Siamo ormai abituati ai gesti istrionici per esserne troppo stupiti; ma frasi come quelle pecorecce espresse nei confronti della signora sotto la tenda, o l’invito a farsi una vacanza al mare, o la promessa di assegnare agli sfrattati una delle sue numerose case, hanno urtato particolarmente perché pronunciate al cospetto di una tragedia ancora viva, di fronte alle stesse dolenti persone che ancora ne portavano i segni.
Ha colpito ed è stato criticato il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, più facili grazie alla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento che è stata adottata (e criticata). Altrettanto giustamente sono state criticate le condizioni di vita nelle improvvisate tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini, cacciati dalle loro case da un disastroso ma prevedibile evento.
Le critiche e preoccupazioni su questi aspetti sono giuste. Ma la vera tragedia del modo berlusconiano di procedere alla ricostruzione risiede in due scelte, tra loro strettamente collegate, che avrebbero meritato un’attenzione più ampia: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.
Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.
Con la seconda scelta si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.
Questa è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non ha promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia? A me, francamente, che questo modo di governare sia volto all’arricchimento di qualche clan interesse meno del fatto che questo modo uccide la città e la società. Rende vera e attuale nel nostro Abruzzo la frase di Noemi Klein: “le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.
Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2009 nel giornale online Tiscali Italia, sul quale compaiono anche i numerosi commenti dei lettori, terribilmente istruttivi.