Di fronte alla rottura dell’equilibrio espresso dalla forma classica e medioevale della città, la nascente cultura urbanistica moderna (così come veniva appunto delineandosi, nei suoi interessi pratici e nelle sue motivazioni ideali, agli albori del secolo del trionfo pieno del capitalismo), ha avanzato due posizioni distinte e anzi, in linea di principio, addirittura antitetiche. La prima di tali posizioni è fondata sul convincimento (per adoperare i termini di uno dei più noti studiosi italiani dell’argomento, il Benevolo) “di dover ricominciare da capo, contrapponendo alla città esistente nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, ed è sostenuta dai “cosiddetti utopisti - Owen, Saint Simon, Fourier, Cabet, Godin, - che tuttavia non si limitano a descrivere la loro città ideale, come Moro, Campanella e Bacone, ma s’impegnano a metterla in pratica”. La seconda si concreta nel “tentativo di risolvere separatamente i singoli problemi e di rimediare ai singoli inconvenienti, senza tener conto delle loro connessioni e senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino” ; ad essa possono ricondursi “gli specialisti e i funzionari che introducono nella città i nuovi regolamenti igienici e i nuovi impianti e [... ] danno inizio, di fatto, alla moderna legislazione urbanistica”.
Gli utopisti che sono a cavallo tra settecento e ottocento sono certamente - come giustamente sottolinea il Benevolo - per così dire, di un’altra specie, rispetto ai Moro, Campanella, Bacone, ed è questo un punto che non ci sembra debba essere trascurato o sottovalutato, poiché consente di cogliere immediatamente il nucleo fondamentale della concezione comune ai fondatoti del socialismo utopistico. Invero, si può senz’altro affermare che l’interesse critico dei pensatori del Rinascimento è volto essenzialmente all’individuazione di quelli che ormai cominciano a configurarsi come i nodi dello sviluppo della civiltà; appunto per questo motivo, nel loro ragionamento e nella loro ricerca, essi si attengono strettamente al terreno della filosofia - e quindi al terreno sul quale indubbiamente quei nodi sembravano poter esser colti e risolti nella loro più profonda e reale essenza -, mentre le loro “utopie”, le loro avveniristiche descrizioni di una Nuova Atlantide odi una Città del Sole o di una Utopia, servono soprattutto per illustrare e colorire, con la tinta immediatamente polemica della contrapposizione al presente, le convinzioni e le tesi che essi andavano formulando con gli strumenti propri al discorso filosofico. In altri termini, e rovesciando il senso dell’affermazione del Benevolo, ci sembra di poter asserire che i Moro, Campanella, Bacone non si sono mai illusi di poter “mettere in pratica” una loro città ideale, proprio perché intuivano la profondità e l’ampiezza della crisi che cominciava allora a discoprirsi; viceversa, quelli che possono sembrare a taluni i loro più efficienti epigoni, si limitavano a tentar di realizzare, hic et nunc, il loro “modello insediativo”.
È fuor di dubbio, infatti, che a sollecitare e a commuovere gli utopisti, a sospingerli verso l’invenzione e la sperimentazione di nuove forme d’insediamento, erano essenzialmente quelle conseguenze che il tumultuoso avvento della produzione capitalistica aveva comportato per le condizioni di vita degli uomini. Gli utopisti vedevano soprattutto, e quasi esclusivamente, lo sradicamento degli antichi costumi e la mancanza di un nuovo ordine, la scomparsa delle idilliache “condizioni di natura” e la devastazione causata dalla “città industriale”, l’enorme sviluppo della tecnologia produttiva e l’asservimento degli uomini al profitto, l’incremento impetuoso dei beni prodotti e il parallelo immiserimento delle masse lavoratrici. Essi coglievano, insomma, gli aspetti più immediatamente disumani, mortificanti e insopportabili, intrinsecamente legati alla tempestosa avanzata di quel complesso e profondo rivolgimento di tutta la tradizione ideologica e culturale, di tutta la vita sociale, politica ed economica dell’Occidente cristiano, che essi avvertivano pressocché esclusivamente nei termini epidermici e descrittivi della “rivoluzione industriale”. Appunto per questo, se gli utopisti del XIX secolo certamente avvertivano - per quel che più direttamente ci interessa - tutto il disordine, tutta la negatività che il capitalismo aveva comportato sul piano della città, essi non riuscivano tuttavia a vedere, dietro il fumo maleodorante delle Coketowns, sotto l’esplosione urbana delle micidiali concentrazioni dei tuguri e degli “alveari” nei quali trovava ricovero la popolazione operaia, né l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico, né la potenzialità positiva implicita, per 1a città, nel carattere sociale del capitale. Essi non comprendevano che l’avvento della produzione capitalistica e della classe borghese aveva costituito l’unica soluzione possibile, nelle condizioni storicamente date, alla crisi del mondo signorile. E per ciò stesso, mentre il carattere astrattamente utopistico della loro costruzione veniva continuamente ribadito e riconfermato, si scopriva via via il limite reazionario della loro posizione.
II numero rigidamente limitato e concluso degli abitanti dei “parallelogrammi” oweniani o dei falansteri minuziosamente descritti da Fourier; il ritorno a forme arcaiche di sfruttamento del suolo agrario e il ripristino di un’economia basata essenzialmente sulla produzione agricola; la Isostanziale autosufficienza delle unità sociali e urbanistiche; e insomma tutte queste ricorrenti caratteristiche delle utopie ottocentesche non sono forse il segno evidente di un rifiuto acritico e immediato di ogni novità implicita nel capitalismo? Non costituiscono esse, cioè, l’indice eloquente di una inarrestabile tendenza a tornare verso il passato, per ritrovare, in un sostanziale ripiegamento verso l’autoconsumo, il paradiso perduto di un ordine organico, di una dimensione limitata e dunque ancora vicina alle condizioni originarie dell’uomo, nel mantenimento di un contatto immediato con la natura elaborata sì e incivilita, ma non artificialmente deformata dal lavoro umano ?
Se lo sguardo è volto all’indietro, se il presente è vissuto come secca e irrimediabile negatività (e come tale è coerentemente rifiutato nella sua interezza), non è certamente consentito di cogliere, nel presente, ciò che in esso si viene manifestando come positiva potenzialità. Gli utopisti non possono dunque certamente individuare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, l’oggettivo e progressivo portato dello sviluppo storico, né, tanto meno, essi possono cogliere in un simile carattere la condizione materiale di base che giustifica e legittima la sopravvivenza della città, fornendo un possibile punto d’avvio per ritrovare un ordine autonomo, una configurazione sufficiente, una forma peculiare e giusta.
