Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.
In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso[2].
In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:
La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità[3].
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?
Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.
E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.
[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.
[2]L’interpretazione adottata in Italia è configurata nel seguente testo legislativo: “il principio di sussidiarietà, con l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicinaai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).
[3] Il testo dell’articolo è stato confermato nel Trattato di Amsterdam il 2 ottobre 1997, ed è divenuto l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Unione europea.