e della sciatteria, ma anche come “forte posizione moralistica” (sono ancora parole sue): perché, aggiungeva con amara ironia, “in un Paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.
Note
1 Si veda, da ultimo, il contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, con relativa bibliografia.
2 Per quel che riguarda la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori e dell’Appia antica, oltre al contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, si veda anche V. De Lucia, Antonio Cederna, le sue idee contro l’urbanistica fascista, in “Liberazione”, 21 settembre 2006 (e in http://eddyburg. it/article/articleview/7357/0/250/), e soprattutto Mauro Baioni, “Mussolini urbanista” e il pensiero di Cederna, postfazione al libro di A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006. In estrema sintesi, si può concludere con le parole di De Lucia: “abbiamo verificato che l’idea di Cederna è sparita dall’orizzonte della città”. Per quel che riguarda “il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie”, si possono ricordare le parole di Filippo Ciccone, Quale medico propose la Cura del ferro? (intervento pubblicato in http://eddyburg.it/article/ articleview/7226/0/39/): “l’esperienza romana di cura del ferro è ben poca cosa: ferma l’evoluzione del Nodo Fs, ferme nella sostanza le metropolitane (ci si avvia a realizzare record al contrario già noti alla città: 25 anni per fare quattro miseri e brutti chilometri di linea A). E, con la copertura del ‘pianificar facendo’, qualche altro milione di metri cubi è stato realizzato ben distante da qualsiasi linea su ferro”.
Quanto al Sistema direzionale orientale, esso, come afferma De Lucia nel suo articolo sopra citato, “è stato silenziosamente cancellato” e, soggiunge, “non sono riuscito a capire che cosa lo ha sostituito”.
3 Si trattava di: la legge 16 aprile 1973, n. 171, recante “Interventi per la salvaguardia di Venezia”; il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791, relativo a “Interventi di restauro e risanamento conservativo in Venezia insulare, nelle isole della laguna e nel centro storico di Chioggia” (emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 962, recante “Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque” (anch’esso emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 1186, recante “Adeguamento dell’organico del Magistrato alle acque di Venezia e delle soprintendenze alle antichità e belle arti delle province venete” (parimenti emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); la legge 5 agosto 1975, n. 404, recante “Norme per l’indizione del bando dell’appalto concorso internazionale per la conservazione dell’equilibrio idro-geologico della laguna di Venezia e per l’abbattimento delle acque alte nei centri storici”; il decreto legge 11 gennaio 1980, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 10 marzo 1980, n. 56, recante “Studio delle soluzioni tecniche da adottare per la riduzione delle acque alte nella laguna veneta”; la legge 29 novembre 1984, n. 798, recante “Nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia”.
4 Per citarne alcuni, oltre all’autore di queste righe: Antonio Casellati, primo assessore all’ecologia del Comune di Venezia (e d’Italia), tra il 1971 e il 1973, poi presidente della sezione veneziana di “Italia Nostra” e successivamente, dimessosi da quest’ultima carica, del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, soggetto deputato a redigere e ad adottare la “ripianificazione” dell’area, e, dall’inizio del 1988 ai primi mesi del 1990, Sindaco di Venezia, con la cosiddetta Giunta “rosso-verde”; Edoardo Salzano, dal 1975 al 1985 assessore all’urbanistica del Comune di Venezia, e poi, per un ulteriore quinquennio, consigliere comunale di Venezia e regionale del Veneto; Vezio De Lucia, dal 1977 al 1980 Segretario del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia.
5 Per un’ampia rassegna in merito al progetto del Mo.S.E. si può consultare la sezione del sito eddyburg all’indirizzo: http://eddyburg.it/article/archive/ 178/.