Il libro di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, era stato illustrato dall’autore nelle sue linee generali e nella sua tesi di fondo, in un’intervista a Libero (24 aprile 2007). L’avevo pubblicata su eddyburg con una presentazione un po’ polemica. Affermavo che “la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di riferimento per la sua urbanistica neo-liberista: un tuffo verso il passato più lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale”.
Moroni mi scrisse sostenendo che con quella destra lui non aveva niente a che fare, e che invece si richiamava a “una tradizione liberale (classica, continentale) che non coincide con le posizioni di certa destra (e, nemmeno, con quelle di certa sinistra), tradizione che va ovviamente discussa e criticata severamente, ma senza ridurla a ciò che non è e non può essere”. Nel replicargli prendevo atto del suo desiderio di distinguersi dalla destra cialtrona italiana, ma sostenevo che la tesi e le proposte formulate nella sua intervista erano singolarmente omogenee a quella prassi (e alla conseguente ideologia) che l’analisi politica internazionale definisce “neoliberismo”, e che non ha più niente da fare con quella “tradizione liberale (classica, continentale)” cui Moroni ama riferirsi [qui la nota di S.M. e la mia replica]
Ciò cui mi riferivo era qualcosa di certamente più ampio e più serio (e ben più pericoloso) della destra italiana, la quale ne è comunque al servizio. Mi riferivo a un sistema di potere che, per dirla con Giorgio Ruffolo, “respinge nettamente l'interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione” (G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo, Torino 2006, p. 110).
Mi riferivo, per adoperare i termini di David Harvey, al neoliberismo come un ”progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche” (D. Harvey, Breve storia del neoliberalismo, Milano 2007); un progetto che “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe” (p. 229).
Non è detto che ciascuno di noi – per adoperare ancora le parole di Harvey - debba “decidere se rassegnarci alla traiettoria storica e geografica definita da un potere schiacciante e sempre crescente delle classi alte oppure rispondere in termini di classe” (p. 229), ma ciò di cui dovremmo essere consapevoli che “liberalismo significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà” (K. Polanyi, cit in D. Harvey, cit. p. 49 ).
La lettura del libro mi ha pienamente confermato in quel mio iniziale giudizio: la piena coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle del neoliberalismo descritto da Ruffolo, da Harvey e dagli altri studiosi che non hanno accettato il proteiforme capitalismo come l’unico orizzonte possibile. Anzi, mi ha rivelato risvolti e conseguenze inquietanti. Non tanto nelle affermazioni positive del libro, quanto nella filigrana che da esso traluce, nel modo in cui descrive la realtà, disegna la scena e concepisce i soggetti che la animano.
L’elemento più significativo mi sembra nella individuazione del protagonista cui la sua costruzione, la sua “città”, si riferisce: l’individuo, la tutela della cui “libertà” deve essere il preminente, e quasi esclusivo, compito delle istituzioni. Questo “individuo” non è un qualsiasi cittadino del mondo. Non è neppure un qualsiasi cittadino della città occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: è il proprietario immobiliare.
Lo si comprende in ogni passaggio del testo. E non a caso, quando esemplifica la sua nozione di “libertà negativa” afferma che essa, “interpretata soprattutto in termini di non-impedimento e non-interferenza […] ricomprende le libertà di esprimersi, associarsi, detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, ecc. “. Delle cinque azioni cui esemplificativamente riferisce la libertà individuale dominano quelle connesse alle attività immobiliari: “detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare”, mentre sono del tutto assenti altre forse più fondamentali quali lavorare, apprendere, comunicare ecc. (p. 15-16).
E quando si impegna nel chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e il liberismo precisa che “il liberalismo non è certo ‘mero’ liberismo, ma è ‘anche’ liberismo” (p. 26). Del liberismo, delle “libertà cosiddette economiche”, quelle che soprattutto gli interessano sono quelle che hanno a che fare con gli interessi immobiliari: “la libertà di acquisire, detenere e vendere proprietà privata, la libertà di intrapresa e contratto, ecc.” Queste non sono altro, aggiunge, “che una delle specificazioni dell'idea più generale di libertà negativa come spazio protetto d'azione; e, tuttavia, ne sono una componente incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il significato stesso della libertà individuale” (p. 26).
Coerente con questa impostazione è ovviamente l’apologia sfrenata del mercato. Moroni non intende quest’ultimo come mero strumento adatto, più di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione più efficiente dell’allocazione delle risorse riducibili a merci, ma “come ordine spontaneo dinamico”, condizione indispensabile perché la libertà di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado (p. 9).
Individualismo (proprietario) e mercato sono le due divinità cui tutto è subordinato. Al dominio di queste divinità sono ordinate le istituzioni: le regole e lo stato. Per la società e per la città bisogna stabilire “poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno” mentre il resto deve essere “lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato” (intervista a Libero).
Compito dello stato, in piena coerenza con il credo neoliberista dei poteri forti della globalizzazione, è esclusivamente quello di impedire che alcunché turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito comprende anche la possibilità che lo stato si faccia carico, in qualche modo, di esigenze nei “limitati casi” in il mercato non riesca a soddisfarle.
