Piacevole (è scritto in buon italiano, ciò che è abbastanza raro nella letteratura di genere) e in gran parte condivisibile, il saggio di Francesco Ventura: nell’ispirazione di fondo che lo muove, nella passione che lo anima, nei puntuali appunti che muove all’urbanistica della Toscana Felix. In gran parte condivisibile, se non fosse per due errori, tra loro strettamente connessi, che rendono poco utile l’intero ragionamento.
In sostanza Ventura propone che sia il decreto di vincolo a definire i criteri che le azioni dell’uomo devono rispettare perché i beni siano tutelati nei loro caratteri propri. Scrive Ventura: “È l’atto di vincolo, e non il piano, che deve dire in concreto in quel luogo quali sono i limiti che qualsiasi atto di piano, pubblico o privato, deve rispettare. Il vincolo deve determinare inequivocabilmente l’oggetto concreto della tutela in ogni specifico luogo, se si vuol tentare di raggiungere una tutela efficace, rigorosa e certa”.
Ventura non spiega perché un atto amministrativo essenzialmente monocratico (il decreto di vincolo) dovrebbe compiere quella medesima operazione che le leggi vigenti affidano alla pianificazione: una procedura soggetta a garanzie di trasparenza e di coerenza (spesso violate, ma chi si oppone alle violazioni?), pienamente conforme al regime democratico nel quale viviamo (pieno di difetti, lo sappiamo: ma vogliamo abolire la repubblica per restaurare il Re, esautorare il parlamento e i consigli comunali per ripristinare i tiranni e i podestà?). O per meglio dire, lo spiega con un pre-concetto: la pianificazione è essenzialmente, strutturalmente, per sua propria natura cattiva.
Questo è appunto il secondo errore di Ventura. Egli ritiene che la pianificazione territoriale e urbanistica, e anche quella “con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, sia esclusivamente, univocamente, totalitariamente fondata sul valore venale. È un errore identico a quello che avrebbe fatto uno scienziato (quale Ventura indubbiamente è) il quale, avendo conosciuto solo le donne ospitate nel manicomio criminale, sostenesse che tutte le donne sono assassine. La pianificazione è uno strumento. Come tutti gli strumenti può essere adoperato in più modi, buoni e cattivi. Peccato che Ventura abbia conosciuto solo quella cattiva, o solo da quella sia stato conquistato.
Per carità, si tratta di una tesi perfettamente legittima sotto il profilo culturale. Ma ha senso discuterne? Non sarebbe meglio comprendere che cosa precisamente la legislazione vigente dispone, e far sì che sia rispettato? Lavorare perché effettivamente le soprintendenze siano attrezzate per entrare nel processo di pianificazione? I contenuti che Ventura vorrebbe attribuire al vincolo sono esattamente quelli che la buona pianificazione (quella fedele alle prescrizioni e alla ratio della legge Galasso e delle successive versioni del Codice del paesaggio) deve possedere. E che già possedeva quando Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli tutelavano le colline e i paesaggi di Siena, Edoardo Detti quelle di Firenze e Giovanni Astengo quelli di Assisi.
Ventura aiuti a far sì che la Regione Toscana rispetti la priorità dei precetti dettati dall’esigenza della tutela su ogni ammissibile trasformazione che quelle leggi, e le sentenze costituzionali, prescrivono a tutte le istituzioni della Repubblica. Temo che sostenere che la pianificazione è in ogni caso, e irrimediabilmente, perversa finisca per essere utilizzato come alibi da chi vuole utilizzarla per spalmare “perequazioni” anche sui beni paesaggistici. Dimenticando che, a partire dalle sentenze costituzionali 55 e, soprattutto, 56 del 1968 tutti dovrebbero sapere che le limitazioni determinate da ragioni di tutela paesaggistica non danno diritto a nessun indennizzo delle proprietà vincolate.