loader
menu
© 2024 Eddyburg
Andrew Ruth; Simms Petra; Potts Kjell
La Morte della Diversità
17 Giugno 2005
Il territorio del commercio
Cielo di piombo: l'impresa multinazionale su vie commerciali, culture, società. Uno dei casi peggiori: l'Italia di Berlusconi. Studio del britannico New Economics Forum, maggio 2005 (f.b.)

Andrew Simms, Petra Kjell, Ruth Potts, Clone Town Britain. The survey result on the bland state of the Nation, New Economics Forum, Londra 2005; Estratti e traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

[...] La morte della diversità

L’entusiasmo palpabile dei consumatori che aveva salutato la prima ondata delle grandi catene americane come Gap, Starbucks e di quelle britanniche, è stato sostituito da un vago malessere che assomiglia molto alla noia. Perchè?

Sembravano esotici all’inizi, e promettevano varietà, ma ci hanno dato invece una costante uniformità caffelatte. E con la crescente concentrazione della proprietà sui mercati, hanno reso difficile prendere piede a soggetti più piccoli e diversi. La banalità ha messo radici, come un parente dall’estero invitato a restare perché la sua estraneità sembrava interessante, prima di scoprire che è noioso e non se ne vuole andare.

Ma l’ identikit della cultura commerciale ha anche un lato oscuro. La morte della diversità mina le basi della democrazia, attacca il nostro senso dei luoghi e appartenenza, e conseguente benessere. Consegna il potere a una inaffidabile élite di imprese; e infine, fa a pezzi il ricco intreccio di sistemi naturali sui quali dipende la nostra sopravvivenza ed economia.

“La diversità dei fenomeni in natura è tanto grande” scriveva l’astronomo, matematico e astrologo tedesco Giovanni Keplero nel sedicesimo secolo “e i tesori nascosti nei cieli tanto ricchi, proprio perché alla mente umana non manchi mai nuovo nutrimento”.

Ora questo scivolare dentro l’uniformità di impresa, lubrificata dalla domanda logistica della globalizzazione economica, sta togliendo nutrimento alla mente umana, esattamente come le catene di pollo e hamburger l’hanno tolto al nostro cibo.

Per secoli gli scienziati e poeti e filosofi hanno compreso l’importanza della diversità nel mantenere ecosistemi sani e stabili. Un habitat diversificato produce equilibrio. Cosa più importante, consente alle specie di essere adattabili al cambiamento. Come afferma la scrittrice e biologa Barbara Kingsolver, “Alla radice di tutto, sostiene Darwin, c’è la meraviglia delle meraviglie, la diversità genetica. Non sei come tua sorella, una scatola di cuccioli è una piccola Rainbow Coalition, e ogni chicco di grano in un campo contiene nel suo germe un destino lievemente separato ... la diversità genetica, nelle popolazioni civili come in quelle selvagge, è l’unica polizza assicurativa naturale”.

Ma c’è anche un forte parallelismo fra la diversità genetica del mondo naturale e quella del mondo commerciale nelle nostre vie. Là dove la perdita di diversità genetica minaccia la sopravvivenza delle specie e rende gli ecosistemi naturali vulnerabili al collasso, le città-clone mettono in pericolo la sopravvivenza locale, diminuendo la resilienza delle strade commerciali ai cicli economici negativi, e restringendo la scelta del consumatore.

I paralleli fra sistemi ecologici ed economici sono stati esplorati dall’eminenza grigia degli attivisti comunitari americani, Jane Jacobs. In The Nature of Economies sostiene che è il grado di diversità a determinare il tipo di benefici che rimangono. Si tratti del dopo soleggiamento o pioggia nel caso degli ecosistemi, o di quando viene speso denaro nelle economie locali, “La connessione pratica fra sviluppo economico ed espansione economica è la diversità economica”. Ma la diversità è, esattamente, ciò che si va perdendo sia negli Stati Uniti, sia attraverso l’esportazione dei loro modelli commerciali nel Regno Unito.

