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Eddytoriale 143 (22 settembre 2010)
22 Settembre 2010
Eddytoriali 2010-2012

Novità certamente positive. In primo luogo perché dimostrano l’estensione e la molteplicità della resistenza al trend distruttivo. Ci si mobilita per la difesa di essenziali beni comuni che devono essere disponibili per tutti gli abitanti del pianeta, come per la quercia millenaria che si vuole abbattere per costruire un ponte inutile e dannoso. Si contesta alla speculazione immobiliare l’area sistemata a verde di vicinato, e ci si batte contro la riduzione della sfera pubblica come possibilità d’incontro per protestare e proporre. Si lotta per un apprendimento aperto a tutti, come per i diritti del lavoro duramente conquistati e pesantemente minacciati. Ci si oppone alla riduzione dei servizi del welfare, come all’erezione di monumenti utili solo agli affaristi (e spesso alle mafie).

Sono novità positive anche, e forse soprattutto, perché sottolineano la possibilità (oltre che la necessità) di aggregazione, in assenza della quale ogni solida affermazione di un’alternativa è negata. Frammentazione e dispersione condannano a restar subalterni al cospetto di forze e tendenze (quella della globalizzazione capitalista) che hanno un carattere generale, di sistema, e che dispongono di mezzi materiali e immateriali che consentono loro di esercitare il loro potere in modo estensivo e penetrante. Frammentazione e dispersioneendono particolarmente difficile far nascere, per contrastare l’ideologia prevalente, una contro-ideologia (per adoperare i termini di Antonio Gramsci, un italiano il cui pensiero è oggi più frequentato all’estero che nel suo paese).

Gli elementi positivi espressi dalle novità nascondono tuttavia un elemento problematico. Perché le differenti azioni di critica, di protesta e di contrasto, e le proposte alternative che ne scaturiscono, raggiungano una sufficiente unitarietà, occorre che entrino nella vertenza contro il saccheggio dei beni comuni due dimensioni: la politica e l’urbanistica. Vogliamo oggi soffermarci su quest’ultima, perché più peculiare a questa sede. Vogliamo sottolineare l’esigenza che la pianificazione urbanistica (più propriamente, la pianificazione delle città e dei territori) non venga più considerata come una congerie di adempimenti burocratici e di procedure incomprensibili, né come il luogo nel quale inevitabilmente prevalgano gli interessi dell’urbanizzazione intesa come cementificazione del territorio, ma venga considerata - e pienamente diventi - uno dei principali strumenti mediante il quale la collettività esprime il suo progetto di uso, conservazione e trasformazione della porzione del pianeta Terra che gli è dato di abitare.

Bisogna allora in primo luogo prendere consapevolezza di ciò che il territorio è. Esso non è la mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.). Di conseguenza non è comprensibile, e quindi neppure governabile, secondo approcci che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo. Il suo destino non è dominabile affrontando separatamente l’uno o l’altro degli elementi che lo compongono.

Il territorio è comprensibile, governabile, dominabile unicamente se lo si considera come sistema, nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo, per riprendere la definizione non di un urbanista, ma di uno storico dell’ambiente e della società, Piero Bevilacqua.

La pianificazione è lo strumento (più precisamente, il metodo e l’insieme degli strumenti) inventato per poter governare il territorio in modo coerente con il suo carattere sistemico.Programma le trasformazioni del territorio nel loro complesso, quindi tenendo conto delle reciproche interrelazioni tra le varie parti e funzioni. Definisce le regole delle trasformazioni, quindi è in grado di tener conto delle differenti esigenze di tutela espresse dalle qualità delle diverse parti del territorio. Dopo la “legge Galasso” del 1985 può assicurare la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio su ogni altra trasformazione. Può stabilire i tempi e le priorità delle azioni, quindi controllare i loro effetti sulle condizioni di vita del territorio e della società che lo abita. Rende visibili, controllabili, criticabili e migliorabili le trasformazioni nel loro insieme. Può (se le procedure sono accortamente stabilite e rigorosamente rispettate) consentire un processo delle decisioni aperto e democratico.

Naturalmente, la pianificazione è anche la sede nella quale si esprimono i conflitti tra le diverse utilizzazioni del territorio. Poiché alcune di queste sono estremamente remunerative per i proprietari ma in contrasto con gli interessi della collettività (e in particolare delle sue componenti più deboli), essa è un terreno di scontro politico e sociale. O meglio, può esserlo se alla pianificazione viene assicurata la trasparenza che ne è parte costitutiva.

Raramente, in Italia, la pianificazione è stata applicata bene.

Lo è stata quando per la politica il territorio era importante (era la casa della società), e quindi lo era la pianificazione. Qualche tempo fa abbiamo sentito in una registrazione Renato Pollini, il mitico sindaco di Grosseto negli anni 50 e 60 del secolo scorso, ricordare che allora, per il partito maggioritario (era il PCI) la scelta politica più importante, che gli assicurò un lungo successo di consensi, fu la decisione di fare il piano regolatore, tra i primi nell’Italia del dopoguerra. Oggi per la politica il territorio esiste in ragione della sua “vocazione edilizia” (espressione che fa inorridire); è divenuto lo strumento dello “sviluppo”: del trionfo dell’immobiliarismo e dell’espansione della rendita urbana, componente parassitaria del reddito secondo la scienza e il pensiero liberale. Nella recente sessione della Scuola di eddyburg abbiamo ragionato a lungo su questo argomento.

Ed è stata applicata bene quando l’urbanistica era un mestiere del quale la prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale era la base di una deontologia non scritta né giurata, ma praticata fin dalle università. Oggi gli urbanisti si dividono in due grandi categorie: i “facilitatori” degli interessi immobiliari, e delle ambizioni dei sindaci che li favoriscono, e gli “urbanisti in trincea” nelle amministrazioni pubbliche, il più delle volte dominate da quegli stessi interessi, o, nel migliore dei casi, ridotte all’impotenza dalla scarsità delle risorse.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate. La pianificazione fu finalizzata non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogni che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche delle classi lavoratrici riuscirono a strappare. La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Lefebvre, lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).

Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchì i propri strumenti, finchè – negli orribili anni 80 – questa venne via via abbandonata.

Oggi stanno riemergendo i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” diventano parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni. Ciò può essere ottenuto solo da una politica che riprenda il suo ruolo di sintesi dei bisogni e delle soluzioni nell’interesse generale, e da una pianificazione delle città e dei territori guidata da quella politica, che sappia assumere come criterio di valutazione d’ogni la domanda: a chi giova, e chi ne paga il prezzo?

Questo sembra maturare nell’esperienza dei gruppi di cittadinanza attiva più sensibili alle esigenze generali di trasformazione della società, delle sue regole, del suo rapporto con il territorio, e con il futuro di noi tutti. Se quelle esperienze diventeranno il lievito del vasto mondo di associazioni, comitati, reti impegnati nella resistenza al saccheggio, si potrà avviare a una duratura inversione di tendenza.

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