Sicché, in definitiva, l’utopismo dei primo Ottocento non può risolvere la crisi della città del capitalismo, non può fare i conti con quest’ultima: esso deve proporsi di liquidarla. In effetti, non soltanto “le soluzioni spaziali” che gli utopisti “propongono si collocano fuori dalle città”, non soltanto i loro insediamenti “ammettono un ulteriore sviluppo solo nella ripetizione in estensione dell’organismo elementare”, quantitativamente delimitato e conchiuso ed economicamente autosufficiente, ma essi giungono addirittura, come Filippo Buonarroti, a profetare esplicitamente la scomparsa della città, o, come Fourier, a pianificarne razionalisticamente la fine.
2. La validità di un’intuizione degli utopisti: il consumo comune acquista una dimensione nuova.
L’indubbio interesse che la posizione utopistica ancor oggi riveste non deriva soltanto dalla carica di denuncia e di protesta che è alla sua radice; se così fosse, se l’unico frutto che gli Owen e i Fourier, i Godin e i Saint Simon hanno saputo concretamente dedurre dalla critica alle condizioni della città capitalistica, fosse il frutto disperato della rinuncia al presente, le loro vicende potrebbero essere tranquillamente abbandonate nelle mani degli archivisti, per nutrire le accademiche gioie dei filologi. Sta di fatto che l’interesse dimostrato in questi ultimi anni per la posizione utopistica da alcuni dei più attenti studiosi italiani di problemi urbanistici, non ci sembra affatto casuale e gratuito, né riteniamo privo di significato il fatto che tale interesse è dimostrato soprattutto da quanti, con maggiore impegno, si adoperano nella ricerca di un esatto rapporto tra i problemi urbanistici della nuova città e i suoi necessari contenuti civili. In realtà, negli utopisti v’è indubbiamente l’intuizione di un aspetto centrale e decisivo, che costituisce la base dell’ordinamento formale della città e dunque - come potremo vedere più diffusamente nel seguito della nostra ricerca - il fondamentale punto di partenza per giungere a una città sufficiente.
In quanti si misurarono con le disumane insufficienze e con le contraddizioni mortificanti e oppressive della città della borghesia trionfante, in quanti tentarono di opporre, alla “crisi della città industriale”, quelle “nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, è sempre presente un’attenzione minuziosa, una cura amorevole, una instancabile premura per l’organizzazione sociale, comune, collettiva, della soddisfazione dei bisogni degli uomini. Gli edifici e i locali per l’istruzione e l’educazione comune di tutti i bambini e i giovani; i luoghi per lo svolgersi comune delle attività religiose, civili, culturali, ricreative; le cucine pubbliche e i refettori comuni per i membri della collettività: questi sono, nelle proposte e negli schemi, come nei tentativi di realizzazione, i nuclei ordinatori degli insediamenti utopistici.
Non solo: ma la stessa residenza assume, nelle idee, nei programmi e nelle esperienze degli utopisti, un evidente carattere comune. E infatti, anche quando l’esigenza di un concreto ancoraggio nella realtà pone un freno alle sbrigliate avventure della fantasia, e la famiglia è riconosciuta e garantita come un ineliminabile istituto della vita sociale; anche quando, di conseguenza, l’alloggio familiare conserva la sua natura di cellula elementare dell’insediamento, gli alloggi sono strettamente integrati al complesso dei servizi comuni, sono concepiti come cellule private di un insieme comune e costituiscono in definitiva essi medesimi, nel loro complesso, un servizio comune. Nell’insediamento utopistico anche la famiglia, in altri termini, vive e consuma il momento della sua realtà privata nell’ambito e con il sostegno di una comune organizzazione.
Si può affermare dunque che esiste indubbiamente un evidente punto di contatto tra l’impostazione utopistica e quella che aveva presieduto al tradizionale schema urbanistico della città della borghesia nascente: nell’un caso come nell’altro, sono infatti le esigenze e gli interessi della comunità, sono i consumicomuni degli abitanti a costituire il nucleo ordinatore dell’insediamento. Ma ci sembra che nel caso degli utopisti vi sia, rispetto all’impostazione tradizionale, l’iniziale ma esplicito manifestarsi di una svolta, di una positiva e feconda novità.
Come abbiamo visto, nella prima fase della città, in tanto esisteva e si manifestava una dimensione comunitaria, in quanto venivano concretamente vissuti e fruiti come consumo comune quei valori d’uso, quelle qualità che, già presenti nel mondo signorile, avevano potuto sussistere (in quest’ultimo) solo entro la sfera meta-economica della libera attività del signore e che, nella città della borghesia nascente, mentre restavano ancora sostanzialmente estranei alla dimensione dell’economia, potevano essere assunti e avvertiti soltanto come una spesa. Appunto per questo, quando abbiamo dovuto definire quei valori e li abbiamo definiti consumi comuni, abbiamo dovuto sottolineare però che solo allusivamente e impropriamente potevamo adoperare il termine “consumo”, e difatti gli conferivamo un significato che costituisce certamente un’estrapolazione del senso che esso ha finora avuto nello stretto contesto del discorso economico (al quale la categoria del consumo legittimamente appartiene).
In modo radicalmente diverso si manifestavano invece le esigenze e gli interessi della comunità nel quadro della concezione utopistica. La caratteristica fondamentale dell’impostazione degli utopisti consiste nel fatto che le esigenze e gli interessi classici della comunità investono ormai, decisivamente ed essenzialmente, la sfera dei consumi: di quei consumi, cioè, che sono realmente e propriamente tali nell’ambito del discorso economico così come si è storicamente determinato. E in realtà, sono la residenza, l’alimentazione, l’educazione (da un lato, quindi, due decisivi aspetti della sussistenza, e dall’altro l’aspetto della formazione delle capacità professionali dei produttori) a divenire la materia e la base della vita comunitaria: sono gli stessi valori d’uso di cui si sostanzia il consumo produttivo che vengono ormai, nell’insediamento proposto dagli utopisti, vissuti e fruiti in modo comune.
Da una simile svolta discendono allora due conseguenze di singolare importanza, attraverso le quali la posizione utopistica definisce e conclude il proprio discorso. Da un lato, la comunità è divenuta arbitra del proprio consumo di sussistenza e di riproduzione. Essa lo ha sottratto cioè alla legge esclusiva, al dominio del processo accumulativo, e può estenderlo, allargarlo a proprio piacimento, o meglio in tutta quella misura che sia consentita dall’esigenza di mantenere la possibilità di un “impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”. E naturalmente viene a cadere ogni distinzione, o almeno ogni separazione e contrapposizione, tra consumo produttivo e improduttivo.
