All’inizio del secolo una scommessa era davanti all’Occidente: davanti a quella civiltà nata sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate, sviluppatasi nel Delta del Nilo e nelle pianure della Galilea, nelle isole dell’Egeo e nel Peloponneso, poi sulle rive del Tevere e da qui propagatasi all’intera Europa, infine – arricchita dall’assimilazione delle culture di altri popoli indigeni e allogeni – radicatasi nel segno della libertà al di là dell’Atlantico. La scommessa, ambiziosa ma possibile, di esportare i propri valori faticosamente costruiti nel corso di millenni mediante un dialogo e uno scambio tra eguali, che permettesse all’Occidente di assimilare i valori (diversi, ma non per questo meno preziosi) maturati nell’ambito di altre civiltà e altre storie.
L’arrogante e violenta iniziativa di Bush e del possente gruppo di potere di cui è l’espressione ha fatto sì che la scommessa fosse perduta. La poderosa (ma spesso cieca) armata americana non ha solo spezzato l’esercito di Saddam: ha infranto le speranze di uno sviluppo del mondo fondato tra il dialogo tra le culture e le fedi. Qui sta la ragione della pertinace predicazione di papa Wojtyla, l’unico tra i potenti ad aver compreso qual era la posta in gioco, e perciò il più conseguente avversario di questa guerra.
All’estremo opposto (il nocciolo della Matrioska) è il suicidio dell’Italia. Dominata dal peggiore ceto politico che abbia mai abitato tra le Alpi e il Canale di Sicilia, in preda a un’accozzaglia di personaggi unificati solo dalla proterva volontà di sostituire sistematicamente l’interesse privato a quello comune, di saccheggiare il futuro in nome del massimo sfruttamento del presente, la nazione sembra condannata a un destino mortale. Non si vede infatti nessun segno di un’alternativa realmente capace di presentarsi come tale: dotata cioè di valorialternativi a quelli del signor B., capace di dare rispostecoerenti con tali valori, unita perché capace di fare della diversità di posizioni una ricchezza, impegnata nel delineare la strategia e il programma di un’opposizione di governo.
Il settore di maggior confusione è certamente la sinistra. Ad essa è affidato il maggior carico di responsabilità e di speranza: per il suo patrimonio ideale, per la sua potenziale forza organizzativa, per la sua residua consistenza, per l’attenzione che le riserva la più vitale delle reazioni al berlusconismo (quella dei girotondi, del sindacato, delle bandiere arcobaleno). Essa è oggi lacerata in un conflitto nefasto perché tenacemente racchiuso nei giochi sterili delle etichette, dei personalismi, delle piccole tattiche delle burocrazie di partito. Bisogna dirlo: per colpa (o per errore) di quanti hanno governato e governano le formazioni politiche della sinistra, di quanti sono stati ripetutamente sconfitti e (caso anomalo nel mondo democratico) non hanno saputo, dopo la sconfitta, farsi da parte.
Tra l’uno e l’altro suicidio sta quello dell’Europa. In questo caso, più che di suicidio si dovrebbe parlare di assassinio. A me sembra infatti abbastanza chiaro che non rispondere come hanno fatto Chirac e Schröder avrebbe significato piegarsi alla prepotenza di Bush è smarrire ogni speranza di autonoma collocazione dell’Europa nello scacchiere mondiale: ridurre l’Europa al ruolo di satellite, come avrebbe voluto il signor B. Ma tant’è. Nel pieno del difficile percorso per allargare i propri confini e per stabilire il proprio statuto, per uscire dal regno dell’economia e farsi Europa nel regno della politica e dei valori civili, il continente ha visto rialzarsi le barriere tra i diversi stati, ridurre il suo peso politico, allontanarsi la speranza di giocare un ruolo strategico di dialogo e pace tra le civiltà, le religioni, le culture.
Eppure, io credo che sia qui, nella capacità dell’Europa di riprendere il suo cammino, la speranza per un futuro che recuperi i valori dell’Occidente, devastati dalla guerra di Bush. Non abbiamo visto, del resto, l’Europa unificarsi - al di là delle differenze tra i governi - nelle manifestazioni per la pace, e attraverso i simboli di “Pace adesso”, “No alla guerra del petrolio”, legarsi alle analoghe proteste e speranze al di là degli oceani?