Facciamo un esempio. Circa quarant’anni fa Wal-Mart era un emporio gestito da una sola persona, ora è un vasto marchio globale con oltre 100 milioni di clienti la settimana, 4.000 negozi in tutto il mondo e un nuovo punto vendita Wal-Mart che si apre da qualche parte ogni tre giorni. Oltre a Messico, Brasile, Argentina, Canada, Puerto Rico, Cina e Indonesia, ora è saldamente radicato in Europa, specialmente in Germania e nel Regno Unito, dove ha acquisito la catena di supermercati Asda nel 1999.

La politica di Wal-Mart degli insediamenti extraurbani, e del commercio “ ammucchialo alto e vendilo a buon mercato” è l’equivalente economico di un bombardamento a tappeto dell’economia locale. Secondo uno studio USA, “Nei dieci anni dopo che Wal-Mart è entrato nello Iowa, lo stato ha perso oltre 555 grocery stores, 298 ferramenta, 293 negozi di materiali edili, 161 negozi a prezzi scontati, 158 di abbigliamento femminile, 153 di calzature, 116 drug stores e 111 negozi di abbigliamento per bambini. In totale sono fallite 7.326 attività”.

In Gran Bretagna, supermarket come Tesco si prendono una quota sempre crescente del carrello della spesa nazionale, con quasi 2.000 negozi e, alla fine del 2004, quasi il 30% del settore supermercati. Secondo un rapporto scritto nel febbraio 2005 per la Association of Convenience Stores da Alan Hallsworth dell’Università del Surrey,”Al momento Tesco apre un Express store ogni giorno lavorativo”. Mentre loro si espandono, i piccoli negozi di generi alimentari chiudono al ritmo di uno al giorno, e quelli specializzati, come macellai, panettieri e pescherie, presi nell’insieme hanno chiuso i battenti al ritmo di 50 alla settimana fra il 1997 e il 2002.

Tendenze come queste non sono comunque solo un attacco alle piccole attività, minacciano anche le possibilità di scelta e la diversità. Tesco sta documentatamente seguendo il percorso di Wal-Mart per quanto riguarda l’influenza sulla carta stampata. Negli USA, Wal-Mart censura attivamente le pubblicazioni. Nel Regno Unito, The Observer ha riferito recentemente i timori dell’editore, riguardo alla distribuzione dei periodici (norme in vigore dal 1 maggio 2005) che si tradurrà nello “inevitabile” controllo dei contenuti editoriali. Già ora attori importanti nella vendita dei giornali, i supermercati hanno messo un occhio sul settore della distribuzione indipendente attraverso i propri formati “ Local”, “ Metro”, e “ Express”. Là dove i distributori locali indipendenti normalmente offrono una massiccia gamma di titoli, i grossi operatori si concentrano massicciamente solo sui primi 100 titoli di maggior circolazione per aumentare al massimo i profitti. Lo stesso si può dire per la vendita di CD e DVD. Dunque, non solo si riduce la varietà di negozi presente in queste zone, si riduce anche la scelta di merci disponibili.

Ian Locks, direttore della Periodical Publishers Association, ritiene che le nuove norme per la distribuzione dei periodici in favore dei supermercati possano mettere fuori mercato 12.000 piccoli operatori.

La Tesco è già stata criticata in Scozia perchè “centralizza la cultura, evitando di offrire le testate popolari scozzesi nei punti vendita più piccoli delle città”, secondo il giornale scozzese Sunday Herald. Nonostante la distribuzione abbia una “lista regionale” che comprende 33 titoli, “solo una manciata” sono stati effettivamente trovati sugli scaffali.

La perdita di diversità si costruisce anche nel tessuto edilizio. Il giornalista di architettura Jonathan Glancey ha recentemente lamentato che “I punti vendita Tesco si stanno moltiplicando come conigli incellophanati. Una volta c’era una chiesa in ogni villaggio, cittadina o città, adesso abbiamo Tesco coi suoi Extra, Metro e Express”.Ma le chiese offrono considerevole varietà architettonica, e lo English Heritage è rimasto costernato dall’impatto sull’edilizia delle vie commerciali, man mano i supermercati impongono le forme standardizzate adatte ai loro rigidi modelli di impresa. Si strappano via finestre e pareti per far posto a scaffalature e cartelli.

