Occorre una buona dose di immaginazione per far credere di fondare una città tra Verona e Mantova, nominarla «Vema» e pensare che lì possano andare a vivere trentamila persone. Tra quelle due città, dove ancora l'agricoltura convive con un'industria aspramente ristrutturata, chi lì investe i proventi delle sue attività imprenditoriali nella rendita immobiliare, lo fa senza troppa enfasi e «Vema» sarebbe considerata semplicemente un'estesa lottizzazione. Purtroppo una parte della cultura architettonica italiana sembra preferire questi mezzi per affermare la sua vitalità, quando non è in difesa e grida sui giornali allo scandalo per i troppi incarichi assegnati agli architetti d'oltralpe o all'attacco del ministro Bersani per opporsi alla concorrenzialità dei loro servizi professionali.
Di «speranze progettuali» se ne producono molte, ogni giorno di inutili, e passerebbe inosservata anche quest'ultima se a promuoverla non fossero il ministero dei beni per le attività culturali, attraverso il Darc, la Direzione generale per le arti e l'architettura contemporanee, e la Biennale di Venezia che espone in una parte dell'Arsenale questo anacronistico quanto sterile esercizio accademico. Un'operazione vuota di significato che però contribuisce ad avvalorare la tesi che si può fare a meno di tutta la cultura urbanistica che fino ad oggi è stata prodotta per assegnare all'opera di un architetto-fondatore la costruzione in vitro di un luogo-modello per il nostro abitare prescindendo da qualsivoglia fattibilità sia tecnica sia economica. Nessun interesse ha la storia della città che può essere facilmente sintetizzata e svolgersi in schemi planimetrici sulla lunga parete davanti al plastico e agli stands dei giovani architetti selezionati per elaborare ognuno una porzione o funzione di «Vema». Dalla città futurista di Sant'Elia a quella «analoga» di Rossi, dalle «città nuove» del fascismo a quella megastrutturale del gruppo romano Metamorph (1963), dagli insediamenti dell'edilizia popolare del dopoguerra alle prove dell'urbanistica razionalista, la storia si riduce ecletticamente a un inventario indifferente di figure e modelli oppure a evocazione mitica, come nel caso della celebrazione del centenario del «Gruppo 7» da far coincidere tra vent'anni con l'esecuzione di «Vema». Tutto a un tratto è come se fossero transitate invano in questo mondo figure come Piccinato o Astengo, Michelucci o Rogers, evaporate nel nulla le indagini storico-critiche sulla metropoli compiute proprio nell'università del capoluogo lagunare da Tafuri, Cacciari, Manieri-Elia, Dal Co, in una stagione felicissima di studi intorno il pensiero filosofico e sociologico di Benjamin, Simmel, Sombart, Endell. Insomma sembra che il progetto urbanistico, fatto di riflessioni, studi, analisi, redatte per i numerosi piani regolatori delle più importanti città italiane, da Campos Venuti, Secchi, Indovina, Benevolo, non sia mai esistito, che la storia urbana e urbanistica del nostro paese si sia occultata, suggestionati dalle parodie del moderno, per dare spazio allo shock mediatico della città-ideale.
Eppure ci aveva già avvertito alla fine degli anni trenta Lewis Mumford che la «salvezza» delle nostre città risiede, allora come oggi, nello «spalancare un nuovo campo di vita e di attività nelle stesse aree metropolitane» e non di «progettare unità chiuse» perché è un «compito senza speranze di riuscita». Invece di riflettere per dare soluzioni immediate agli errori causati da programmi urbanistici sbagliati che hanno prodotto periferie con tipologie edilizie banali, scarne di funzioni sociali e assenti di ogni interesse estetico, c'è chi preferisce allontanarsi dalla città pensando di ricreare dall'origine le condizioni di un abitare migliore, più idoneo di quello prodotto anche dalle più recenti generazioni di piani urbanistici. Del quartiere «Lunetta» a Mantova o delle aree di Verona-sud è bene che se ne occupino gli assessorati per riqualificarli, nei casi di più alto disagio sociale, l'assistenza pubblica, se c'è qualche possibilità di profitto il mercato. Per i giovani gruppi di architetti italiani scelti da Purini per progettare «Vema» - di alcuni ne seguiremo con interesse il percorso - l'architettura non ha necessità di confrontarsi con un programma e un committente, se non con l'autoreferenzialità di un tema, non possiede finalità di risultato, né intende misurarsi con la società e la storia: è «architettura per l'architettura» per usare una definizione di Ernesto N. Rogers e come tale «non ha senso, come non ha senso nessuna azione umana che si chiude in una tautologia».
Cos'è restato del progetto di Aldo Rossi per l'area mantovana di «Fiera Catena» e di quelli dei partecipanti al concorso internazionale del 1982? In una delle poche aree pregiate della città è stata edificata una «insensata» lottizzazione eseguita pragmaticamente da alcune società immobiliari a dispetto dell'architettura e delle sue scuole. Forse, sarebbe stato utile in quegli anni avere investito meno in poetica e un po' di più nel mestiere. Oggi non assisteremo a questo mediocre spettacolo sul Mincio. Conosciamo bene il paesaggio agrario industrializzato e i centri minori che si dispiegano lì dove «Vema» si vuole fondare e non possiamo che augurarci che la riflessione degli architetti si orienti, dopo la kermesse veneziana, alle questioni urgenti di quei luoghi evitando le inutili e ambigue prove di estetizzazione che già omologano e pervadono le città e il territorio.
L'immagine è di Giuseppe Scalarini: "Un braccio per dare, cento per prendere". Ecco una biografia del mantovano Scalarini