Voleva essere un’addolorata protesta perché i gravissimi problemi dell’ organizzazione della città e del territorio (creazione e luogo privilegiato della vita degli uomini, oggi e qui devastati scenari del loro disagio quotidiano) vengono da alcuni decenni del tutto trascurati da chi governa e da chi aspira a governare. Eppure, benché neppure una parola sollecitasse a sospettare un’intenzione corporativa, il dubbio a qualcuno è venuto. Mi sono domandato perché. Quando il mio interlocutore è in buona fede penso sempre di avergli dato io l’occasione di cadere in errore: per me non è una formula di cortesia dire “non mi sono spiegato”, invece di “non hai capito”. Dov’era allora l’appiglio dell’equivoco? Perché si è potuto pensare che la lettera fosse in difesa degli urbanisti invece di essere in difesa della città e del territorio?
Ho capito perché. L’invito a firmarla era rivolto agli urbanisti e sono gli urbanisti che l’hanno firmata. L’equivoco non sarebbe nato se mi fossi rivolto, per cercarne l’adesione, a chi usa la città e il territorio e patisce gli errori del suo malgoverno: alle cittadine e ai cittadini. Ma è stato davvero un errore il mio? Riflettendoci mi sono convinto di no, e voglio spiegarne le ragioni.
Non ritengo affatto che gli urbanisti – che noi urbanisti – si sia degli eroi o dei santi. Non ritengo che si abbia un senso civile, una sensibilità politica, una capacità di anticipare il futuro più elevata (né più povera) di chi pratica e condivide altri mestieri e altri saperi. Né credo che la nostra “ comunità scientifica”, che la cultura urbanistica italiana sia stata e sia scevra di errori: come altre comunità e altre culture. Solo che il nostro mestiere, e ciò che ci sforziamo di sapere, ci induce a essere esperti della città e del territorio. Non in concorrenza con gli altri che se ne occupano distintamente da noi (i geologi e i politici, gli economisti e i naturalisti, i geografi e i sociologi, i giuristi e gli statistici, gli architetti e gli ingegneri) ma assumendo per conto nostro la missione di tener conto dell’insieme dei fattori che caratterizzano lo spazio della vita della società, e studiandoci di individuarne l’organizzazione più efficiente rispetto agli obiettivi (di funzionalità, di equità, di bellezza, di durevolezza) che la società si pone (e ci pone). L’organizzazione migliore dello spazio, nell’immediato e soprattutto nel tempo, è il nostro mestiere. Che si interseca e scambia utilità con quello dell’ambientalista e quello del politologo, ma non si confonde né si sostituisce ad essi.
Ecco allora una buona ragione per rivolgersi in primo luogo agli urbanisti quando si vuole protestare perché l’organizzazione e il destino della città e del territorio sono ignorati dalla politica. Sono i primi a comprendere che qualcosa non va e qualcos a si comprometterà irrimediabilmente se la politica trascura il territorio: perché è alla politica che spetta, in ultima analisi, quel “governo del territorio” di cui essi e le loro pratiche sono uno strumento. Certo, tra i clercs sono anche i primi a pagare: quando la politica si disinteressa della città e del territorio (della “casa della società”): anche il loro ruolo sociale decade. Né possono rifugiarsi nella solitudine degli studi, come è dato di fare ai portatori di altri saperi, poiché il loro mestiere è finalizzato all’agire.
Quindi, in definitiva, è anche in loro difesa che gli urbanisti hanno firmato la lettera al direttore di Micromega: non però in difesa del potere della loro corporazione, ma dello specialismo che offrono alla società e del quale la società deve avvalersi, pena l’ accumularsi di sofferenze d disagi, di sprechi e di sopraffazioni.