Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno su di un camion. Le strade erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali i miei genitori riuscissero a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul quale erano accumulate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio non ricordo gran che; ricordo l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon, tra due alte rive di macerie, alte quasi quanto lo erano le case demolite dai bombardamenti.
Andammo ad abitare a Palazzo Ottaviano, un palazzo nobile all’inizio di via Chiaia, dove c’era, e c’è ancora, la famosa pasticceria Caflisch: di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un appartamento di amici (Fernanda Del Balzo di Presenzano, nota per la passione per il gioco, che soddisfaceva a Montecarlo), molto bello e grande, al primo piano, con una gigantesca terrazza a livello. Aveva un solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente non esplosa, che però con il suo peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti. Ma aveva una gigantesca terrazza, aperta su Via Chiaia, proprio sul centro elegante della città.
La casa del Corso era stata veduta, non ricordo se prima del nostro arrivo a Napoli o subito dopo. Per 10 milioni. E si scoprì che l’impresa di papà praticamente non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco a poco furono vendute.
Cominciai a conoscere amici nuovi: ragazzi e ragazze che erano diventati adolescenti come me negli anni della guerra. Oltre agli amici d’un tempo (con Riccardo e Renato prendemmo la prima gigantesca sbornia di vin santo), i primi amici nuovi li conobbi a scuola: al Ginnasio-Liceo Pontano, dove completai la confusa formazione degli anni della guerra. Ammiravo un intelligentissimo e coltissimo ragazzo ebreo, Gianni Eminente, con cui gareggiavo nell’indovinare gli autori dei brani di musica classica e nel risolvere indovinelli colti. Ricordo Nello Ajello, con cui non ci frequentavamo molto ma che condivideva con me il ruolo del migliore della classe in italiano (i nostri temo venivano premiati col massimo dei voti, che era il 7, e che ci obbligavano a portare il giorno dopo confetti a tutta la classe); Nello è diventato un famoso giornalista, una delle migliori penne delle pagine culturali di Repubblica. Ricordo i fratelli Marino: Paolo, sordo e ottimo violinista, Angelo spigliato rubacuori: sulla scia (e con le risorse) dei loro genitori, sono diventati facoltosi commercianti di abbigliamento maschile, con negozi nelle strade eleganti di Chiaia e Toledo. E Franco Persico, e Lello Pagliarulo, vocianti e grezzi adolescenti senza pensieri, con i quali condividevamo le fughe da scuola, per sfuggire a un’interrogazione difficile rifugiandoci nei cinemetti in Galleria o evadendo, nella buona stagione, verso le scogliere di Posillipo.
Le ragazze si incontravano ai balletti: festicciole, con aranciate e dischi suonati sul fonografo a manovella: cominciavano appena ad apparire quelli elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito USA. Attraverso i dischi cominciai ad imparare l’inglese: Frank Sinatra fu un maestro molto migliore da quella signora, non ricordo come si chiamava, dove andavo una volta alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest. Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. Su Via Caracciolo era stato riaperto, con aiuti degli Alleati, la nuova sede del Circolo del Tennis, uno dei luoghi di ritrovo dell’aristocrazia napoletana.
Né lo sport né i balletti mi guarivano dalla mia timidezza. Ricordo l’imbarazzo quando, per far colpo, mi presentai a un balletto dalla nipotina di benedetto Croce con il maglione e le scarpe da tennis. Credevo di far colpo, mi sentii sprofondare quando mi resi conto (o immaginai) che gli altri mi guardavano con disprezzo dall’alto dei loro abiti eleganti.
Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che andavo in quest’isola, che ogni giorno per dieci anni - quando abitavamo a Corso Vittorio Emanuele 130 - avevo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del Golfo. Eravamo in un piccolo albergo vicino alla Strada Krupp. Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti con molta forza.
Un concerto per pianoforte in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i Faraglioni immersi in una intensa luce lunare. Fu lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una ragazza di poco più grande di me, poetessa. Mi insegnò ad amare Rabindranath Tagore, un poeta indiano. Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dell'albergo, sapeva tutto d'ogni cosa: non c'era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse è allora che sognai di diventare ingegnere.
