L’imbecillità degli sciacalletti di periferia amministratori della Banana non meritano davvero altro che il sarcasmo della lettera che Mariangiola Gallingani mi ha inviato. Non c’è nulla da aggiungere alle sue parole: leggetela (il link è qui sotto), e se non siete d’accordo scrivetemi. L’articolo di Michele Serra (anche il collegamento che vi ci conduce è qui sotto) apre la strada a una riflessione più profonda. Il suo articolo mi sembra quasi interamente condivisibile (la riserva riguarda quella frase sulle “le risposte sbagliate perché brusche, e presuntuose”, il cui bersaglio non mi è chiaro). È condivisibile ma va sviluppato..
Serra conclude con una domanda: “Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l’Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica?”. Già, soprattutto quando si tratta di ragionare “sulla propria vita quotidiana”.In quale sede la politica dovrebbe affrontare “il discorso su bellezza e bruttezza”? Questo è il problema. A molti dei frequentatori di questo sito la risposta à evidente. La sede è quella del “governo della città”, dei suoi obiettivi, strumenti, tecniche. La sede è quella della scelta tra gli interessi che nella città confliggono. La sede è quella della pianificazione territoriale e urbanistica. È questa sede che la politica da tempo ha disertato,e continua a disertare.
Chi si occupa professionalmente di questioni urbane non ignora che le periferie costituiscono, non da oggi, un problema. Spesso, si è descritto perché quel problema è nato,per effetto di quali errori e del prevalere di quali interessi; spesso si è indicato come affrontarlo e a quali condizioni è oggi possibile risolverlo. In altri paesi il problema non è rimasto solo all’attenzione deli urbanisti: lo hanno affrontato nella realtà, gettando in campo il peso di un’amministrazione pubblica autorevole ed efficace, dotata di strutture tecniche di prim’ordine, e di una volontà politica lungimirante e durevole: penso alla Francia e alla ristrutturazione urbanistica e sociale di aree come Vaux-en-Velin, e all’attuale politica di smobilitazione dei Grands Ensembles.
Ma le periferie non sono tutte uguali. Una cosa sono le periferie progettate in regime pubblicistico, nelle città amministrate da forze politiche che, tra i diversi interessi in campo, privilegiavano quelli dei cittadini su quelli della proprietà immobiliare e della speculazione . In quelle città sono nate periferie civili, “europee”, in cui a ciascuno di noi (per riprendere un passaggio dell’articolo di Serra) piacerebbe abitare. Quantri sindaci, in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria hanno scelto di abitare nelle periferie dei PEEP. Io personalmente ne ho conosciti parecchi (e ricordo con commozione quello di Grosseto, Giovanni Battista Finetti, prematuramente scomparso molti anni fa).
Certo, anche in alcune delle “periferie pubbliche” sono stati commessi errori: le Vele di Scampìa a Napoli, lo Zen di Palermo, il Corviale a Roma. E sono errori nei quali anche gli urbanisti hanno avuto la loro parte. A me sembra (ma voglio provocare una discussione anche su questo punto) che il loro errore principale sia stato d’aver creduto troppo nella capacità della politica di fare il suo mestiere: di saper modificare le condizioni generali (urbanistiche, amministrative, gestionali) che quegli interventi pretendevano per essere completati. Hanno costruito cattedrali nel deserto perché chi doveva occuparsi di trasformare quel deserto in un giardino non è riuscito a farlo.
Certo, si tratta di errori. E gli errori vanno criticati, anche se sono errori di “valutazione del contesto”, di astrattezza, di illuministica fiducia in una realtà desiderata ma impossibile.
Ma da errori ben diversi sono state generate la stragrande maggioranza delle periferie che oggi costituiscono l’ambiente della non vivibilità, il luogo della socialità inesistente, la culla del disagio patologico, che il delitto di Rozzano ha portato allo scoperto. L’errore, in queste periferie, ha un solo nome: la scelta politica di privilegiare gli interessi economici legati allo sfruttamento più rapace, più immediato, più miope (ma più lucroso) della risorsa collettiva costituito dal suolo urbano. La Napoli raccontata da Francesco Rosi nel film Le mani sulla città e la Roma illustrata da Italo Insolera nel libro Roma moderna sono descrivono magistralmente logiche analoghe di asservire la forma e la sostanza della città, e i destini di migliaia di uomini, alle fortune personali di pochi malfattori. Quella logica non è morta; la realtà analizzata da Rosi e da Insolera è ancora viva. Come direbbe Bertold Brecht, il grembo che le ha generate è ancora fertile.
È di questo che la politica dovrebbe parlare, e non di sottrarre potere all’uno o all’altro livello dello Stato (ora si parla di trasferire alle Regioni le competenze delle soprintendenze ai beni culturali) o di imbellettare qualche quartiere premiando le architetture griffate (è la novità lanciata da Urbani). È di questo che dovrebbe parlare se volesse fare il proprio mestiere, come Serra auspica, e se volesse intraprendere qual lavoro di lunga lena, di ampia prospettiva, di durata misurabile in molti mandati elettorali, che è necessario per restituire alle nostre città la bellezza che i decenni della speculazione hanno loro sottratto.
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scritti di Gallingani, Serra, Salzano (e altri)