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Eddytoriale 135 (05 dicembre 2009)
18 Dicembre 2009
Eddytoriali 2008-2009

La superficie del pianeta Terra, luogo dove vive la specie umana, è suscettibile di molte utilizzazioni. Serve per l’alimentazione degli uomini e degli animali che vi abitano; per assicurare, tramite la vegetazione, un’aria salubre che gli abitanti della terra possano respirare; per raccogliere e filtrare l’acqua piovana e ricostituire le riserve di un liquido decisivo anch’esso per la vita dell’uomo; per consentire la biodiversità delle specie e la rigenerazione dello spirito dell’uomo. E serve infine per ospitare quei manufatti che servono all’uomo per abitare, produrre, conservare i prodotti del suo lavoro, usufruire di tutti i servizi necessari per la vita individuale e sociale, per muoversi e per spostare i beni che gli servono. Dove il suolo ha quest’ultima utilizzazione esso viene sottratto alle altre possibilità: è reso sterile. Le funzioni e utilizzazioni legate alla naturalità vengono impedite: si manifesta un potenziale conflitto.

Per millenni questo conflitto non è emerso: il territorio reso artificiale (una crosta di cemento e asfalto) era una porzione molto ridotta del totale. Improvvisamente, il consumo di suolo per usi urbani è cresciuto a dismisura. Il confronto tra le carte tecniche negli ultimi sessant’anni ci dice che, grosso modo, in Italia quella crosta è aumentata da uno a dieci.

É un fenomeno che si è manifestato in molti paesi europei, con dimensioni a volte paragonabili a quelle italiane. La differenza tra l’Italia è gli altri stati è che da noi il fenomeno è più grave per la scarsità delle aree di pianura (dove si il consumo di suolo si concentra), che sono un quarto del totale, per la densità di testimonianze della storia e dell’arte, e per l’assoluta mancanza di iniziative: mancano perfino dati attendibili sulle dimensioni del consumo di suolo, se non per limitate parti del territorio. Mentre in Francia, Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna i governanti da anni hanno attivato politiche capaci di ridurre il fenomeno, in Italia non si fa nulla. Anzi, costruire nuove strade, nuove case, nuovi quartieri, incoraggiare la disseminazione di case e capannoni sul territorio è considerato un incentivo allo sviluppo: un fatto che si ritiene comunque positivo, indipendentemente dalla effettiva utilità di ciò che si costruisce.

Perciò cresce in Italia un vasto movimento che vuole spingere i governanti a lavorare per ridurre il consumo di suolo a ciò che è strettamente necessario. Il movimento è nato quando dal sito eddyburg.it è emersa una denuncia del fenomeno, un’analisi delle iniziative promosse da altri stati e una proposta legislativa. Un piccolo comune della periferia milanese, Cassinetta di Lugagnano, ha approvato negli stessi anni un piano regolatore “a consumo di suolo zero”, che è diventato un esempio significativo di ciò che si può fare. Su queste basi si è sviluppato un movimento popolare “Stop al consumo di territorio”, che ha già raccolto le adesioni di centinaia di comitati e gruppi di cittadini.

Combattere il consumo di suolo significa forse ridurre l’attività delle costruzioni? Tutt’altro. Esistono in tutte le città d’Italia grandi spazi vuoti, già urbanizzati, occupati da attività dismesse (come i grandi complessi militari e molte installazioni industriali obsolete), oppure da edilizia degradata spesso abusiva, che meritano di essere profondamente ristrutturate e rese più vivibili, oppure “aree di sviluppo industriale” asfaltate e inutilizzate. Sono aree “in attesa di speculazione”: potrebbero essere utilizzate invece per l’edilizia a basso costo, per i servizi e il verde essenziali per rendere le città migliori e più facile la vita, per ospitare le nuove attività economiche necessarie. Basterebbe quella determinata volontà politica che in altri paesi si è manifestata, e le leggi necessarie per privilegiare, nella gestione delle città, l’interesse della maggioranza dei cittadini su quello di chi vuole arricchirsi a spese della collettività.