Dall’altro lato, continua certamente a sussistere, anche nella città, anche nei chiusi modelli societari degli utopisti, l’esigenza di vivere e di assumere quei valori d’uso, propriamente e massimamente umani, di cui, come si è visto, già si alimentava la libera e meta-economica attività del signore; ma siffatti valori d’uso, adesso, possono essere regolati e commisurati dalla comunità in stretta proporzione alle proprie possibilità produttive, alle proprie risorse, possono essere riportati insomma, nel modo più rigoroso e diretto, alle leggi del lavoro. E la spesa per tali consumi, se rimane pur sempre una spesa, viene però stabilita, determinata e ripartita; da tutti, su tutti, e nell’interesse di tutti. Cade così evidentemente, nella “nuova armonia” dell’insediamento utopistico, ogni prevaricazione borghese della produzione, come ogni prevaricazione signorile della libertà dell’uomo sul lavoro.
Si può senz’altro affermare, pertanto, che la “città ideale” si risolve, in definitiva, nel grande tentativo di colmare quella frattura fra i valori, il momento della comunità e la sfera dell’economia, che era stata la causa della crisi dell’autonomo ordinamento formale delle città. Solo che la nostra esposizione peccherebbe di unilateralità e potrebbe facilmente essere accusata di acritica benevolenza nei confronti degli uomini dell’utopia, se trascurassimo di precisare e di porre in evidenza i limiti che condizionano tutto l’insieme della loro posizione, e quindi anche il loro tentativo d’inquadrare l’intera sfera economica, e particolarmente la dimensione del consumo, sotto il segno comunitario.
3. Le ragioni del fallimento storico degli utopisti
I filologi e gli studiosi, siano essi critici demolitori e avversari, o sostenitori ammirati della tesi e delle esperienze utopistiche, paiono tutti concordare su un punto. Quale che sia il “valore permanente di stimolo” del loro impulso rinnovatore, quale che sia la carica di “generosità e di simpatia umana” che sprigiona dalle loro città ideali, quale che sia l’intrinseca validità del “gran serbatoio di idee” II che essi hanno raccolto, certo è che gli Owen, i Fourier, i Godin, sono stati impietosamente consegnati, dalla storia, nel ghetto dell’utopia. Invero, è assai facile e immediato osservare che le loro intuizioni non si sono mai organizzate in una visione complessiva e realistica del mondo cui pur dovevano applicarsi, cioè non sono mai state sorrette da un disegno di trasformazione della società e della città storicamente date. Basta infatti limitarsi a descrivere la posizione degli utopisti, per rendersi conto che essi non hanno saputo mai cogliere pienamente, nel sistema e nella città, i nodi decisivi da sciogliere, i fulcri su cui far leva per modificare l’assetto dell’uno e dell’altra. La nuda cronaca dei fatti, in altri termini, è già sufficiente a mostrare come le indubbie anticipazioni che punteggiano la loro storia siano rimaste congelate nello schematismo minuzioso, e in definitiva un po’ folle, dei “modelli” elementari, delle astratte “città ideali”, o, al più, siano rimaste immiserite nel ritaglio solo fittiziamente concreto di sporadici insediamenti, irripetibili e chiusi in sé medesimi, e per ciò effimeri e caduchi.
Ma tutto ciò ammesso e registrato, resta ancora da domandarsi - se veramente ci si vuol dar ragione dei limiti della posizione utopistica - perché essi possano essere descritti in un modo siffatto, perché essi abbiano dunque subito il destino dell’utopia.
Per conto nostro, possiamo adesso cercare di fornire una risposta, che ci sembra esauriente, a un simile interrogativo. Dal momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso, ribellandovisi moralisticamente e astrattamente. È allora proprio per questi aspetti più intrinsecamente negativi, ma decisivi e determinanti, della loro posizione, che gli utopisti dovevano rivelare la loro incapacità di sviluppare pienamente e di rendere effettuali le loro stesse intuizioni più valide. Il loro limite e il loro errore sono immediatamente individuabili, a ben vedere, in quel medesimo processo logico attraverso il quale essi giungono alle positive e feconde intuizioni che abbiamo più sopra sottolineato.
Si rifletta, ad esempio, sul modo e sui motivi per i quali un Owen perveniva ad affermare la necessità di ordinare l’insediamento nella maniera che si è descritta, superando cioè la cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Il suo punto di partenza non è costituito dal tentativo di uscire, in modo criticamente adeguato, dall’esclusivismo produttivo del sistema capitalistico; egli non vede che, per superare ‘le contraddizioni alle quali pur si ribellava, occorreva criticare alle radici il concetto di produzione, di economia, di lavoro, che è alla base di quel sistema e della stessa ideologia borghese. Egli è invece preoccupato, sconcertato e indignato, dalle mere conseguenze del vizio intrinseco (che a lui rimane ignoto) del capitalismo, e si propone perciò essenzialmente di costruire un sistema nel quale, pur rimanendo inalterate le condizioni di base esistenti, vengano però superate e risolte, o meglio eliminate, tutte le loro più urtanti manifestazioni. Così, nel concreto, ciò che soprattutto lo sollecita è la considerazione che “la causa immediata della disoccupazione attuale va [...] cercata in un eccesso di produzione di ricchezze d’ogni genere, che tutti i mercati del mondo non bastano ad assorbire”. E poiché per lui è obiettivo essenziale - e anzi, come già si è detto, norma di base della società – “trovare un impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”, poiché insomma tra i suoi scopi sta quello di evitare le “crisi di sottoconsumo” cui il sistema sembrava inevitabilmente condannato, non vede altra uscita se non quella di creare “un mercato interno all’apparato produttivo, aumentando la retribuzione dei lavoratori per renderli consumatori dei beni prodotti, e non solo strumenti della produzione”.
Owen, in definitiva, se è sospinto a dedicare la sua cura e la sua attenzione al consumo dei produttori, a estenderlo e a organizzarlo quindi con maggiore ampiezza e secondo una “più umana giustizia”, e se in questo suo tentativo giunge poi ad intuire delle novità di notevole rilevanza, è mosso però sostanzialmente dall’esigenza di dar fiato al sistema produttivo esistente, al quale non contrappone nessuna reale alternativa.
È interessante osservare, a questo proposito, il singolare parallelismo tra la sua posizione e quella di T. R. Malthus. Come quest’ultimo, Owen configura il destino del capitalismo in termini di “crisi di sottoconsumo”, e come Malthus, egli non vede altra soluzione se non quella di allargare la domanda dei consumi, lasciando immutata la struttura produttiva. Certo, a differenza di Malthus, egli non vede la soluzione nella tesi, oltretutto politicamente reazionaria, della indispensabilità di una “classe improduttiva”, la cui funzione consisteva appunto - per l’autore del Saggio sulla popolazione - nel consumare senza produrre per garantire uno sbocco sufficiente all’eccedenza produttiva. Egli, anzi, rovescia decisamente la tesi malthusiana, nel senso che, precorrendo in certo qual modo le moderne posizioni dell’”economia del benessere”, sostiene la tesi (socialmente, politicamente ed economicamente opposta) dell’incremento dei consumi dei produttori. Ed è proprio attraverso il rovesciamento della posizione malthusiana che Owen giunge poi alla conclusione della quale abbiamo più volte sottolineato la positività: a riconoscere cioè, come decisivo per l’insediamento umano, il superamento della cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Ma in ogni caso resta pur sempre il fatto che il suo limite, mutatis mutandis, è il medesimo di Malthus: è il limite, cioè, peculiare a tutti coloro i quali si propongono di sottrarre il sistema alle sue contraddizioni, senza criticarne le radici, e anzi implicitamente accettandole.