E fu a Capri che conobbi una ragazzina bionda con gli occhi celesti, di cui m'innamorai. Caterina Galli si chiamava. Figlia di amici dei miei genitori, amica delle mie sorelline. La rividi a Roma. Le feci la posta negli ombrosi corridoi della casa a Monte di Dio 18, dove ci eravamo trasferiti, le strappai un esitante umido bacio. E qualche volta andavamo a passeggio per le stradine di Posillipo, vicino al Mausoleo Virgiliano ('a tomba 'e Schilizzi, la chiamavano i napoletani, dal nome del signore che volle costruirvi il suo mausoleo, poi fallì prima di morire e potervi essere sepolto). Ci scrivemmo lettere d'amore che ho perduto.
Un luogo che frequentavo spesso, d'estate, era Sorrento. Eravamo andati lì in villeggiatura i primissimi anni di guerra, all'Hotel Victoria, il più bello e lussuoso. Un insopportabile bambino, di cui ho subito dimenticato il nome, recitava a memoria, appena erano stati letti dall'annunciatore dell'Eiar e fino al giorno dopo, i bollettini di guerra. Dalle terrazze dell'albergo vedevamo, di notte, i fuochi dell'artiglieria contraerea senza sentirne i rumori, mentre come lontani boati ci giungevano gli annunci delle bombe esplose sui quartieri del porto e della zona industriale.
Dopo la guerra andavo a Sorrento da solo, da amici che avevano una bellissima villa decadente, a Piano di Sorrento: i principi di Fondi. Un grande giardino pensile si apriva sul mare. Una fotografia che mi è rimasta ricorda una ragazza bionda, Giuliana Silvestri, che corteggiavo in gara con il mio amico Renato Ruggiero. Ma ciò che soprattutto mi rimane nella memoria sono le semplici prime colazioni, costituite da una scodella di caffellatte, sapide fette di ottimo pane e meravigliose noci schiacciate in grandi quantità.
Prima del fascismo c'erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l'antica organizzazione, fondata dopo la guerra dei Boeri da lord Baden Powell. Ci organizzavano e portavano in giro due amici di mio padre, l'ingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un simpatico e distinto commerciante di tessuti. Cominciammo con una gita alle pendici del Vesuvio. Rimasi indietro, perché a uno dei piccoli figli di Cosenza (non ricordo se Giulio o Giancarlo) scoppiò un febbrone. Fummo lasciati in un campo, tra le stoppie, dall'imbrunire alla notte, mentre gli altri raggiungevano il luogo dell'accantonamento, finché il padre tornò a prenderci e ci riportò in città.
Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a quello che poi i boy scout divennero più tardi: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo uniformi raccogliticce: pochi fortunati avevano l'uniforme e il cappello del padre (ricordo solo Franco Cavallo), gli altri si arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli, aiutandosi con una pignatta a mo’ di forma e un ferro caldo.
La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo dotati di fazzoletti da collo bordeaux, "nastrini omerali", fischietti col cordoncino, bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati da Piazza Sannazzaro, al Vomero, si entrava in aperta campagna. Ai pochi casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, fino a quello che avvolgeva l'Eremo e nel quale ci accampavamo.
A volte pernottavamo nelle tende messe su alla meglio. All’inizio erano vecchie coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi qualche ufficiali degli Alleati, che vedevano di buon occhio la sostituzione dei Balilla fascisti con la democratica istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi, il timore erano i lupi che - si diceva - erano scappati con la guerra dallo Zoo della Mostra d'Oltremare, ai piedi della Collina dei Camaldoli.
Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Piano piano (e soprattutto qualche anno dopo) conobbi la sua storia. Generoso e irruente quando ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo a corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra il V’omero e i Camaldoli), queste caratteristiche presiedevano tutta la sua vita. Comunista, era stato amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del PC d'Italia, ingegnere come lui. Negli anni del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli architetture a Napoli, con il famoso Rudofsky.
Era una delle figure eminenti dell'ala intellettuale del PCI a Napoli. Un altro che ricordo, ma che non conobbi di persona, era il grande matematico Renato Caccioppoli. Geniale nel suo mestiere, grandissimo musicologo e musicista, era legato da vincoli familiari all'anarchico Michele Bakunin. Quando lo ricordo insegnava ancora all'Università (ma non ho frequentato i suoi corsi), e si aggirava la sera nelle strade di Napoli avvolto in un impermeabile bianchiccio, vacillante per l'alcool e la droga.
Cosenza non era matematico, ma ingegnere: portato alla pratica più che alla teoria, dunque. Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio all'ingresso nella NATO, repressa dalla polizia) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e ottenne l'incarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale.