Il consumo di suolo non preoccupa solo ambientalisti coerenti e urbanisti militanti, né solo chi vuole restituire salute e bellezza al territorio e ai suoi abitanti. Anche gli operatori più legati al territorio e alle sue qualità (naturali, paesaggistiche, storiche, artistiche) cominciano ad avvertire la gravità del trend sguaiatamente edificatorio che minaccia quelle qualità. É il caso recente dell’Agriturist, l’associazione degli operatori dell’agriturismo aderente alla Confagricoltura, il sindacato padronale degli agricoltori. Il convegno organizzato quest’anno nell’ambito del suo 7° Forum è stato dedicato all’argomento, e due delle relazioni si sono interrogate suelle conseguenze e le ragioni della morte del paesaggio italiano e su ciò che si può fare per evitare che la città cancelli la campagna. Il rischio è grande. Il geografo Massimo Quaini, che ha sviluppato il primo dei due temi suddetti, ha rilevato come gli effetti della globalizzazione capitalistica, aumentando a dismisura gli effetti della fase industrialista, stia cancellando i tratti del paesaggio costruito dall’applicazione saggia del lavoro dell’uomo alla natura, senza sostituire – come era successo nelle precedenti epoche – qualità comparabili a quelle distrutte. Il sottoscritto, invitato in quanto urbanista, ha affrontato il problema dal punto di vista della città e dei suoi abitanti, i quali sono anch’essi penalizzati dalla trasformazione dei paesaggi rurali nella “repellente crosta di cemento e asfalto” (per adoperare l’efficace espressione di Antonio Cederna) che sta seppellendo la campagna e il patrimonio naturale e storico che essa costituisce.

L’edificazione diffusa sul territorio - lo sprawl – che è l’aspetto principale del consumo di suolo, causa a sua volta (come l’Unione europea non si stanca di denunciare) gravissimi sprechi. Essa infatti rende obbligatorio l’impiego quotidiano dell’automobile, provoca un aumento parossistico del traffico, dei consumi energetici, della proliferazione di strade che a loro volta aumentano il consumo di suolo, aggrava l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, incide negativamente sui redditi e sull’impiego del tempo delle persone, riduce la coesione sociale, sopprime le produzioni agricole nelle aree più fertili, cancella la bellezza e la salubrità delle campagne. (Si vedano in proposito i rapporti 4/2006, 6/2006 e 10/2006 dell’ European Environment Agency, organo specializzato dell’Unione europea).

Non occorre soltanto difendere la campagna da un’espansione urbana irragionevole, priva di motivazioni socialmente rilevanti, dovuta solo alla confluenza della miopia dei pubblici amministratori e alla pressione degli interessi privati. La gigantesca espansione delle nostre città avvenuta nell’ultimo mezzo secolo (si calcola che in Italia il 90% delle aree attualmente urbanizzate sia stato realizzato dopo la fine della guerra) è stata guidata più dalla speculazione che da una corretta pianificazione urbanistica. Dalle vastissime periferie della maggior parte delle nostre città il verde è stato cancellato; adesso il processo prosegue cacciando l’agricoltura e degradando i poaesaggi anche al di là dei confini della città, oggi non più riconoscibili.

L’uomo non può vivere in modo adeguato se si taglia ogni possibilità di rapporti quotidiana con la natura. I grandi parchi urbani che la storia ci ha lasciato, quelli creati delle amministrazioni che hanno pianificato la città in modo ragionevole, i cunei di campagna che piani regolatori intelligenti hanno saputo inserire tra i quartieri urbani, non solo devono essere difesi contro ogni tentativo di cementificazione, ma devono costituire il modello da riprendere e sviluppare oggi. É necessario, ed è possibile. Come? Ne riparleremo.

Il testo riprende due articoli che sono stati messi online sul sito Tiscali il 25 novembre e il 3 dicembre.

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