L’omogeneizzazione di high-street è solo un delle manifestazioni della marcia verso l’uniformità culturale. Un’intera generazione è cresciuta negli anni ’70 e ’80 con lo spettro delle minacciose economie a pianificazione statale centralizzata est-europee. Ora quella stessa generazione si sveglia scoprendo che esse sono state sostituite da egualmente minacciose e centralizzate corporations.

L’ansia riguardo alla omogeneizzazione sociale non è nuova, e può sembrare spiacevolmente elitaria. T.S. Eliot e Ezra Pound lamentavano che la cultura di massa corrompeva le spinte dell’Illuminismo. La minaccia del totalitarismo trionfante su una popolazione dai sensi ottusi, permea gli scritti di Wells, Huxley, e Orwell.

Dunque, quali sono le differenze rispetto alle paure contemporanee? È una questione di dimensioni, e di portata. Viviamo in un momento della storia in cui il potere, concentrazione, diffusione internazionale delle grandi imprese rende la resistenza ai sistemi di mercato dominanti tanto ardua, che farebbe disperare anche il più cinico dei critici del secolo scorso. Nel 2001, la British Booksellers’ Association ha riportato che di fronte al potere delle grandi catene, più di una su dieci delle librerie indipendenti della Gran Bretagna aveva chiuso nei cinque anni precedenti. Negli Stati Uniti, la American Booksellers’ Association si è tanto allarmata per il potere delle grandi catene da intentare nel 1998 una causa legale contro Barnes & Noble e Borders. Uno dei denuncianti, Clark Kepler, proprietario della Kepler’s Books & Magazines, ha dichiarato: “Questa lotta riguarda ciò che l’America può leggere. Una rete di sane librerie indipendenti stimola gli editori a produrre letteratura diversificata e ad assumersi rischi con gli autori che sono di minor attrattiva commerciale ma di maggior spessore critico”.

Queste tensioni arrivano sino ai media globali. Da quando è stata approvata una discussa fusione nel luglio 2004, circa l’80% del mercato musicale globale è di proprietà di sole quattro compagnie: Universal, EMI, Warner Music e il nuovo agglomerato Sony BMG. La Universal e Sony BMG ora sono le maggior imprese del settore musicale al mondo, con una quota di circa il 25% del mercato ciascuna. Ma anche questo non da l’idea del loro potere di strozzamento culturale: Sony BMG è di proprietà del gigante dei media Bertelsmann, la Universal dell’altro mastodonte Vivendi.

[...]

E poi c’è la diversità di opinioni che scorre nell’etere. Cinque corporations controllano il 90% delle notizie negli Stati Uniti. Mark Cooper, direttore di ricerca della Consumer Federation of America dice, “Il settori informazione vengono ridotti, e i programmi culturalmente diversi e di servizio pubblico messi sotto pressione. La programmazione meno seguita scompare e i giornalisti sono valutati nella logica del profitto di impresa di queste enormi organizzazioni”. Un documento dell’agenzia pubblicitaria della Coca-Cola mostra quanto l’influenza può essere diretta:“La Coca-Cola Company richiede che tutte le inserzioni vengano collocate vicino a editoriali connessi alle strategie dei marchi di impresa ... Consideriamo inadeguati i seguenti soggetti: notizie forti, sesso, dieta, problemi politici, questioni ambientali … Se non è disponibile un collocamento adeguato, ci riserviamo il diritto di ritirare la nostra inserzione da quel numero”.

C’è anche una crescente proprietà incrociata a livello internazionale. La News International Corporation di Rupert Murdoch, per esempio, pubblica 175 giornali i sei paesi, e possiede circa 800 compagnie nel mondo che comprendono canali televisivi terrestri e digitali, reti di informazione, quotidiani, riviste, grandi editori di libri come HarperCollins, compagnie cinematografiche, squadre sportive, editori musicali. Nell’Italia di Silvio Berlusconi, il Primo Ministro è proprietario di una delle imprese di comunicazione più grandi d’Europa, Mediaset, e controlla il 90% delle televisione. Un italiano medio può passare un sabato a far la spesa al suo supermercato locale, rilassandosi a casa, leggendo un giornale, girando per i canali televisivi a guardare una partita del Milan Calcio, ed è la stessa enorme impresa ad aver offerto tutti questi beni e servizi.