Invece del carcere progettò la nuova sede della facoltà d'ingegneria, a Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli. Abitava in una casa con una splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano gli animali che volta per volta amava. Una volta aveva avuto un leoncino, che nel tempo era cresciuto. Si racconta che una volta chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuoli: "Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra d'Oltremare, che porto Leo a giocare con i suoi amici?". Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero: "Senz’altro, la macchina è grande": si spaventarono molto quando scoprirono che Leo era il nome di un leone.
Aveva un fratello più giovane di lui, Carlo. Più giovane e più mondano. Era infatti nel giro dei miei genitori. Era innamorato di una ragazza, la cui bellezza ancora mi rapisce: Carlottina Del Pezzo, si chiamava. Un giorno si ammazzò, per amore si disse.
Dopo l'esperienza dei boy scout prendemmo l'abitudine di andare a fare dei campeggi per conto nostro. Allora era molto diverso da adesso: poche cose sono più distanti dei campeggi come li ho vissuti in quegli anni dai camping che costellano le coste del Mediterraneo.
Si partiva con robusti sacchi e, per le gite più lunghe, grandi rotoli in cui erano stretti i teli delle tende e le coperte. Scatolette, qualche pentola, indumenti caldi, lampade a petrolio e ferramenta varia erano d'obbligo. A volte un mulo ci accompagnava per i fardelli più pesanti e i sentieri più impervi. Una volta raggiunto il punto dell'accampamento, si passava la giornata ad accudire al campo, giocare a carte, esplorare i dintorni. Ogni due o tre giorni una passeggiata di corvée al paese più vicino per comprare la pagnotta fresca e qualche alimento.
L'intelligenza era di scegliere un posto riparato, tra ombra e luce, vicino a vegetazione da usare per ammorbidire il suolo sotto il fondo della tenda, non distante da una sorgente dove approvvigionarsi per bere e cucinare, lavare i panni e le stoviglie (che strofinavamo con cenere e terra).
Ricordo un campeggio a Sant'Angelo ai Tre Pizzi, nei Lattari, tra la Costiera amalfitana e quella sorrentina. Le tende erano sulle pendici di una sella, al limitare del bosco, su un pendio coperto di morbide felci. Ero di guardia accanto a un fuoco ormai ridotto a poche braci rosseggianti. L'alba ancora non appariva e la luna era appena scomparsa, ma la sua residua luce rivelava i brandelli di nebbia sul fondo della sella. All'improvviso delle luci più forti, l'abbaiare dei cani, e un certo numero di uomini con i fucili a tracolla animarono il paesaggio: cacciatori, in marcia d'avvicinamento. Non ci videro. Dopo qualche istante il silenzio e la nebbiolina lattiginosa ripreso il dominio. La rapida scena, e l'emozione, mi sono rimaste impresse.
A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. Gli scugnizzi d'estate si gettavano in mare dalle scogliere prospicienti Via Caracciolo (ma a noi, ragazzi per bene, era proibito: già si diceva che non fosse igienico). Uno stabilimento frequentato era però il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si stacca la collina di Posillipo. Noi andavamo a mare più su, a Posillipo, dove grandi e intricate ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare.
Palazzo Donn'Anna, l'antica residenza di Giovanna La Pazza, non aveva spiaggia, ma una discesa a mare attraverso i diruti saloni dove il tufo delle rocce e quello dei muri si sfaldavano. Le ville che frequentavamo di più erano più avanti: villa Pavoncelli, Villa Carunchio, Villa D'Avalos. La prima soprattutto, abitata da alcune famiglie dell'aristocrazia napoletana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.
Da Via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attraversavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri, finché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dell'ultima rampa una umida stanza scavata nella roccia era il luogo dove ci si cambiava e si lasciavano gli abiti e, al ritorno, si poteva fare la doccia. Sulla spiaggetta si apriva un'ampia grotta, deposito di innumerevoli scafi.
Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobiltà recente (si diceva, con una certa sufficienza, che fossero diventati marchesi con l’unità d’Italia), la loro ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola (il paese del grande sindacalista contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribuì poderosamente a portare nella democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud). Avevano un'azienda molto ben condotta che produceva, tra l'altro, ottimi vini. Dei due figli maschi (Giuliana, la sorella, era un po' più grande di noi) Nico era già orientato verso l'azienda familiare. Fraternizzavo più con Giuseppe, che fu per me un magister elegantiarum (ma l' imprinting me l'avevano dato i geni e l'esempio paterni). Naturalmente le gite per comprare le cravatte da Marinella, il negozietto alla Torretta poi diventato famoso, erano d'obbligo: per noi, allora, non c'era altro chic se non quello. Per ciascuno di noi il signor Marinella conservava la forma per tenere in piega la cravatta, e ci avvertiva quando era arrivata una nuova partita di pezze..
Un altro luogo della buona società napoletana dove sport e mondanità s'intrecciavano erano i circoli nautici. Ve n'erano diversi: il Savoia, il Napoli, l'Italia. Comuni a tutti erano le attività nautiche (di giorno) e il gioco d'azzardo (la sera). Il Circolo del remo e della vela Italia era il più su, nella gerarchia sociale: il Savoia era frequentato soprattutto da commercianti, e al Napoli prevalevano i nuovi ricchi. All'Italia solo molto tardi, ai rentiers e ai professionisti, si tollerò l'aggiunta dei commercianti. Anzi, c'è una storiella che dipinge bene l'atmosfera.
Un commerciante, un farmacista, era appena stato ammesso al Circolo: uno dei primissimi. Una sera perde, molti milioni. Il giorno dopo non si presenta. Il Presidente è informato, cerca subito i due presentatori. "Non ti preoccupare - rispondono - vedrai che sta male o s'è rotto una gamba, non ha trovato nessuno per venirci a informare. Adesso andiamo noi".
Si precipitano a casa del farmacista. Bussano, il cameriere apre. "Come sta 'u signorino?", chiedono. "Benissimo", risponde il cameriere, e chiama il padrone. "Ue', ma tu qua stai? Stai bene" fanno stupiti. "E ch'aggio 'a tene'?", esclama il farmacista, facendo gli scongiuri. Qui il dibattito diventa intenso.
"Ma come, non ti ricordi che l'altro ieri sera hai perso 15 milioni?"
"Certo che mi ricordo. Non vuoi che mi ricordo una puttanata e una scalogna così grossa. M'ero proprio infognato"
"E allora? Non sai che i debiti di gioco si pagano entro le 24 ore?"
"Ah si? Davvero si devono pagare entro le 24 ore?"
"Ma certo, mille volte te l'abbiamo detto"
"E se uno non paga che succede?"
"Come che succede: ti affiggono", rispondono costernati i soci presentatori.
"Ah, mi affiggono. E che vuol dire?"
"Come che vuol dire? Vuol dire che scrivono il tuo nome su in foglio, con la cifra che non hai pagato, e lo mettono nella bacheca all'ingresso!"
"Ah, se non pago 15 milioni mettono il mio nome su un foglio e lo mettono nella bacheca?"
"Certo, si, proprio così!"
"Vabbuo' - fa il farmacista - e a me che me ne fotte?"
Guardandosi negli occhi, i due presentatori rispondono a una voce:
"Farmaci', tu si' 'nu ddio!"
Nessuno dei soci dell'Italia si sarebbe permesso di violare una regola così severa. Ma certo si permettevano di sorridervi sopra. E la battuta "Farmaci', tu 'si 'nu ddio" rimase a contrassegnare chi svelava l'incoerenza che si nascondeva sotto uno stereotipo.
Dell'Italia mio padre era socio influente. Per un certo periodo ne fu l'amato vicepresidente. Io ero di casa, quindi. Di giorno, come tutti i ragazzi. Ma non praticavo il remo: non volli mai vogare su quegli esili scafi lucidissimi, dove selezionate squadre ogni anno si allenavano per alcune famose regate, le cui coppe vinte ornavano il salone del circolo. Preferivo la vela, più adatta a un pigro come me.
La domenica c'erano le gite sociali. I soci e le loro famiglie s'imbarcavano la mattina su alcune barche a vela (i "monotipi"), generalmente guidate da uno dei marinai salariati, e si allontanavano verso baie vicine (come la Cala di Trentaremi, al Capo di Posillipo) o più lontane (come la scogliera di Puolo, al Capo di Sorrento, o alla Marina Grande di Capri). Si mangiava a bordo: le frittate di maccheroni portate da casa, o i taralli "'nzogna e pepe" offerti da barcaioli stazionanti nei punti di maggior afflusso. Si chiacchierava e si prendeva il sole, ancorata la barca si facevano i tuffi e i più coraggiosi (mia mamma era tra questi) sommozzavano e pescavano i ricci, poi al ritorno si prendevano ancora il sole e il vento. Dipingono bene l'atmosfera di questa gite alcuni versi di Ernesto Murolo:
L'arberatura schioppa…'E vele sbanneno,
ruciulèa sottoviento nu binocolo…
'O cottero va "orza"…
Nu poco ancora…N'atu ppoco ancora…
Pare c'affonna, pare
Cu 'a murata 'int'all'acqua e a chiglia 'a fore…
…Che viento frisco!
…e quant'è bello, 'o mare,
ca fragne a poppa e sciaqquettèa p''a prora…
Ecco, tra le emozioni della mia giovinezza ritrovate nei poeti questa è forse tra le prime. Sento ancor oggi “quant’è bello, 'o mare, che fragne a poppa e sciaqquettea p''a prora”.
Ernesto Murolo era padre di Roberto, il famoso e bravissimo cantante di canzoni napoletane (la sua filologica Antologia della canzone napoletana, edita da Ricordi, è molto bella), Massimino, gran giocatore di carte e amico dei miei genitori, e Maria, con cui mio padre ebbe un flirt, intessuto di gite in barca a vela: forse in quelle stesse occasioni cui il poeta si riferisce, nella sua poesia "'O viento".
Nel giro di Villa Pavoncelli e del Circolo Italia conobbi due ragazze di cui divenni inseparabile amico, innamorandomi prima dell’una e poi dell’altra: Isabella Mosca e Francesca Sersale. Isabella abitava a via Monte di Dio, la strada dove abbiamo abitato alcuni anni. Un vecchio palazzo nobiliare, del quale occupavano un appartamento, devastato dalle bombe e reso vivibile da drappi appesi alle pareti a nascondere i muri rattoppati alla meglio, arricchito da una grandissima terrazza a livello. Adoravo le donne della famiglia: la vecchia nonna Giordano, la mamma che nel salotto modesto ed elegante, dopo il tea, mi leggeva le carte interrompendo i suoi solitari, la sorellina Schatzy, spiritosa e turbolenta.
Per Isabella ebbi un breve trasporto d’amore, che subito si trasformò in intensa amicizia. Di Francesca Sersale invece, sua amica e “fidanzata” di Peppe Pavoncelli, mi innamorai perdutamente. Era molto bella e gaia, di una semplicità ingenua e spensierata. Corpo esile e lunghissime gambe, lunghi capelli castani e occhi intensi, a volte sorridenti a volte gravi. Non ho mai capito il suo flirt con Peppe Pavoncelli: lei aveva una profondità di pensieri e di sentimenti che doveva sfuggire alla fatuità di Peppe, cui interessava molto pavoneggiarsi ( nomen, omen) con la ragazza più bella del giro.
Francesca aveva molti fratelli (di uno era perdutamente innamorata Isabella), e la sua famiglia viveva nell’angosciato lutto per la scomparsa, in Russia, del fratello maggiore, dato per disperso. Da questo evento era nato nella famiglia (soprattutto negli anziani genitori, ma con riverberi anche sui figli) un aspro anticomunismo.
Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensava. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra sentimentale e “per bene”. È per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo esercizio di democrazia.
Della politica mi arrivavano solo gli echi lontani, attraverso le poche persone che, in qualche modo vicine al mondo della politica, raggiungevano con qualche loro dimensione il mondo delle frivolezze, delle buone maniere e dell’estetica, al quale appartenevo, sia pure con un crescente distacco. La dimensione politica che c’era dietro Luigi Cosenza o Renato Caccioppoli, oppure dietro Leopoldo Rubinacci (il sottosgretaruio democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi molto più tardi.
Una volta, tra il 1946 e il 1948, intuii che c’era un’altra dimensione, sconosciuta e potente, fonte di timore e soggezione. Fu dall’alto del Ponte di Chiaia che vidi passare, giù in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi più dei pugni, colorata del blu delle tute. Una realtà che incuteva, insieme, paura e rispetto.
Fu forse dopo la licenza liceale, quindi nel 1948, che andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva parte una ragazza che mi piaceva molto, e che si faceva distrattamente accarezzare, e per la frequentazione di un singolare personaggio: Chinchino Compagna.
Ch’inchino era il rampollo d’una famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e (a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobiltà borbonica. La loro ricchezza era prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né in cultura né in lusso. Si diceva ( horresco dicens!) che a tavola loro si mangiasse il formaggio con le mani.
Oggi definiremmo forse il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista. Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase un sonoro pernacchio col quale salutò il presidente dell’elegante Circolo del Tennis, alla festa per la sua inaugurazione. Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Aveva frequentato casa Croce (non so se ve lo condusse mio padre), e aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia mamma, tutte rigorosamente monarchiche, che dicevano scandalizzate: “Capisci, è diventato repubblicano perché ha letto duecento libri!”, meravigliandosi del fatto che si potesse cancellare una fede, così saldamente impressa, come quella monarchica, semplicemente perché si era fatto l’esercizio frivolo e un po’ stravagante della lettura!
A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava con comodo alle gite che facevamo, ma la sua attività preferita era la lettura, fin dalla mattina presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dell’albergo lo trovavano già a leggere la mattina all’alba.
Chinchino alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli fui molto grato: il primo volume di una bellissima rivista di poesia (la testata era, appunto, Poesia, ed era diretta da Enrico Falqui). Con una bellissima dedica:
Un modesto ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena, rischiarata da caldi affetti, il mio compreso.
Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, Nord e Sud, che riuniva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Morì a Capri, sulla spiaggia sotto il Palazzo di Tiberio, per un infarto, d’improvviso.
All’università, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a Ingegneria senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) un’impresa di costruzioni. Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto mestieri “poetici”. Ma carmina non dant panem.
Dell’università di quegli anni ricordo ben poco. La mesta cerimonia della “matricola”, consistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici della lista Bacco Tabacco e Venere; le aule sovraffollate e i professori inavvicinabili nell’immenso palazzo tra il Rettifilo e Via Mezzocannone. Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili materie che farcivano il biennio. I miei interessi erano altrove.
Non ricordo come conobbi Carlo Frezza. La comune passione per il cinema? Forse. A quei tempi si frequentava un circolo del cinema a Via Martucci, dove finalmente vedemmo film diversi da quelli dell’infanzia (Capitano Blood o Stanlio ed Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein, Pudovkin e Rossellini, Autant–Lara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri entusiasmi.
Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai o avvocati. Mi introdusse nella politica universitaria. Ero appena iscritto a Ingegneria, e mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, di Bacco Tabacco e Venere. Aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il Centro universitario teatrale e, nell’ambito di questo, mi chiese di mettere su una nuova Sezione cinema. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino universitario. Con grande fatica organizzai una splendida rappresentazione di un bellissimo film, cha a Napoli nessuno aveva ancora visto: Breve incontro, di David Lean, con Trevor Howard e Sheila Johnson (mi sembra): due eccezionali attori drammatici. Grandissimo successo: la sala del Cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era gremita, il pubblico attento e silenzioso. Ne ero così entusiasta che, da allora, Francesca Sersale mi chiamava Eddy Lean.
Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia. Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era “lo specifico filmico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo (Bianco e Nero, Cinema, Cinéma d’Aujourd’hui), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il cinema io accompagnavo lui fino al portone, poi lui riaccompagnava me, poi ancora e ancora. In quei mesi uscì un articolo di Benedetto Croce, in cui sosteneva che il cinema è Prosa e non Poesia. Eravamo entrambi crociani: in quegli anni, a Napoli, o si era crociati o si era comunisti: non c’erano alternative per i giovani intellettuali. La presa di posizione ci turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con il Maestro, per noi il cinema era Poesia con quattro maiuscole, sebbene non fosse ancora chiaro se lo “specifico filmico” risiedesse nel montaggio (come era nostra opinione), o altrove.
Abitavamo a Via Monte di Dio 18, nel bel palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande, che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati da zampe di leone e attrezzati con una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo.
Una fuga di stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a volte incontravo gli amici dei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi. La musica era molto presente. Sui frequentava il San Carlo, ma soprattutto i concerti del Conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu lì che catturai l’autografo di Rubinstein, ed è lì che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo, che frequentava la nostra casa e a volte suonava al pianoforte.
I confini tra mondanità e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità dell’anima e del paradiso, ad esempio, e la battuta più convincente era quella del marchese Agostino Patrizi, che diceva
Pe ‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, mangi tutto il giorno sfogliatelle
Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso adesso: allora l’immagine, e la prospettiva, mi colpirono.
Dal cortile si accedeva al nostro appartamento, che era al primo piano, da una scala a una rampa interna, con una larga guida. Fu lì che mio padre si sparò un colpo di rivoltella: un incidente, fu detto. L’impressione che ne ebbi fu quella di una storia d’amore con una signora amica di famiglia (una storia che forse proseguiva dagli anni di Roccaraso), e di una crisi profonda nei rapporti tra i miei genitori. Il fatto è che, di lì a poco, mia mamma e le sorelline si trasferirono a Roma, mio padre rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato a Via Carducci, per badare agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via via vendute). Rimasi con lui, per finire il biennio all’Università.
Per me, la vita continuò come prima.