4. Dissoluzione della posizione utopistica
Il limite di principio della posizione utopistica spiega le ragioni per cui l’utopismo ha perduto, nel corso del processo storico, la sua stessa autonomia ideale; le ragioni, cioè, per cui si può affermare che non esiste più una posizione culturale che si riallacci direttamente e immediatamente alle tesi, alle concezioni, agli ideali dell’utopismo. In realtà, nel concreto della storia, a mano a mano che il capitalismo si è venuto ad affermare in modo sempre più palese e massiccio, irreversibile e irrefrenabile, a mano a mano che si è venuta a rivelare inconfutabile l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico borghese, la posizione utopistica si è parallelamente avviata verso la propria dissoluzione, lungo due strade diverse, e anzi opposte e divergenti.
Da un lato, infatti, nella misura in cui ha voluto conservare la carica di ribellione radicale ai necessari modi di sviluppo del sistema; nella misura in cui, in nome dell’antica protesta contro le negatività del capitalismo, ha continuato a volersi opporre a quest’ultimo, la posizione utopistica si è venuta sempre di più a scontrare frontalmente con la dura lex sed lex dell’affermazione capitalistico-borghese. Troppe disillusioni, troppi fallimenti, troppi tentativi vanifìcati dalla dura realtà delle cose si dovevano ormai segnare sul bilancio dell’esperienza - e di una esperienza circoscritta oltretutto nel breve cerchio di poche decine di “colonie” -, perché si potesse ancora rimanere ciechi al cospetto dell’evidenza: il mondo, il potere, l’economia, gli uomini medesimi, tutto era nelle mani del “sistema industriale”. Diveniva allora naturale - per quanti almeno, nell’ambito della posizione utopistica, non volevano dimettere l’abito della protesta e della ribellione - cercar la rivalsa nella profezia apocalittica di una crisi catastrofica alla quale il sistema avrebbe dovuto giungere, in una prospettiva ravvicinata, per virtù delle proprie leggi di sviluppo, e alla quale restavano affidate in definitiva tutte le carte e le possibilità di una liberazione della città e dell’uomo dai “mali della rivoluzione industriale”.
Ma in tal modo la posizione utopistica finiva per perdere ogni sua autonomia. Essa difatti, poiché a suo modo ammetteva ormai la fine del sistema, veniva necessariamente a confluire in quella posizione - la proletaria e marxista - nella quale la critica al sistema capitalistico aveva indubbiamente raggiunto una coerenza ed una robustezza che la rendeva di gran lunga superiore a quella che poteva venir formulata dall’utopismo. E allora, inevitabilmente, o l’utopismo era riassorbito dal marxismo e in esso si annullava, o, seppure voleva nutrirsi ad altri ideali, riferirsi ad altri principi, interpretare altre esigenze e altri interessi, finiva comunque per subire l’egemonia della posizione proletaria.
Se viceversa, dall’altro lato, si abbandonava l’empito della carica ribellistica per cercar di sottrarre, hic et nunc, la maggior parte possibile degli abitanti della città capitalistica almeno ad alcune delle più insopportabili conseguenze delle “disfunzioni” del sistema; se insomma ci si voleva mantener fedeli al vecchio imperativo utopistico dell’impegno immediato, e ci si proponeva quindi di cercar di garantire una qualche soddisfazione alle esigenze comuni dei cittadini, non si poteva tuttavia, anche in questo caso, far a meno di riconoscere quell’inevitabilità dell’affermazione capitalistica, che si era ormai rivelata nei fatti. Ma si doveva allora, necessariamente, rinunciare alla lotta contro l’insieme delle “conseguenze negative del sistema industrialistico” ; si doveva cioè coltivar l’illusione che errori e insufficienze si annidassero soltanto in questo o in quell’altro dei suoi aspetti marginali, suscettibili come tali d’esser corretti senza perciò dover porre il problema, in qualche modo globale, degli “eccessi dell’industrialismo”. Così, nel concreto, si finiva in sostanza per rinchiudersi entro le maglie del sistema, limitandosi alla difesa di quel tanto di consumo comune che era via via consentito dallo sviluppo e dalla logica del capitalismo.
Certo, anche un simile tentativo, oltre a costituire un’evidente abdicazione dalle originarie impostazioni dell’utopismo, sarebbe stato senza dubbio condannato al fallimento, se le leggi del sistema si fossero manifestate nella pienezza del loro rigore; in tal caso, infatti, nessun consumo sarebbe stato consentito se non quello strettamente produttivo e dunque, per sua propria essenza, necessariamente non comunitario. Ma sta di fatto che (come vedremo meglio in seguito) già sul finire del secolo scorso la società capitalistico-borghese si era venuta ad allontanare in modo considerevole dalla rigorosa logica del suo modello. Lo squilibrio di fondo tra potenzialità produttiva e capacità di consumo non era più soltanto un’ipotesi di questo o di quel “teorizzatore”: cominciava ormai a configurarsi come una realtà avvertibile nelle cose, alla quale si doveva tentare di por riparo anche ampliando, su scala di massa, le occasioni di consumo, per garantire in tal modo alla produzione sbocchi più larghi di quelli compatibili con la stretta logica capitalistica.
Ecco dunque perché le rivendicazioni degli epigoni degli utopisti, nella misura in cui venivano depurate dalla loro carica di ribellione al sistema, non solo potevano venir sopportate da quest’ultimo, ma cominciavano a divenire addirittura necessarie alla sua sopravvivenza: anche se, evidentemente, il grado della loro sopportabilità (e della loro utilità) era via via direttamente correlato al grado di maturità raggiunto dal sistema capitalistico.
Possiamo dunque concludere che l’utopismo, nel momento in cui rinuncia alla tensione protestataria per impegnarsi invece esclusivamente nel compito di correggere gradualmente questa o quella deficienza del sistema capitalistico-borghese, non solo si subordina a quest’ultimo, ma finisce poi per servirne il processo evolutivo, accelerandone la maturazione. Ed è allora evidente che, lungo una simile direzione, la posizione utopistica assume tutte le caratteristiche peculiari al riformismo; essa perde perciò ogni speranza di costruire la “città del futuro”, e si riduce a un mero strumento per l’organizzazione, nella città, di maggiori occasioni di consumo.
