Per Edoardo Salzano bisogna ripartire dalla politica per rilanciare la disciplina. Sfruttando il disagio diffuso
La crisi dell’urbanistica/1
box introduttivo
Cominciamo con questo numero una serie di interviste ad alcuni grandi protagonisti dell’urbanistica italiana per sondare le cause della sua crisi, che oggi sembra irreversibile. Nelle città le trasformazioni sono dettate quasi esclusivamente dall’iniziativa privata, con le amministrazioni chiamate soprattutto a certificare scelte guidate dalla rendita fondiaria. Anche gli strumenti della pianificazione, pur modificati nel corso degli ultimi vent’anni, non riescono ad arginare il fenomeno: fra le loro maglie larghissime riescono a passare le iniziative più spregiudicate, quando addirittura non sono costruiti ad hoc per spianare la strada ai proprietari, come il pgt di Milano (vedi Costruire n. 321). In questa situazione ha ancora senso, oggi, parlare di urbanistica? Esistono margini di recupero per la disciplina? Le nostre città hanno un futuro sostenibile?
Fulvio Bertamini. Edoardo Salzano, classe 1930, continua a lavorare, scrivere, insegnare con l’energia di un ragazzo. Di formazione ingegneristica, considerato da tempo l’esponente di spicco dell’ala più radicale dell’urbanistica italiana, è stato amministratore pubblico, ha presieduto l’Inu, Istituto nazionale di urbanistica, firmato molti prg, diretto riviste – fondando Urbanistica informazioni – ed esercitato una intensissima attività pubblicistica. Polemista acuto, autore di molti libri (il più recente è “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”, vedi box), ha creduto molto presto nelle potenzialità della rete. Oggi il suo sito (eddyburg.it) è uno dei più ricchi di spunti e informazioni in materia.
Salzano, è corretto dire che il metodo della pianificazione, e con lei l’urbanistica tutta, sta agonizzando, oggi, in Italia?
Come disse un po’ di anni fa Leonardo Benevolo, l’urbanistica è parte della politica, non è un mestiere tout-court. È l’arte di governare le trasformazioni della città.
Non è solo un fatto tecnico, dunque.
La tecnica è solo un aspetto della disciplina. L’urbanistica è il progetto di formazione e trasformazione della città che esprime la società nel suo complesso, non ha a che fare con i singoli individui, anche se poi sono loro a fruirne. Partendo da questa asserzione, diventa facile rispondere alla sua domanda: l’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica, che non è più espressione della società, ma di vari individualismi, lobby, separatezze. Questa urbanistica non serve più perché non serve più questa politica. Se poi mi chiede perché in Italia la politica sia diventata tutto questo e sia stato abbandonato il metodo della pianificazione, il ragionamento si fa più complesso.
Facciamolo pure.
Secondo me le ragioni principali sono due. Anzitutto, in Italia la borghesia non ha mai compiutamente vinto e quindi non si è mai data alcuni strumenti essenziali, che le borghesie di tutto il mondo hanno inventato: a cominciare da una solida amministrazione pubblica. Perché la borghesia intelligente sa che il capitalismo funziona bene se c’è un governo pubblico a risolvere i problemi che il mercato non sa risolvere. E fra questi c’è il governo del territorio. La pianificazione, per me, nasce a New York nel 1811, con il piano regolatore che ha dato forma a Manhattan, con un disegno ancora attuale. In Italia, viceversa, non c’è mai stata una borghesia capitalistica seria, vincente. Come conseguenza, questa classe, sviluppatasi essenzialmente nel Nord – e questo è il secondo aspetto da tenere in considerazione – per arrivare al potere ha dovuto fare un patto con l’ancien régime, cioè con i latifondisti del Sud. L’accordo ha consentito alla rendita fondiaria di conservare un peso straordinario, dominante. Il territorio, nel nostro paese, non è il luogo dove costruire la migliore città possibile, ma è uno strumento per fare quattrini. Secondo me è molto significativo che durante l’età delle riforme in Italia, ovvero negli anni Sessanta e Settanta, la borghesia capitalistica, con Agnelli leader di Confindustria, sparasse contro la rendita, favorendo quel processo di innovazione che stava per tagliare le unghie alla rendita, contenendone il peso nella costruzione della città. Purtroppo è stato un momento, durato circa vent’anni; poi hanno prevalso altre logiche. Che non sono un’esclusiva italiana, sia chiaro: è il fenomeno che Richard Sennett ha definito come il declino dell’uomo pubblico, ovvero la riduzione nelle stesse psicologie personali della componente sociale, aperta all’esterno, e il predominio di quella individualistica. In Italia, però, questo aspetto ha raggiunto il parossismo e il tracciato politico che dal Doroteismo porta a Craxi e a Berlusconi è l’espressione limpida di questo percorso.
Non c’è speranza, dunque, per la pianificazione?
Bisogna intendersi. Quando parliamo di pianificazione intendiamo una prassi sviluppata dall’autorità pubblica, che ha come obiettivo un interesse generale. E pensiamo a una pianificazione nella democrazia, trasparente. Persino il fascismo dovette introdurre le osservazioni al piano regolatore, quando inventò questo strumento. Questa pianificazione oggi è scomparsa. Ma una strategia sull’uso del territorio esiste ed è chiarissima: le grandi opere pubbliche da un lato, il piano casa di Berlusconi dall’altro, e ognuno faccia quello che vuole, perché ognuno è padrone a casa sua. Sotto questo aspetto, esiste una pianificazione, un disegno preordinato.
Ma non olistico. Non si valuta il territorio nel suo complesso.
Certo. Però il territorio è una realtà sistemica e non può essere gestito a spizzichi e bocconi, perseguendo via via gli interessi degli appaltatori, dei proprietari dei terreni, della finanza – legale e illegale, espressione della malavita organizzata – che non sa dove investire. Perché in questo modo, prima o poi, si ribella e si sfascia. Certo, nel frattempo chi doveva fare quattrini, li ha fatti. Se ne frega.
Diciamo, con un eufemismo, che l’esito non preoccupa.
Infatti, non è un tema all’attenzione. Da vecchio comunista italiano, però, mi fa paura concludere un’analisi negativa senza individuare un punto da cui ripartire. La nostra situazione, oggi, è inumana – pensiamo alle condizioni in cui versano le nostre città – dunque provoca disagio, genera dissenso, ribellione. Questo è il punto da cui si può ripartire. Se mi guardo intorno non vedo forze politiche in grado di comprendere questa situazione. Però esistono, dispersi sul territorio, molti gruppi e associazioni che, mossi dai moventi più diversi, dall’inceneritore che inquina al parco assaltato dalla speculazione, dalla scuola privatizzata all’acqua svenduta, si orientano nuovamente verso interessi comuni. Per ora si ragiona ancora seguendo interessi particolari, che difficilmente riescono a comunicare fra loro. Ma è una prospettiva sulla quale conviene spendersi. Una speranza, insomma, c’è.
Anche l’architetto sloveno Marjetica Potrč svolge un’analisi di questo tipo (“Marjetica Potrč. Fragment worlds”, Actar/Fondazione Antonio Ratti). Le comunità si aggregano sempre più secondo piccoli gruppi molto sensibili alle tematiche territoriali, in grado però, grazie alla tecnologia informatica, di restare in contatto con il resto del mondo. Questo vale per alcune tribù del Mato Grosso come per il puzzle etnico balcanico. Anche partendo dal locale è possibile un’azione comune.
Sono d’accordo. Supporto la sua riflessione con la mia esperienza personale. In Veneto stiamo costituendo una rete di associazioni e comitati che si battono per la difesa del territorio. Siamo partiti da un’analisi critica del piano territoriale di coordinamento provinciale di Venezia, quindi abbiamo valutato l’analogo piano della Regione Veneto, creando un gruppo multidisciplinare formato da esperti – urbanisti ma anche trasportisti, agronomi, naturalisti eccetera – e rappresentanti dei diversi comitati, che ha elaborato un documento, diventato materia di discussione in alcune centinaia di incontri svoltisi un po’ ovunque. Su questo testo abbiamo raccolto l’adesione di 150 comitati e associazioni e siamo riusciti a far presentare 15 mila osservazioni al piano regionale. Esperienze come questa non sono episodiche: si veda la raccolta di firme contro la privatizzazione dell’acqua in tutta Italia, un episodio grandioso. O il movimento “Stop al consumo di suolo”, che ha lanciato questo tema e raggiunto alcune migliaia di associazioni e gruppi.
Però manca una forza in grado di coagulare e dare un respiro più ampio a queste iniziative.
Sono tutti punti di vista parziali, certo. Del resto, è difficilissimo: tutto è sempre basato sul volontarismo e sulle risorse personali, che purtroppo sono scarse.
