Il piano paesaggistico della Sardegna, come è noto, è stato redatto in tempi brevissimi dagli uffici della Regione e approvato con tempestività dalla Giunta Soru. La sua premessa è stata un vincolo di salvaguardia temporanea su una fascia molto estesa delle coste, da decenni devastate da furiose iniziative immobiliari. Il tempo stabilito per sostituire al vincolo il piano era brevissimo, ed è stato rispettato, grazie alla dedizione di un numero elevato di tecnici mobilitati dalla Regione (sarebbe utile confrontarlo con il tempo della produzione di piani di analoga complessità di livello locale o d’area vasta). Appena adottato è stato reso noto urbi et orbi con rarissima tempestività.
Le opposizioni generate dal piano dopo la sua approvazione sono di due ordini. Da una parte, quella degli interessi costituiti, politici ed economici. Interessi vasti e diffusi, soprattutto i secondi, ramificati in molti settori potenti della vita nazionale. La loro opposizione non stupisce: era nel novero delle cose attese. L’altro ordine di critiche ha una matrice diversa, che invece induce alla riflessione. Si critica l’invadenza della Regione nei confronti dei poteri locali. I toni della critica non mancano di asprezza, non solo là dove i portatori delle critiche sono sollecitati anche da interessi politici ed economici, ma anche dove si tratta di persone e gruppi che condividono l’impostazione, gli obiettivi, la strategia territoriale della Giunta Soru.
Dalla Sardegna alla Toscana la distanza non è molta. E mentre in Sardegna si critica l’invadenza della Regione, sul versante continentale si protesta per i documentati danni che l’eccessiva compiacenza della Regione verso i comuni provoca: Monticchiello non è che la punta di un iceberg, si dice, la Regione si è legata le mani e i piedi, ha decretato l’autonomia piena dei comuni e così non può intervenire anche quando i municipi promuovono “schifezze” che guastano paesaggi celebrati nel mondo.
Riconosciamolo con franchezza: nelle file sparpagliate dei difensori del paesaggio e dell’ambiente, e nei mondi culturali e politici di cui sono l’espressione, alberga una grande confusione. E proprio su una questione che è fondamentale per la decenza stessa del sistema democratico rappresentativo. Quando le divisioni si manifestano all’interno di un fronte che è minacciato dalla pervasiva potenza degli interessi immobiliari occorre fare il massimo sforzo per superarle. E quando esse derivano dalla confusione, il primo obiettivo è far chiarezza al più presto: pena, la sconfitta dei valori di cui si vuole essere i difensori.
Per fare chiarezza, crediamo che si debbano innanzitutto superare alcuni miti che si sono diffusi negli ultimi anni. Il primo mito è che la cooperazione tra enti diversi (la “copianificazione”, come l’hanno ribattezzata gli urbanisti) sia una panacea, e non una procedura da applicare rispettando un principio essenziale: quando più decisori tentano l’accordo, occorre che sia chiaro chi decide nel caso che l’accordo non si raggiunga entro tempi stabiliti. Il secondo mito è che “piccolo” sia sempre “bello”, che l’istanza della democrazia “più vicina ai cittadini” sia la migliore di tutte per definizione stessa della democrazia (come se non fosse sempre il medesimo popolo a eleggere il governo del comune, della provincia, della regione e dello stato).
Sarebbe forse il caso, sul terreno dei criteri da assumere nelle regole della democrazia, di cominciare di nuovo a riflettere su quel “principio di sussidiarietà” che, nato in Europa per accrescere il potere del governo dell’Unione nei confronti di quelli degli stati nazionali, è stato adoperato in Italia in senso inverso: da alcuni – la destra leghista - come manganello per sconfiggere lo stato, da altri – il centrosinistra - come ripiego strumentale per rendere innocuo il manganello. Sussidiarietà non significa (quante volte lo si è scritto su queste pagine!) che tutto il potere possibile deve essere gestito dal livello più basso, e che solo il residuo merita di essere lasciato alle istanze provinciali, regionali, statali. Significa che di ogni decisione è attribuita a quel livello che meglio degli altri può assumerne la responsabilità, dal punto di vista della scala dell’azione e dei suoi effetti.
E sarebbe poi il caso di ragionare anche, sul terreno crudo dei fatti e delle loro cause, sul perché le popolazioni che più direttamente vivono i paesaggi che formano l’Italia, eredi di quelle stesse che li hanno costruiti nei secoli, ne siano diventati oggi, nella maggioranza dei casi, i più attivi demolitori. Schiave anch’esse dell’aberrazione per cui la felicità delle persone e dei gruppi sociali si raggiunge consumando e dissipando oggi ciò di bello e di utile che nei secoli è stato progressivamente formato, e che nei secoli meriterebbe di vivere: un’aberrazione che è la diretta conseguenza di una concezione dell’economia che vede nella quantità della produzione di merci l’unico parametro del progresso, e di una pratica della politica che di quell'economia la vede serva.