5. I funzionalisti: il “braccio urbanistico”del sistema borghese
Il trionfo storico del capitalismo condanna dunque la posizione utopistica a disperdersi lungo due direzioni antitetiche: a subordinarsi di fatto all’ideologia e alla prassi della rivoluzione proletaria, oppure a stemperarsi nella pratica del riformismo. Dai proudhoniani fino ad Ebenezer Howard e ai più recenti propugnatori dell’ideologia comunitaria, la storia dell’urbanistica è intessuta, nell’ultimo secolo, da mille episodi che testimoniano come la seconda scelta (la riformistica) sia stata quella che più vistosamente si è manifestata e che ha potuto condurre, ma sul solo terreno immediato dell’azione empirica, ai successi più numerosi ed evidenti. In realtà, la scelta riformistica, se portava a smarrire ogni possibilità di misurarsi con le cause effettive della crisi cui si voleva porre riparo, consentiva almeno di conservare un qualche contatto immediato, diretto, quasi fisicamente avvertibile, con le più urgenti e quotidiane esigenze degli uomini. Ma lungo una simile direzione l’utopismo finiva per incontrare - fino a dissolversi praticamente in essa - la seconda delle posizioni cui abbiamo più sopra accennato: quella degli specialisti, dei funzionari, di quanti tentano “di risolvere i singoli problemi [...] senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino”; insomma, la posizione di quelli che sempre più si manifesteranno come i concreti e fattivi operatori urbanistici. È appunto su questa seconda posizione che vogliamo ora brevemente soffermarci.
Quali che fossero le motivazioni ideali dalle quali muovevano, quali che fossero gli impulsi da cui erano sollecitati a intervenire, certo è che gli uomini che si adoperavano nel tentativo di correggere, a una a una, le mille forme in cui si esprimeva e si rispecchiava l’insufficienza della città capitalistica, potevano raggiungere un obiettivo soltanto: l’obiettivo di rendere urbanisticamente più efficiente e razionale l’insediamento umano, di conferirgli insomma una funzionalità. Tuttavia, qual’era la legge, il principio, il criterio fondamentale in funzione del quale si volevano ordinare, razionalmente ed efficientemente, i molteplici momenti e aspetti dell’organismo urbano? Invero, una posizione meramente funzionalistica non ha mai - non può mai avere - in sé medesima la propria ragione; essa è definita, può divenire operante, solo in relazione a un fine che è, per principio, esterno ad essa. In realtà, poiché la posizione di cui ci stiamo ora occupando è appunto caratterizzata non solo dall’assenza di una critica globale del sistema economico-sociale esistente, ma, anzi, dalla convinzione di una sua generale positività, poiché nel quadro di tale posizione si considera addirittura il sistema capitalistico-borghese come l’unico possibile, e poiché infine, proprio per tutto questo, si ritiene che nell’ambito di un siffatto sistema (e sia pure con le necessarie “correzioni”) resti pur sempre possibile sanare singolarmente quei mali che in esso indubbiamente si presentano, ecco che, inevitabilmente, si giunge per ciò stesso ad accettare e ad assumere, come proprio fine, quello peculiare al sistema medesimo.
Si deve allora convenire su di un punto fondamentale. Gli specialisti e i funzionari che si affannano a riportare ordine nei vari settori della città dell’Ottocento, gli uomini che propongono nuove soluzioni .per i servizi tecnici e la viabilità, che iniziano la prassi della regolamentazione edilizia e gettano le basi della moderna legislazione urbanistica - i nuovi tecnici dell’urbanistica - possono senza dubbio raggiungere il risultato di ridurre al massimo le diseconomie e le incongruenze che vengono via via a manifestarsi nella città, per l’assenza di una sua forma autonoma. Essi, cioè, possono certamente rendere la città, in questo o in quell’altro suo aspetto, sempre più rispondente alla funzione che deve assolvere nel quadro del sistema capitalistico, e possono anzi continuamente impedire che l’insediamento urbano precipiti definitivamente nel disordine, per ricondurlo invece, volta per volta, entro quell’ordine, quella razionalità, quell’efficienza, che sono indispensabili al corretto funzionamento di una città a misura del processo produttivo capitalistico. Essi possono operare come strumenti tecnici per il continuo ripristino delle condizioni che fanno della città l’insediamento tendenzialmente omogeneo al rigore della produzione capitalistica: poiché questo, e non altro, è il compito che il sistema ha loro assegnato.
Quella materiale e generica capacità ordinatrice che la produzione capitalistica - come più sopra si è detto - ha potuto rivelare nei confronti della città, e grazie alla quale si è potuto sottrarre quest’ultima alla prospettiva cui era condannata dalla perdita della propria forma autonoma, ha avuto insomma nei funzionalisti i suoi più organici intrepreti. Ma è allora chiaro che costoro, mentre si affannano a rincorrere e a risolvere, uno per uno, gli innumerevoli problemi che via via scaturiscono nel processo di crescita dell’organismo urbano e di sviluppo del sistema, non possono però mai raggiungere la soluzione del problema della città. Così, la città che essi costruiscono (o, più esattamente, la città che essi volta per volta aggiustano e adeguano, con successivi ritagli e ricuciture) è una città sempre più appiattita sul momento produttivo; e anzi, a mano a mano che essi riescono a ricondurre entro l’ordine funzionale del sistema, singole parti e zone e settori della città, questa viene per ciò stesso ribadita nella sua condizione alienata: poiché l’ordine entro cui viene regolata, la forma che le viene impressa, non costituiscono l’espressione autonoma delle sue proprie leggi, ma sono direttamente dettati e imposti dalle leggi della produzione.
6. Impotenza del funzionalismo
Prima di concludere il discorso sulla posizione funzionalista, è necessario però rispondere ancora a un interrogativo. Se tale posizione ha effettivamente costituito l’espressione piena e coerente del sistema capitalistico, se il sistema ha dunque riconosciuto negli uomini del funzionamento (esplicitamente o di fatto) il suo organico e conseguente braccio urbanistico, ciò significa, forse, che nella città del capitalismo trionfante (o in quella del capitalismo già maturo e prossimo all’opulenza) è possibile raggiungere quella pienezza di rigore, d’ordine, d’efficienza, che sembrerebbe dovere costituire per principio l’obiettivo del funzionalismo medesimo? E se a una simile domanda si deve poi dare una risposta negativa, qual’è dunque la ragione di ciò, qual’è insomma il motivo per cui il funzionalismo non riesce a dominare e a regolare interamente la città capitalistica?
La realtà concreta dei fatti già fornisce, nella sua immediatezza, una risposta univoca alla prima delle questioni che abbiamo ora formulato; poiché i fatti, fuor d’ogni dubbio, sono quelli di una borghesia che, quand’anche riesce a determinare in alcune città (e il caso più tipico ed esemplare è la Parigi di Haussmann) una “struttura a grandi maglie”, che rivela caratteristiche di funzionalità e d’efficienza, risolve poi l’insieme del tessuto urbano “a brani” a pezzi, con una serie d’interventi dispersi, la cui sostanziale casualità manifesta proprio l’incapacità di raggiungere compiutamente e in modo generalizzato -persino in quelle città nelle quali il funzionalismo ha concentrato i suoi sforzi - l’ordine e l’efficienza peculiari alle leggi della produzione.
Ma le cose, la nuda realtà dei fatti, se possono mostrarci quel ch’è stato e quel che non è stato, se possono insomma farci vedere e quasi toccar con mano la limitata incidenza che storicamente ha avuto, sulla città capitalistico..borghese, la posizione funzionalista, e se possono dunque fornire una sufficiente risposta al nostro primo interrogativo, non sono poi ovviamente capaci di far comprendere le ragioni per cui ciò è dovuto accadere.
Per cercar d’individuare tali ragioni, osserveremo in primo luogo che nessun sistema economico-sociale, sino a oggi, si è mai storicamente realizzato nella sua rigorosa pienezza. In particolare poi, come abbiamo già marginalmente rilevato, la classe borghese non avrebbe mai potuto pervenire a confermare a sua immagine e somiglianza l’intera società; e di fatto, nel concreto storico, ha potuto affermare la propria egemonia solo pagando il prezzo di sostanziali compromessi con le realtà politiche, economiche e sociali a essa preesistenti o a essa estranee: in definitiva, le è stato evidentemente impossibile estendere all’intero edificio sociale le rigorose leggi della produzione capitalistica.
Le conseguenze di questa vera e propria incapacità della borghesia sono, nell’insediamento umano, abbastanza palesi, e consentono di vedere con sufficiente chiarezza come l’opera dei funzionalisti, appunto per quel motivo, fosse condannata a rimaner circoscritta entro l’ambito di quelle porzioni del tessuto sociale e territoriale nelle quali la rivoluzione borghese aveva potuto agire più a fondo e più dispiegatamente. Così, mentre (a causa del permanere dei modi di produzione precapitalistici nella quasi totalità del settore agrario) l’antico equilibrio tra borgo e contado si arrovesciava nella contraddizione tra città e campagna, e impediva dunque che tutta la residenza dell’uomo divenisse città; mentre i numerosi insediamenti urbani nei quali la produzione industriale conseguiva uno sviluppo limitato, o addirittura nullo, restavano congelati nelle forme che avevano assunto durante l’età medievale; mentre infine il compromesso tra profitto e rendita cominciava a porre delle pesanti remore alla funzionalità delle sistemazioni urbanistiche negli stessi centri in rapida espansione, accadeva, in definitiva, che fossero quasi esclusivamente le maggiori città - e spesso solo le capitali - a permettere e a utilizzare l’opera dei tecnici funzionalisti.
In secondo luogo, in quelle stesse città alle quali la borghesia riesce a imprimere più efficacemente il suo volto (e ciò accade negli Stati e nelle regioni e nei centri in cui la classe capitalistica giunge ad affermare in modo più dispiegato le leggi della “produzione sociale”), l’insediamento non è reso ugualmente funzionale per tutti i produttori, e dunque in tutte le sue parti. I produttori, infatti, sono divisi e contrapposti in proletari e proprietari; e poiché solo questi ultimi possono liberamente garantirsi dei liberi consumi, la città del capitalismo deve necessariamente ordinarsi, in modo tendenzialmente esclusivo, al servizio dei consumi dei borghesi, dei proprietari, dei non controllati e non controllabili funzionari dell’accumulazione: al servizio, dunque, di una soltanto delle due classi, quella dominante anche se numericamente più esigua.
Ecco dunque perché, come si rileva in numerosi esempi, mentre il rapporto tra i quartieri borghesi e le zone della produzione e dello scambio diventa il fulcro funzionale della città capitalistica, i quartieri della residenza operaia (negli antichi rioni dei “centri storici” o nelle caotiche espansioni periferiche) vengono abbandonati a se stessi; ecco perché nasce l’idea - e si afferma la prassi - di una “città centrata attorno a taluni percorsi (assi stradali, linee di traffico e d’affari), che condizionano l’intelaiatura dell’intera struttura urbana, lasciando ampie zone grigie”, per cui si può addirittura sostenere che “la città borghese è (si realizza e si esprime) nella continuità stradale, come elemento funzionale e rappresentativo e come garanzia per ignorare le zone subalterne”; ed ecco, infine, perché quei “percorsi divengono uguali - cioè a scacchiera - solo dove l’intervento edilizio è in gran parte o del tutto destinato alla residenza borghese”.
Nel quadro capitalistico-borghese la posizione che abbiamo definito funzionalista incontra dunque un costante ostacolo alla propria pretesa di una piena esplicazione. La sua storia, se da un lato, e nel migliore dei casi, è la storia delle soluzioni meramente tecniche (e perciò sempre parziali, sempre insufficienti, sempre inadeguate a risolvere i reali problemi dell’organismo urbano), non è poi, dall’altro lato, che la storia dei continui tentativi di recuperare le “zone grigie”, di imprimere a posteriori un ordine e una regolarità seccamente funzionali a quelle porzioni del tessuto urbano che volta a volta, nel corso del continuo processo d’espansione e d’intensificazione produttiva della vita sociale che si svolge nella città, divengono essenziali per il corretto funzionamento della “macchina urbana”; ed è dunque, al tempo medesimo, la storia impietosa e funesta delle demolizioni, degli sventramenti, della liquidazione insomma delle vestigia del passato.
7. Il marxismo: una soluzione rigorosamente capitalistica
Come la posizione utopistica, così anche quella funzionalista non ha quindi potuto fornire una risposta sufficiente ai problemi che si sono manifestati nella città del capitalismo trionfante; e la città, difatti, si è sviluppata, nel corso del XIX secolo, nel modo che tutti conosciamo, e che ha condotto al generale riconoscimento di una sua crisi. Ma la nostra analisi della città capitalistica, e dei tentativi che sono stati intrapresi per riempire le sue insufficienze e per dominare il suo sviluppo, non potrebbe certo considerarsi compiuta - neppure nei limiti di una ricerca, per così dire, “a grandi linee”, qual’è la nostra -, e sarebbe anzi gravemente manchevole, se trascurassimo di soffermarci, sia pure brevemente, intorno a una terza posizione, che è venuta emergendo nella seconda metà del secolo scorso sulla base della robusta critica di Carlo Marx: la posizione, appunto, d’ispirazione proletaria e marxista.
