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De Rienzo. Giorgio
Tommaseo: Il sapere nascosto nelle parole
22 Agosto 2005
Le parole
Ragionare non è discorrere; le parole servono per conoscere, meno per comunicare. Da il Corriere della sera del 21 agosto 2005

Maurizio Borghi raccoglie tutti insieme gli scritti in cui Niccolò Tommaseo affronta problemi e questioni linguistiche di carattere teorico, per indagare sull'origine del linguaggio o della scrittura, per discutere sull'unità della lingua italiana, per studiare il rapporto complesso tra popolo e lingua e disquisire di grammatica o sulla possibilità di dare forma all'"indicibile" ( La mirabile sapienza della lingua, Christian Mariotti Edizioni, pagine 226, e 16). È tipico di questo scrittore eclettico, inquieto e ansioso nello studiare e tentare di spiegare tutto, di impostare problemi, di sollevare questioni nella cui elaborazione si avventura per sentieri impervi, spesso cadendo magari in contraddizione. Accade anche in questi scritti, per lo più occasionali, mai sistematici che non sono dissertazioni dottrinali, ma sottili e spesso sofisticati "ragionamenti" — come dice — «intorno alla mirabile sapienza che governa le lingue» e in particolare quella italiana.

Nel Dizionario dei sinonimi Tommaseo definisce così «ragionare»: «È un parlare, rendendo, in qualche modo, ragione a sé e ad altri di ciò che si dice», ben diverso da "discorrere", perché «si può discorrere senza ragione: cosa frequente». Chi «discorre» infatti — spiega — «scorre quasi sopra il soggetto» del suo parlare; chi «ragiona» invece «appoggia» le parole una accanto all'altra in modo da rendere chiaro prima a sé e poi agli altri il senso di ciò che dice.

Pare un principio banale, ma non lo è affatto. Secondo il Dizionario della lingua italiana, compilato sempre da Tommaseo con la collaborazione di Bellini, il «ragionamento» non è «una dimostrazione dottrinale, ma un'esposizione di fatti» nel loro significato o meglio, come si apprende in questi scritti, una particolare conoscenza che si ha dei fatti e che proprio attraverso la parola via via si definisce come tale, per poi magari modificarsi man mano che le parole si snodano o si compongono tra di loro.

Tommaseo è un letterato raffinato, con una tendenza molto spiccata a filosofeggiare. Non si occupa, né tanto meno si preoccupa, di studiare la lingua come veicolo di comunicazione. Tutto al contrario la considera un pozzo inesauribile di «mirabile sapienza»: cioè di conoscenza e di invenzione o meglio ancora di invenzione inesauribile che può espandere all'infinito la conoscenza.

Per lui allora qualsiasi lingua è essenzialmente composta di «traslati». «Per intendere le parole in senso proprio — taglia corto — bisogna essere o arcade o curiale». Chi ha «più corto l'intendimento, e meno sa intendere, usare, e osare i traslati», meno conosce «il mondo esterno come simbolo delle cose invisibili». Non esplicita in questi scritti, ma fermissima, è la polemica con Manzoni: con quella concezione manzoniana che si basa invece sulla «proprietà» del vocabolario, perché una lingua sappia diventare mezzo tra gli uomini per parlarsi e non per imbrogliarsi tra di loro.

Ma l'autore dei Promessi sposi puntava a quella che noi oggi, con una brutta espressione, diciamo una lingua «veicolare»: e ci puntava motivato soprattutto da una preoccupazione morale che imponeva un'equazione necessaria tra parola e verità. Tommaseo disdegna questa impostazione. «Gli affetti — scrive — invigoriscono le lingue, le passioni e i bisogni le fiaccano. Sarebbe il tema di un libro: i significati varii dati alla medesima voce dagli uomini della medesima età in differenti paesi e nel medesimo; e le ragioni di tal varietà. Chi sapesse tutti i significati di tutte le parole di tutte le lingue, saprebbe la storia dell'umanità». Dunque per lui la lingua è tramite di conoscenza e solo incidentalmente di comunicazione.

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