Mi piacerebbe che chi governa, e chi si propone di farlo, partisse dalla valutazione degli interessi materiali e morali delle cittadine e dei cittadini. Non solo di quelli di oggi, ma anche di quelli di domani, e che su questa convinzione basasse le sue scelte a proposito dei patrimoni della cultura, del paesaggio e del territorio. Non solo di quelli che hanno voce in capitolo, ma “dell’uomo che va in tram”, per usare il titolo di un bel libro di Carlo Melograni: della donna e dell’uomo che lavora, che vive col suo salario, che non usa l’automobile per andare al lavoro, non usa la scuola privata per i suoi figli, non si cura a Lugano ma alla ASL locale.
Mi piacerebbe che perciò dimostrasse consapevolezza del fatto che, in una società complessa come la nostra, molte esigenze vitali possono essere soddisfatte solo con un forte rilancio dei valori, e degli strumenti, della collettività in quanto tale, e quindi anche del pubblico: penso alla scuola, alla salute, alla mobilità, all’abitare. E penso a una cultura ridotta a distorcente spettacolo e a veicolo di consumi inutili e sempre più spesso dannosi (lo dimostrano le nuove malattie sociali, come l’obesità), a causa anche di una colpevole assenza di impegno, dei partiti non accucciati nella difesa degli interessi dominanti, sul terreno cruciale delle comunicazioni di massa. (Un’assenza, occorre precisare, che non è cominciata con il governo D’Alema).
Mi piacerebbe che riconoscesse che la scomparsa delle grandi ideologie (e quindi dei grandi progetti di società, dei grandi ideali, delle grandi speranze) ha delegittimato i partiti, e che quindi, se questi non vogliono ridursi a camarille preoccupate solo di conservare il propria fetta di potere, la ricerca e la promozione della partecipazione popolare è una scelta obbligata, non un optional: è l’unica strada attraverso la quale si può tentare (con molta fatica, con molto impegno, con molta intelligenza) di ritrovare una sintonia durevole tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, e quindi le ragioni di una nuova politica.
Per tutte queste ragioni (e anche perché sono un urbanista) mi piacerebbe che il tema di fondo, attorno al quale tutti gli altri si annodano e trovano riscontro, fosse quello del governo della città e del territorio. Non nell’astrazione delle tecniche che di loro si occupano, ma nella loro concretezza, nella fisicità, nella funzionalità e nella disposizione dei loro elementi: le case (disponibili o no per chi ha un reddito di lavoro) e le strade (libere per i pedoni, le carrozzine, le biciclette e i tram, oppure intasate di automobili), le campagne (destinate alla ricreazione, alla salute, alla produzione di derrate sane, oppure all’edificazione attuale o futura) e i fiumi (utilizzati dalle acque che scorrono sopra e sotto il suolo e alimentano le nostre essenziali risorse, o dalle costruzioni in golena e dai rifiuti in alveo), i servizi scolastici, sanitari, commerciali, sportivi (facilmente accessibili, collegati da una rete di percorsi piacevoli e sicuri, oppure casualmente sparpagliati sui lotti residui e marginali) e i servizi di trasporto collettivo (comodi, frequenti, intelligentemente connessi nelle loro modalità e disegnati in relazione alla domanda di mobilità, oppure casualmente collocati segmento per segmento e distrattamente gestiti).
È la politica urbanistica insomma, nelle sue tre funzioni strategica, regolativa e operativa, che dovrebbe essere insomma al centro delle discussioni e decisioni politiche, nelle città e nelle province. E domani, molto presto, anche nelle regioni e nella Repubblica. È su questi temi che le opzioni delle diverse parti dovrebbero essere chiare, la scelta tra i diversi interessi esplicita, il consenso popolare (del popolo, non dei soliti interessi forti) attivamente ricercato. Non mi pare – almeno dalla lettura dei giornali e dagli sporadici riscontri personali – che di questi temi si parli molto, nel paese oscillante tra un berlusconismo con Berlusconi e un berlusconismo senza.