Le caratteristiche distintive dei media globalizzati non sono quelle di servire come finestra aperta sulla diversità, piuttosto di fungere da condotto di comunicazione per programmi a formula fissa clonati come Pop Idol, Big Brother o The Weakest Link, che vengono pompati verso i tinelli di tutto il mondo, senza alcun riguardo per l’impatto culturale o la decenza.

Ciascun linguaggio esprime un’intera cultura, e da’ corpo a un modo unico di vedere e capire il mondo che gli sta attorno. Uno degli effetti collaterali della concentrazione dei media, e specialmente il dominio globale di quelli di lingua inglese, è l’estinzione delle lingue vive, e della loro capacità unica di interpretazione. Quasi la metà delle 6.000 lingue del mondo potrebbero scomparire nei prossimi 100 anni secondo l’UNESCO. E delle 3.000 che si prevede sopravvivano sino ad allora, quasi la metà non reggerà ancora molto. Non è una coincidenza, il fatto che i luoghi con la maggior diversità culturale siano anche quelli con la più alta biodiversità. Nello stesso modo in ci la foresta amazzonica brasiliana contiene i segreti per la cura delle malattie umane, essa è casa delle culture che ne possiedono la chiave. Dal 1900, ogni anno in Brasile scompare una tribù indigena.

La diversità è sottoposta ad attacco anche quando ci guardiamo nello specchio. Una delle forme più diffuse di operazione di chirurgia plastica per le donne, in Giappone, è di farsi “allargare” gli occhi, a sembrare “più Ocidentali”. In alcune zone dell’Asia orientale fra i prodotti più popolari ci sono creme per la pelle schiarenti, che consentono anche alle asiatiche dall’incarnato più scuro di apparire “più Occidentali”. Nelle Filippine, la televisione pubblicizza anche spille da naso che possono essere inserite in una narice per conferire al naso una forma più europea.

Il motivo per cui tante cose simili non vengono notate è che i “ corpocrati” globali che decidono dove possiamo far spesa, cosa dobbiamo comprare, leggere, ascoltare, sono anch’essi intrappolati dentro quegli orribili stili di vita. Si incontrano dentro a stanze identiche dalle pareti di vetro nei quartieri generali delle imprese, e viaggiano in prima o business class sui voli internazionali. Leggono gli stessi giornali internazionali, guardano la stessa televisione globalizzata e stanno dentro a identiche suites di albergo. Perché l’impresa globale possa essere gestita, il management deve vivere la globalizzazione: creare per il tecnocrate di gestione una realtà virtuale clonata, staccata dalle esistenze locali e diverse.

G.K. Chesterton lamentava che “Non abbiamo niente davanti a noi, se non il piatto deserto della standardizzazione, che sia del Bolscevismo o di Big Business”. Ora questo si è avverato. Solo senza il Bolscevismo.

Il solo tedio del mondo così creato sta portando a un contraccolpo di reazione. La cittadina di Homer in Alaska ha proibito quelli che chiama negozi “ big-box”. In Francia e Polonia le amministrazioni locali possono ora porre il veto su alcuni supermarket e centri commerciali. Nel caso francese, per proteggere “la coesione del tessuto economico e sociale”. La Malesia ha posto un divieto quinquennale sulla realizzazione di ipermercati nella valle del Klang, che comprende Kuala Lumpur. A Cuernavaca, 80 chilometri a sud di Città del Messico, gli abitanti hanno lottato contro i progetti del gigante americano Costco di costruire un nuovo negozio in un siti di interesse storico. E in Gran Bretagna, il regno di Tesco come principale negozio nazionale sembra avvicinarsi alla fine, mentre sempre più iniziative locali e gruppi di coltivatori si organizzano contro di esso.

Quando ci si sente impotenti contro il “piatto deserto della standardizzazione”, si può fare un’enorme quantità di cose.

Nota: la versione originale e integrale del Rapporto è scaricabile gratuitamente al sito del New Economics Forum (f.b.)

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg