Frank Wilkinson, scomparso a Los Angeles la scorsa settimana all’età di 91 anni, fu il protagonista di una vicenda fondamentale, pur se meno nota, della stagione delle epurazioni maccartiste in California e la persona che forse più di ogni altra contribuì al successivo scioglimento dei tribunali di inquisizione sulle attività “antiamericane”.
Wilkinson era nato e cresciuto a Beverly Hills, in una famiglia agiata al punto di permettergli in gioventù, come disse, di ignorare la stessa esistenza della depressione economica che attanagliava il paese. Alla fine degli studi in scuole private il giovane Wilkinson, profondamente religioso, si reca in Terrasanta per perseguire la vocazione che avrebbe dovuto portarlo all’ordinazione come pastore metodista. Ma la rivelazione che lo colpisce durante il soggiorno in Palestina e in Nord Africa è invece quella della povertà profonda in cui versa tanta umanità all’ombra dei luoghi sacri a cristianesimo, islam e giudaismo. Una crisi di fede che lo vede rientrare in patria agnostico convinto, lo spinge al volontariato nei ghetti urbani della Los Angeles nera e chicana e ad interessarsi di conseguenza della riforma urbanistica ñ che in quegli anni di urbanizzazione accelerata si andava sviluppando come terreno di intenso scontro ideologico.
Col National Housing Act del 1934 l’amministrazione di Roosevelt istituisce la Federal Housing Administration, una sorta di ministero per la casa preposto alla regolazione degli affari edili della nazione e inizialmente a far fronte alla disperata situazione determinata dalla depressione. Alla concezione dello sviluppo pianificato si oppone quella, prevalentemente repubblicana, che vede l’urbanizzazione come dominio naturale degli interessi di mercato. » uno scontro senza quartiere con il Nareb (National Association of Real Estate Brokers), ricca e potente lobby degli agenti immobiliari, ripetutamente all’attacco delle iniziative di urbanistica progressista del New Deal, definite “esperimenti socialisti”, e delle case popolari, “fattorie comuniste”. Un terreno su cui si gioca la forma che prenderanno nei decenni a venire le metropoli americane.
Diecimila villini monofamiliari
Sono gli anni in cui sotto l’impulso demografico dei veterani di ritorno dalla guerra vengono edificate le prime “suburbie” in serie, periferie replicanti come le Levittown del costruttore Abraham Levitt: comprensori da 10.000 villini monofamiliari edificati a catena di montaggio fordista che sono speculazioni commerciali e al contempo progetti ideologici di american dream: il concetto del modello suburbano come espressione di “americanismo” ricorre nel dibattito politico e sulla stampa dell’epoca. Elizabeth Gordon sulla rivista femminile House Beautiful spiegava alle lettrici che la “moderna casa famigliare” era un antidoto naturale al comunismo; lo stesso Levitt, il “padre” di suburbia, dichiarava: “nessun uomo che possieda una casa e un giardino potrà mai essere un comunista”. O almeno non sarebbero potuti diventarlo gli uomini bianchi cui l’accesso a Levittown era riservato.
La suburbia che nasce in quegli anni è anche un progetto sociale; le periferie istantanee per la middle class, rimosse dai centri urbani, favoriscono la polarizzazione sociale e razziale che col white flight , la “fuga” dei ceti medi bianchi dai quartieri misti, avrebbe nei successivi 50 anni dato ai centri urbani americani la caratteristica struttura con un nucleo “di colore” circondato da bianche periferie concentriche formate da villini rigorosamente unifamiliari. La “densità” urbana ñ e quindi anche i servizi e le infrastrutture che ne conseguono, come reti efficienti di trasporto pubblico ñ diventano anatema nell’analisi liberista proposta dall’industria edilizia. Era solo e unicamente la casa per famiglia individuale (single family home) ad incarnare idoneamente i concetti di libertà individuale e proprietà privata su cui la nazione era fondata. Lo avrebbe spiegato qualche anno dopo a Nikita Krusciov il vicepresidente Nixon nel famoso battibecco della fiera di Mosca: “Per noi la cosa più importante è la varietà, il diritto di scegliere, il fatto di avere mille costruttori che costruiscono mille modelli diversi di case. Non abbiamo un governo che decide dall’alto, questa è la differenza”.
Alla fine degli anni ‘40 ci sono però ancora dei bagliori di politica rooseveltiana che favoriscono la progettazione socialmente responsabile: nel 1949 l’amministrazione Truman vara il Housing Act, il cui preambolo dichiara che “ogni americano ha diritto ad una abitazione adeguata”. Nello stesso periodo, a Los Angeles, Frank Wilkinson, all’età di 28 anni, diventa responsabile della Housing Authority preposta alla “riabilitazione urbana”. La sua concezione è di bonificare i ghetti neri e ispanici sempre più segregati della inner city e il suo primo intervento è ambizioso: la costruzione di un quartiere popolare per 7.000 abitanti composto di edifici organizzati attorno a servizi, trasporti e parchi pubblici su una collina nei pressi del centro, la cui progettazione affida al maestro modernista Richard Neutra, per un modello esemplare di urbanistica illuminata.