Soffermiamoci su questo punto. Moroni ammette che “debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libertà negativa, ma, anche, la possibilità di condurre una vita almeno decente. In altri termini – sostiene - a tutti i cittadini va garantita una giusta condizione di base: questo può avvenire fornendo ad essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni eservizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti, mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi è in una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il mercato non è in grado di operare, garantendo direttamente la disponibilità per tutti di alcuni servizi e infrastrutture” (p. 17-18).
Certo, poiché nella sua immaginazione un mercato pienamente concorrenziale è un meccanismo perfetto, a Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella concretezza delle realtà economiche date, essere viziati da posizioni di monopolio o di oligopolio collusivo. Se c’è qualcuno che non è in grado di pagare l’affitto di una casa perché la speculazione porta i prezzi al di sopra della capacità di spesa degli “individui” allora intervenga lo stato per assicurare l’utile allo speculatore.
Ma in che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale sostegno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato? Qui l’ideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. È ovviamente lo stato che deve definire la “soglia di decenza” di ogni vita. Ma, precisa l’autore, “l’idea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira unicamente la lotta alla povertà assoluta, e non la riduzione della disuguaglianza materiale relativa; in altre parole l’obiettivo è di impedire che ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui” (p. 17-18). Insomma, se si accetta che della “soglia di decenza” faccia parte il disporre di un tetto sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pretenda di averlo a 100 metri o a 100 chilometri da dove lavora e dove stanno gli amici!
Esclusivamente preoccupato di assicurare la “libertà” (quella libertà) all’individuo in quanto proprietario, Moroni dimentica che esiste anche la libertà del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non necessariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la città (il territorio urbanizzato) indubbiamente è. Dimentica che ci sono diritti comuni, e non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti ci sono anche quelli di poter godere di una città ordinata, funzionale, bella, resa tale indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini (i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere attribuito a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (o il genere, l’occupazione, il reddito, il colore della pelle, l’orientamento religioso o spirituale, la lingua, l’etnia, l’età, la condizione sociale).
Poiché Moroni non si rivolge a questo soggetto (ma, lo ripeto ancora una volta, al proprietario immobiliare) ecco che la pianificazione della città e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia l’unico strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di raggiungere quegli obiettivi d’interesse comune di cui si è detto. Per il proprietario immobiliare è un intralcio, è uno dei “lacci e laccioli” di cui occorre liberarsi. La critica di Moroni alla pianificazione, che vorrebbe essere una critica alla pianificazione in quanto tale, si riduce alla denuncia delle imperfezioni, degli anacronismi, delle insufficienze degli strumenti attualmente impiegati e dei modi in cui essi sono impiegati.
La sua critica alla pianificazione non è rivolta al miglioramento dei modi nei quali la società, nelle sue espressioni politiche, governa le trasformazioni e le utilizzazioni del territorio perchè i diritti comuni siano rispettati. La radice della sua critica, e la ragione della sua faticosa ricerca di un improbabile succedaneo ad essa, è meramente ideologica.
Il teatrino immaginato da Moroni è spoglio, nitido, astratto; sul proscenio si agita una folla di figure che, nella sua narrazione, sono indifferenziate e inoffensive: definiti “cittadini”, si tratta in realtà di individui, per i quali la libertà consiste nell’usare e commerciare con la massima discrezionalità i propri patrimoni (immobiliari). Il resto non esiste.
Esistono le città e le regioni dove il neoliberismo ha vinto, non esiste il resto del mondo, non esistono le città e le regioni le cui risorse sono state espropriate (come continuano ad esserlo) per aumentare la ricchezza delle classi “alte” e “medie” del mondo affluente. Non esistono le crescenti sacche di povertà e di emarginazione all’interno stesso dei paesi e delle città privilegiate dallo sviluppo. Non esistono il lavoro, l’apprendimento, l’incontro. Esistono i cittadini cui bisogna garantire la libertà “di acquisire, detenere e vendere proprietà privata”.
Non esistono gli esclusi, i diversi, gli espulsi dallo “sviluppo” e dalla “concorrenza”. Non esistono gli sfruttati, i saccheggiati, i colonizzati, né come soggetti né come popoli. Non esistono rendite, e se esistono, non ha nessuna connotazione negativa la loro privatizzazione (che è anzi un obiettivo). Non esistono i monopoli: né quello immobiliare (il che per uno studioso che si occupi di città è davvero singolare), né quello dell’informazione, né quello del potere.
Potere, ecco un termine, e una dimensione, del tutto assenti. Come, et pour cause, è assente la politica. Ed è ben strano che Moroni, come del resto altri studiosi italiani critici della pianificazione urbanistica, limiti la sua analisi di questa allo strumentario tecnico, dimenticando del tutto che “l’urbanistica è una parte della politica”, e che nella crisi della politica va forse individuato qualcosa di più che la radice della crisi della pianificazione urbanistica.
Sono assenti il potere e la politica, così come sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi sociali ad altri, certe figure e certi concreti soggetti ad altri: quali più forti, quali più deboli, quali destinati a vincere, quali a perdere. Tutti sono uguali, nell’empireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano: non hanno “diritti”, ma solo la legittima aspettativa a una “soglia di decenza” che un buon Leviatano gli accorderà, forse, se vorrà.
Edoardo Salzano, 10 gennaio 2008