All’interno della posizione d’origine marxista ci sembra che si possano individuare due tematiche chiaramente distinguibili. La prima, alla quale abbiamo già accennato a proposito dell’utopismo, concerne le prospettive che dovrebbero dischiudersi alla città -o più esattamente all’insediamento umano - nel “libero futuro” della società comunista; sono dunque, essenzialmente, le prospettive dell’eliminazione dell’antitesi tra città e campagna, e della parallela dissoluzione della città come forma dell’insediamento umano, che trovano in Engels il loro profeta, pur smaliziato e prudente. Ma la tematica che qui più direttamente ci interessa (poiché è l’unica che ha, sul piano della teoria, un senso e un significato reali nei confronti della città capitalistica, e che perciò ha potuto avere, in pratica, un’incidenza concretamente rilevabile), è la tematica più immediatamente radicata alla lotta per l’affermazione, in termini di potere, del proletariato.
Dobbiamo dunque cercar di vedere e di comprendere, in sostanza, quale configurazione assuma per la posizione marxista il problema della città, in quella fase di “passaggio dal capitalismo al comunismo [che] abbraccia un’intiera epoca storica”. Inquali termini, secondo quali criteri viene affrontato questo problema, nel quadro e nel corso del processo rivoluzionario che deve condurre la classe operaia dalla presa di coscienza del proprio ruolo storico, e attraverso la lotta contro il dominio capitalistico-borghese, alla definitiva rottura di quest’ultimo? Come il marxismo ha inteso fare i conti con la questione urbanistica, in attesa del giorno in cui, grazie al definitivo “affrancamento della classe oppressa”, fosse divenuta possibile “la creazione di una società nuova”, della “società comunista”, e dunque la fondazione di un insediamento anch’esso radicalmente nuovo e diverso da quanti altri mai si sono succeduti lungo il cammino della storia?
È ben noto quale sia, per il marxismo, la forma che caratterizza l’assetto sociale e politico, nel passaggio dalla fase capitalistica a quella della comunistica “società senza classi”: è la forma della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Per comprendere la soluzione che il marxismo fornisce, sul terreno concreto della storia, al problema della città, bisogna dunque vedere, in primo luogo, come si configuri la società governata dalla dittatura proletaria: quella società “appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama ‘la prima fase’, la fase inferiore della società comunista”, o, come verrà generalmente definita soprattutto nel periodo staliniano, la società socialista.
Nella società socialista, innanzitutto, è cessato il dominio politico della classe dei proprietari di capitale, che è stato appunto sostituito dalla dittatura del proletariato; la proprietà dei mezzi di produzione è divenuta pubblica, e quindi omogenea al carattere sociale del capitale; il processo produttivo, infine, è direttamente gestito in funzione e al servizio degli interessi della classe proletaria: di quella classe, cioè, dalle cui mani scaturisce tutto il sovrappiù - il plusvalore - realizzato nel corso del processo produttivo medesimo.
Ma la “prima fase”, la “fase inferiore” della società comunista, la fase contrassegnata dalla legge politica e sociale della dittatura proletaria, è appunto, nella concezione marxiana, una “fase”, una tappa, un periodo transitorio, caratterizzato dal fatto che lungo il suo corso si devono preparare le condizioni materiali e politiche che consentano il salto “dal regno della necessità al regno della libertà”; che consentano, cioè, di raggiungere la “fase più elevata della società comunista”. “Dopo che con lo sviluppo generale degli individui [saranno] cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza sociale [ scorreranno] in tutta la loro pienezza”, quella società potrà “scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Appunto per questo (così almeno sostiene Lenin, portando a logica coerenza il testo marxiano che abbiamo ora citato), durante la fase socialista, il processo produttivo - e l’intera economia - dev’essere ferreamente indirizzato alla massima intensificazione dell’accumulazione; tutto dev’essere ordinato, cioè, all’allargamento delle basi della produzione, alla crescita del capitale, in modo che venga raggiunta, al più presto, quella generalizzata capacità di produrre con abbondanza tutti i beni necessari a garantire la libertà dell’uomo dal lavoro, che costituirà il segno visibile - ed è insieme la condizione necessaria - del passaggio alla comunistica “pienezza dei tempi”. Ma bisogna allora che, nel concreto, venga negata e respinta la tesi secondo la quale “l’operaio riceve in regime socialista il ‘frutto non ridotto’ o il ‘frutto integrale del proprio lavoro’”; bisogna che sia invece affermata e propugnata la inderogabile necessità di detrarre, dal prodotto del lavoro sociale, la quota indispensabile alla continua estensione e alla crescita impetuosa delle forze produttive.
È allora evidente perché, nel corso di tutto il periodo della dittatura proletaria, “i socialisti [ reclameranno] dalla società e dallo Stato il più rigoroso controllo della misura del lavoro e della misura del consumo”; è solo tirando la cinghia, è solo conformando l’intera società come “un grande edificio o una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, è solo insomma estendendo a tutto l’edificio sociale la proletaria “disciplina da ‘officina’”, e imprimendo dunque ad ogni momento della vita civile e sociale la rigorosa legge economica del consumo produttivo, che si potranno allargare rapidamente le basi del processo di produzione, accelerare i tempi della “fase transitoria” e toccar finalmente con mano il libero destino della società senza classi.
8. Una città a misura del proletario
Diviene chiaro, a questo punto, come debba configurarsi, nella posizione marxista, il problema della città nella fase storica del socialismo. La città, in tale fase, è una città proletaria: una città sottratta all’arbitrio della libera volontà dei borghesi; una città egualitaria che esprime e garantisce le esigenze di tutti i produttori, ed è organizzata in funzione degli interessi di quei proletari che costituiscono “l’enorme maggioranza della popolazione”. Essa è dunque in tal senso (e propriamente) una città democratica.
Ma poiché, d’altra parte, il proletario, oltre a essere evidentemente - nella sua espressione politica - l’egemone di quella faticosa costruzione della società comunista cui si è sopra accennato, costituisce poi soprattutto - nella sua immediata realtà economica - la figura sociale da cui dipende l’accumulazione e che è definita e definibile solo in funzione della propria attività produttiva; e poiché quindi il suo massimo interesse politico e di classe sta nell’efficienza e nell’intensificazione del processo accumulativo (nel quale esso vede, al tempo medesimo, la condizione di base per il raggiungimento della piena “libertà comunista” e, nell’immediato, la garanzia della propria sussistenza e della propria attività), ecco che la città proletaria si configura altresì, e decisivamente, come quell’insediamento che, più d’ogni altro, dev’esser funzionale alla produzione.
Il proletario, però, non soltanto deve (per i suoi interessi politici ed economici) costruire una città funzionale alla produzione; esso può anche costruirla. E invero, dal momento che la dittatura proletaria consente di portare fino in fondo l’incompiuta rivoluzione borghese, sbarazzando così il terreno da ogni residuo pre-moderno, da ogni posizione di rendita, da ogni sopravvivenza - ormai anche storicamente del tutto arbitraria - di remore signorili che intralcino la funzionalità della produzione sociale, ecco che nella società socialista si può compiere quella operazione cui la borghesia aveva potuto soltanto dar inizio (avviluppata com’era nei compromessi, politicamente indispensabili, con le realtà sociali ed economiche ad essa preesistenti), ed ecco che nella città proletaria si può raggiungere quell’obiettivo, che i funzionalisti d’osservanza borghese avevano rincorso, ma non avevano potuto mai conseguire a causa dell’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.
Di fatto (non a caso, ma anzi proprio per tutto quel che finora s’è detto) la posizione urbanistica di radice o d’ispirazione proletaria e marxista può far divenire norma generale quella “facoltà preziosa già concessa alla città” dalla borghesia, e poi non solo limitata, ma sempre contraddetta e negata: la facoltà di disporre liberamente, negli interessi della comunità, del suolo urbano. La città proletaria, infatti, è liberata dalla servitù della rendita fondiaria.
Così, sul suolo finalmente e definitivamente affrancato dall’individualismo proprietario, possono venir progettate e costruite città più razionali ed efficienti, pienamente e rigorosamente funzionali nei riguardi della produzione, e immediatamente ordinate al servizio dei produttori, di tutti i produttori. E poiché sono gli stessi produttori a gestire il proprio consumo, si può cominciare concretamente a organizzare quest’ultimo - ovviamente, entro i limiti rigorosi e invalicabili segnati dalla necessità di estendere al massimo grado socialmente consentito il processo accumulativo - con razionalità.
La città proletaria è dunque, in primo luogo ed essenzialmente, una città di produttori: lo è, anzi, per definizione. Perciò, quando il proletario giunge al potere e costruisce la propria città, costruisce un insediamento “connesso con tutti i suoi fili, con tutta la sua vita materiale, produttiva, spirituale, all’industria socialista”; e sebbene “formalmente le aziende industriali non [ siano] responsabili della situazione e del carattere dei lavori architettonici e urbanistici realizzati nella loro città [...] , in pratica, essendo esse i centri economici fondamentali di quest’ultima, sovente determinano in misura decisiva il processo della formazione della città, la sua compattezza o frammentarietà, l’elevato o deficiente livello dei suoi servizi”.
Quando il proletario gestisce il potere, la forma della città è strettamente determinata dalle leggi della dimensione produttiva; “la logica, conseguente zonizzazione della città socialista è completamente in funzione della produzione industriale, alla cui importanza corrispondono per dimensione e ubicazione le altre zone”. E i medesimi consumi che avvengono nella città e che si concretano nelle “attrezzature collettive”, costituendo i nuclei della struttura e dell’ordine interno delle zone residenziali, vengono ad assumere questa loro forma comunitaria solo perché sono concepiti e rea1izzati essenzialmente come “i mezzi di educazione e di stimolo per realizzare quel collettivismo dell’economia domestica che può rendere atto ai lavori produttivi il 30 per cento in più della popolazione”. In altri termini, la stessa forma comune di consumo, in tanto viene prevista (e avaramente realizzata) in quanto consente di sostituire con forme più efficienti quella “economia domestica” cui è stata tradizionalmente affidata la gestione del consumo, ma che, proprio per la sua peculiare natura, mentre sfugge ad ogni rigorosa valutazione economica, comporta una indebita e inefficiente erogazione di lavoro.
Organizzare e gestire comunemente il consumo dei proletari (dunque il consumo produttivo), determina tuttavia, inevitabilmente, la necessità di riconoscere al consumo - e sia pure in modo soltanto implicito - una sua autonomia, una qualche libera e distinta presenza nella dimensione economica. Ma un consumo cui, di fatto, venga riconosciuta una propria autonomia nella sfera economica, tende poi invisibilmente a crescere, ad espandersi, a rompere e a superare gli argini del consumo strettamente produttivo; ed è per ciò che nella fase del socialismo, della dittatura proletaria, della preminenza esclusiva dell’accumulazione, le attrezzature collettive vengono realizzate, in pratica, con la parsimonia imposta dalla necessità di destinare tutte le risorse agli investimenti, e di concedere quindi il minimo possibile a un consumo che deve rigorosamente rimaner produttivo.
Quel che è certo, comunque, è che nella fase socialista le attrezzature cittadine vengono essenzialmente concepite, sul piano del consumo, come uno strumento per la soddisfazione delle più elementari esigenze della forza-lavoro, dei proletari in quanto tali. Sicché, in definitiva, si deve necessariamente concludere che la città, nell’ambito della posizione proletaria e marxista, se può certamente raggiungere una funzionalità incomparabilmente superiore a quella consentita nel quadro del dominio borghese, non può tuttavia vedere la soluzione del suo peculiare problema. Essa cioè non viene ordinata secondo una sua propria autonoma forma, ma resta - come la città della borghesia trionfante - ordinata alla produzione, e dunque ad altro da sé: resta, insomma, alienata.
9. Verso la città opulenta
Nessuna delle tre posizioni, che si sono concretamente misurate con la città del capitalismo, ha potuto risolvere la crisi del suo autonomo ordinamento formale, e sostituire alle qualità e ai valori d’uso che si erano espressi nella spesa del consumo comune dei cittadini, delle nuove qualità, dei nuovi valori - compiutamente autonomi, eppure radicati nella dimensione economica - che fossero capaci di sostanziare una nuova forma urbana. Però, mentre i primi critici moderni della “società industriale” (gli Owen, i Saint Simon e i loro seguaci ed epigoni) dovevano restar confinati, per la loro incapacità di comprendere realmente il sistema capitalistico-borghese, nel regno astratto dell’utopia; mentre gli operosi specialisti e agguerriti tecnici al servizio della borghesia dovevano limitarsi ad accompagnare lo sviluppo di quest’ultima, scontrandosi contro le sue contraddizioni; mentre infine gli antagonisti e gli “affossatori” del capitalismo borghese appiattivano la città, nel modo più rigoroso, sulla stessa dimensione produttiva capitalistica; mentre insomma, per un verso o per l’altro, la città restava inevitabilmente ridotta ad una mera “sovrastruttura” della produzione, la storia - il processo di sviluppo del sistema sociale proseguiva invece il suo cammino. Il sistema capitalistico - quale sistema rigorosamente finalizzato all’accumulazione del sovrappiù - compiva fino in fondo la sua evoluzione, e riducendo via via, nella caduta delle sue finalità, le proprie leggi a meri meccanismi tecnici, trapassava gradualmente nel sistema dell’opulenza.