Il progetto “Chavez Ravine” è controverso per la presenza sul sito prescelto di una comunità messicana, un quartiere abusivo autogestito da diverse generazioni all’ombra dei grattacieli del centro. La comunità dovrà essere sacrificata, ma nell’opinione di Wilkinson ciò è per il maggior bene; tutte le famiglie rimosse saranno risistemate nel nuovo moderno quartiere che, in una città profondamente segregata, sarà socialmente ed etnicamente integrato.
Coalizione di costruttori
L’opposizione al progetto viene subito coordinata dal Committee Against Socialist Housing, una coalizione di costruttori, padroni affittuari e grandi interessi edili che gode del notevole supporto dei corsivisti del Los Angeles Times. L’”anticomunismo edile” non è una novità: già nel 1948 le housing hearings, i dibattimenti parlamentari sulla casa indetti a Washington furono dominate nientemeno che dal senatore Joseph McCarthy che le affrontò con lo stile che avrebbe di lì a poco applicato alla caccia ai comunisti del Dipartimento di stato e di Hollywood.
Alleato con Herbert U. Nelson, presidente della Nareb,McCarthy riuscì ad affossare la proposta di legge (decreto Taft-Ellender- Wagner) che avrebbe dovuto stanziare fondi pubblici per incentivare la progettazione urbanistica. » così che nel dibattito in corso a Los Angeles sul progetto “Chavez Ravine” l’attenzione si sposta d’improvviso sui “moventi” di Wilkinson, che in una seduta pubblica del consiglio municipale per l’edilizia viene invitato ad elencare le organizzazioni politiche cui appartiene. Il rifiuto sdegnato di rispondere porta al suo licenziamento dall’authority e poi a una serie di convocazioni da parte della Huac (House Unamerican Activities Commission) di Mc Carthy fino a quella nel 1958 che lo condannò a nove mesi di reclusione per essersi rifiutato di collaborare, pena confermata in appello dalla Corte suprema per 5 voti contro 4. Malgrado il movimento in suo sostegno, Wilkinson sconta in un penitenziario federale una delle pene più lunghe inflitte durante la caccia alle streghe.
Al rilascio, la carriera di Wilkinson è finita. Lavora per un periodo come guardiano notturno per un’azienda di Pasadena che lo assume segretamente per evitare ripercussioni. Il progetto di “Chavez Ravine” viene archiviato, anche se il quartiere popolare viene effettivamente demolito dalle ruspe, i baraccati trasferiti di forza e il terreno adibito alla costruzione dello stadio di baseball preteso da Walter OíMalley, padrone dei Brooklyn Dodgers, per trasferire la squadra da Brooklyn a Los Angeles.
McCarthy, all’apice dell’influenza, passa all’attacco dell’industria culturale di Hollywood ma non solo: nel mirino della Huac ci sono intellettuali, progressisti, sindacalisti, insegnanti; fra questi ultimi, epurati con particolare dovizia, anche Jean Wilkinson, la moglie di Frank.
Wilkinson non si occuperà mai più di architettura e politica urbana ma si consacrerà invece alla battaglia per i diritti civili imbastendo una serie di cause per la propria riabilitazione, organizzando, con la Aclu (American Civil Liberties Union) un comitato di difesa dei testimoni convocati dai tribunali di McCarthy ed in seguito costituendo il comitato per l’abolizione del Huac. Nel corso del suo contenzioso trentennale col governo scoprirà l’esistenza sul suo conto di un dossier del Fbi di 132.000 pagine frutto della sorveglianza Cointelpro (il programma di diffamazione con cui il bureau mirava a destabilizzare “sovversivi” come Martin Luther King e le Pantere nere) che rivela che la trasmissione al capo della polizia di Los Angeles degli atti serviti a “neutralizzarlo “ era stata ordinata dallo stesso J. Edgar Hoover.
Il baricentro si sposta in periferia
La sua lotta avrà esito nel 1975, quando la Huac verrà infine sciolta. Ma nell’urbanistica americana si è intanto determinata un’inversione epocale di rotta: se per cinquant’anni lo sviluppo era avvenuto nei grossi centri urbani, come ha scritto Dolores Hayden, i prossimi decenni avrebbero spostato il baricentro dell’edificazione in periferia, non più cioè verso lo sviluppo di quartieri e città ma verso la moltiplicazione di contigui comprensori. Una privatizzazione dello spazio urbano che avviene a scapito dei servizi pubblici e a netto favore del complesso edil-industriale, fatto di megacostruttori e di una gigantesca industria del legno che tuttora gestisce lo sviluppo. Secondo il progetto dell’industria viene definitivamente eclissato il concetto di casa come diritto civile a favore di quello che ne fa una “comodità “, oggetto di consumo di massa e proprietà, disegnando con le città americane, salvo poche eccezioni, una geografia del capitalismo avanzato fatta di villini, automobili e shopping center.
Nota: quello trattato qui da Luca Celada è un tema molto presente in questo sito, e nel parallelo Eddyburg, su cui ho inserito per esempio a suo tempo sia le recensioni a Dolores Haydenche uno studio contemporaneo sul caso di Levittown (f.b.)