Lei ha spostato l’analisi su un piano politico. I suoi colleghi, invece, la confinano spesso all’aspetto tecnico. Scendendo a questo livello, condivide la critica al vecchio prg? E cosa pensa dello sdoppiamento di questo strumento, proposto dall’Inu a Bologna nel 1995 e adottato da molte leggi urbanistiche regionali?
Io sono fra i responsabili dell’idea di articolare in due parti, una strutturale e l’altra operativa, il prg. Cominciammo a operare in questa direzione a Venezia con il piano del centro storico, nei primi anni Ottanta, poi abbiamo applicato questa sperimentazione prima a Carpi, quindi in un paio di proposte di leggi urbanistiche per l’Emilia Romagna e il Lazio. L’idea di fondo è che esistono scelte sul territorio che hanno carattere di invarianza, cioè che è sensato non siano modificate a tempo indeterminato – le opzioni strategiche e di tutela ambientale o storico-monumentale – e ce ne sono altre legate alla contingenza: alla maggioranza che ha vinto le elezioni, agli equilibri sociali eccetera. Allora, è corretto separare questi due livelli e al primo dare un carattere più rigido, all’altro più elastico. Naturalmente, anche le scelte di lungo periodo devono essere precise, vincolanti, non possono limitarsi a dichiarazioni di buona volontà, a costituire disegni indeterminati nel tempo e nello spazio. Invece ha preso piede un’altra distinzione, cioè un altro piano, articolato in un documento sì abbastanza rigido, ma che in genere presenta maglie larghissime e non decide nulla, e uno operativo, appannaggio però solo del sindaco. Comunque, tutto questo è superato, ormai. Perché le decisioni maturano fuori del piano regolatore.
Cosa è accaduto?
In Italia a un certo punto le forze politiche – compreso il centrosinistra – hanno scelto la governabilità a scapito della democrazia. Una volta i piani regolatori erano discussi dai consigli eletti – comunale, provinciale o regionale – e approvati in quelle sedi. Tutti erano ugualmente responsabili e informati. L’opposizione poteva esercitarsi. Oggi le decisioni sono sempre più esclusiva del sindaco o del presidente della Regione, che non a caso si fa chiamare governatore. Addirittura si ricorre ai commissari, che concentrano poteri extra legem, se non addirittura contra legem, perché in genere non sono tenuti al rispetto delle norme.
Come dimostra il caso della Protezione civile. Ma quanto ha pesato nella crisi dell’urbanistica l’assenza storica di alcune leggi fondamentali, da una normativa sul regime dei suoli alla riforma della legge quadro, la 1150/42?
Non molto. Manca davvero una sola legge: quella che avrebbe dovuto comprimere la rendita. In interi continenti la proprietà della terra non è privata, come nella tradizione africana precolonialista. Perfino nel Regno Unito, durante le operazioni di development urbano, il consenso del proprietario è richiesto, ma non è certo il primo a decidere. In Italia, invece, la rendita ha ancora un peso determinante. Si era andati vicino alla soluzione del problema negli anni Settanta. Già lo Stato liberale aveva decretato che l’indennità espropriativa non compensava il maggior valore derivante dall’investimento dell’opera pubblica realizzata. Anche la legge urbanistica fascista del 1942 sosteneva la mancata compensazione dei benefici ottenuti dal prg. In materia espropriativa, insomma, erano stati raggiunti risultati apprezzabili. Non altrettanto per quanto riguarda la discriminazione fra chi poteva costruire, quindi godere della rendita piena sul proprio terreno, e chi invece aveva subito l’esproprio. La legge Bucalossi (10/77) tentò di risolvere il problema, trasformando la licenza edilizia – che libera un diritto già presente nella proprietà – in concessione, che va pagata a un prezzo equivalente al beneficio derivante. Questa operazione, purtroppo, non è mai andata in porto, perché il costo della concessione è sempre stato simbolico. Il nodo è complesso da risolvere. Ma può essere affrontato.
Anche oggi?
Non ci siamo riusciti negli anni Settanta, figuriamoci oggi. Si consideri che le prime bombe fasciste sono scoppiate dopo l’avvio della discussione sulle leggi sulla casa e lo sciopero generale del 1969. La nostra disciplina non si confronta con problemi lievi, evidentemente. Allora, che gli urbanisti la smettano di piangere: ben più dell’urbanistica, è fallita la politica. E da lì bisogna ricominciare.
Che ne pensa della città della paura, in rapida espansione anche in Italia (vedi Costruire nn. 293, 306 e 313), dalle gated community, i quartieri cintati esclusivi per ricchi, al fiorire delle telecamere, dalla soppressione progressiva degli spazi pubblici alla limitazione di alcuni elementi di arredo urbano molto democratici, come le panchine? È preoccupato da questo trend?
Certo. La città pubblica continua a cedere spazi alla città privata. Sono tendenze molto evidenti negli Usa, dove in alcuni mall puoi acquistare magliette politicamente orientate ma non puoi esibirle, o non puoi stare seduto per più di 15 minuti su una panchina perché tu sei lì per acquistare, non per riposare. Un altro aspetto di questo fenomeno sono i ghetti, per i poveri e per i ricchi, la città da cui ti proteggi e la città protetta: due facce della stessa medaglia. La città si sta muovendo lungo queste linee, il tema sarà assolutamente centrale nel futuro prossimo, non ci sono dubbi.
Lei si batte contro il consumo di suolo, dunque lo sprawl. Favorevole allora alla densificazione urbana?
Sono sì contro lo sprawl, ma anche contro i grattacieli. I due aspetti sono posti spesso in contraddizione: costruiamo torri per contenere il consumo di suolo. Ma è una tesi che rifiuto. Un tempo la cultura urbanistica aveva imparato – e insegnava – che per costruire una città non bastano case, uffici, fabbriche. Ogni metro quadrato di residenza, ufficio, produttivo si deve portare dietro un certo numero di metri quadrati di scuole, mense, ospedali. Cioè di standard urbanistici. Se costruisci un grattacielo, dovresti realizzare contestualmente una determinata quantità di spazi pubblici, che sono fissati per legge. Questo oggi non avviene.
Nella crisi dell’urbanistica c’è dunque anche un problema di formazione? Cattivi allievi da cattivi maestri?
Io seguo poco, ormai, quanto accade negli atenei. Da quel che capisco, soprattutto ascoltando gli studenti che approdano alla scuola di Eddyburg, mi pare che l’università si sia terribilmente tecnicizzata. Anziché addestrare in primo luogo a una lettura critica della realtà tende a formare facilitatori, cioè specialisti che hanno il compito di semplificare le operazioni immobiliari. Del resto, l’università è strozzata: per sopravvivere deve fare quattrini, dunque deve mantenere buoni rapporti con chi li ha. La tendenza alla privatizzazione dell’insegnamento accademico presenta anche questi risvolti. Si pensi alla sempre più netta prevalenza del linguaggio aziendalistico: l’università è stata costretta a trasformarsi in impresa, a fare utili e reinvestirli. Per questo l’attività di ricerca, che nessuno paga, viene progressivamente abbandonata.
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L’Italia di Salzano
Una galoppata lunga 80 anni, dalle origini familiari napoletane – suo nonno era il generale Armando Diaz, duca della Vittoria nella Prima guerra mondiale, l’uomo di Vittorio Veneto – al suo trasferimento a Roma, dalla scoperta dell’urbanistica (“Mi piaceva il forte intreccio fra dimensione tecnica e professionale e quella sociale e politica”) alla scelta politica di campo con il Pci, alle multiformi esperienze professionali: il centro studi della Gescal, il lavoro al ministero dei Lavori pubblici, i piani urbanistici, cui si affiancavano l’attività politica strictu sensu (in consiglio comunale a Roma, in giunta comunale a Venezia), l’impegno all’interno dell’Inu, dalla presidenza alla clamorosa rottura e alla diaspora, l’insegnamento all’Università Iuav di Venezia. Nelle “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto” di Edoardo Salzano c’è tutto questo e molto altro della vicenda umana e professionale di uno degli esponenti di spicco della cultura urbanistica italiana del dopoguerra. Il libro ha valore di testimonianza storica sanamente partigiana: nelle sue pagine è possibile ripercorrere le tappe esaltanti e tragiche della nostra politica, ma soprattutto è possibile apprezzare lo spirito indomito e la passione civile di Salzano, che traspare evidente anche dalla prosa, secca, efficace, incalzante. Un testo per tutti i palati, particolarmente consigliato agli spiriti libertari.
Edoardo Salzano
Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto
Corte del Fontego, Venezia, 2010
240 pagine, 20 euro