L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata ...(continua a leggere)
L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata dai capelli turchini. E, purtroppo, ogni medico ha una ricetta diversa e difende la sua con intemerata convinzione. L’ILVA è una fabbrica che produce una merce, l’acciaio, una lega di ferro e altri elementi, partendo da minerali nei quali il ferro è, in qualche forma, legato all’elemento ossigeno. Tutta l’operazione consiste nel “portare via” l’ossigeno (si chiama “riduzione”) degli ossidi di ferro del minerale e nel “liberare” ferro da adattare poi ai vari usi tecnici e commerciali. Ciò avviene usando come agente “riducente” il carbone; altrove l’acciaio viene prodotto con forni elettrici rifondendo il rottame. La produzione mondiale annua di acciaio ammonta a circa 1600 milioni di tonnellate; quella italiana a circa 25 milioni di tonnellate, circa la metà fabbricata a Taranto. Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.
Il carbone è il principale responsabile della crisi ambientale a causa delle sostanze nocive che si formano nei processi di trasformazione del carbone fossile in carbone coke, nell’agglomerazione del carbone coke con il minerale di ferro e con calcare e nella trasformazione, negli altiforni, col calore ottenuto anch’esso dal carbone, dell’agglomerato in ghisa. La ghisa viene poi trasformata, insieme al rottame, in acciaio nei convertitori mediante ossigeno.
Alcuni dei medici che cercano di risanare l’ILVA si sono chiesti se non sia possibile ottenere acciaio, di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con un processo, già sperimentato altrove, che usa il metano del gas naturale come agente riducente del minerale. Il metano è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti per “portare via” l’ossigeno dal minerale; si ottiene così un ferro preridotto che, trattato insieme a rottami, può essere trasformato nelle varie qualità e nei vari tipi di acciaio richiesti dal mercato. Il processo consentirebbe di liberare Taranto dalla schiavitù del carbone, comporterebbe un minore consumo di energia per tonnellata di acciaio prodotto e un minore inquinamento e sarebbe certamente molto più “verde” ed ecologicamente accettabile di quello attuale, anche se nessun processo è esente da polveri e fumi e scorie.
I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento; verrebbe così data una risposta alla giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”, e si avrebbero positive ricadute di occupazione nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione dei nuovi impianti.
Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma è ragionevole credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana e dell’acciaieria di Taranto possano passare da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò comunque auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro aspetti geopolitici: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità e dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in aumento.
La transizione potrebbe incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta magica. Si tratta di fare una attenta previsione e programmazione del ruolo dell’Italia nella produzione dell’acciaio identificando la richiesta futura, la qualità dell’acciaio richiesto e i settori di impiego, dall’edilizia alla meccanica, interni e internazionali. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto; una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale” preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle valutazioni finora fatte a disastri avvenuti. Comunque, a mio modesto parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, sta stimolando un dibattito e destando un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si muoia di meno di mali ambientali.