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Edoardo Salzano
20070000 Renato Soru e le coste della Sardegna
25 Novembre 2008
Articoli e saggi
Postfazione al libro di Sandro Roggio, C'è di mezzo il mare. Le coste sarde: merci o beni comuni? Editore CUEC, Cagliari 2007, prefazione di Antonietta Mazzette

Una domanda mi è tornata alla mente, leggendo le pagine di Sandro Roggio, ripercorrendo con lui la vicenda del Piano paesaggistico regionale e, prima ancora, riflettendo sull’acuta analisi del turismo “industria pesante” e dei suoi effetti in Sardegna. Una domanda che mi si era già affacciata, sia leggendo gli antichi articoli di Antonio Cederna su Arzachena e la Costa Smeralda, sulla Sardegna “isola di cemento” e su “l’Aga Khan del cemento”, sia quando - nelle sale nelle quali decine di tecnici stavano redigendo il Piano paesaggistico - vedevo scorrere le immagini delle innumerevoli macchie rosacee (le famigerate “zone F”, gli insediamenti turistici contenuti nei piani regolatori comunali) che impestavano le coste della Sardegna. Come sarà mai possibile sconfiggere interessi così corposi e vasti, rovesciare abitudini così consolidate, affermare verità così forti ma così controcorrente come quelle che Renato Soru testardamente proclama e rende concrete con coerenti atti di governo?

Mi venivano in mente tentativi analoghi, speranze in altri tempi sollevate da interventi di amici e compagni sardi, conosciuti e ascoltati in riunioni di partito o di associazioni culturali: Gianni Mura, in una riunione del PCI a Palermo, nella quale si affrontavano quanti, in quel partito, erano tolleranti nei confronti dell’abusivismo e quanti si battevano per sconfiggerlo; e Luigi Cogodi, approdato a responsabilità di governo regionale mentre stendevamo a Roma e a Cagliari una prima valutazione della “Legge Galasso”, e Cogodi combatteva con nuova energia episodi di degradazione del bene comune delle coste dell’Isola. Nel succedersi conseguente degli atti legislativi e amministrativi del Presidente della Sardegna vedevo quei tentativi e quelle speranze diventar concrete: segni, durevolmente espressi nel territorio, di una nuova storia.

A quella storia sono stato poi chiamato a partecipare, come membro del Comitato scientifico incaricato di suggerire soluzioni culturali e tecniche ai progettisti del piano. Non conoscevo Soru, m’incuriosiva la determinazione che rivelava nei pochi incontri che ebbe con il comitato. Registrai le parole che pronunciò quanto aprì i nostri lavori, le pubblicai nel mio sito, eddyburg.it. Ne riporto gran parte, anche perché rimangano in un testo cartaceo:

“Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.

”Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre”.

Quando si esprimeva con queste parole il suo viso rivelava una volontà cocciuta, le cui radici affondavano in esperienze lontane. “Presidente – gli domandai – quali sono le sue radici culturali, quali letture e quali persone hanno contribuito a formare le sue convinzioni?” Mi rispose che era nato in un piccolo paese dell’interno dell’Isola, e che tra le sue letture preferite c’erano le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.

Credo che senza quella volontà cocciuta, senza quella determinazione che veniva da antiche solitudini, non sarebbe stato capace di condurre all’attuale punto di approdo la vicenda che Sandro Roggio racconta. Un punto di approdo che non è definitivo, ma che segna un punto di svolta dal quale nessuno potrà prescindere nei prossimi anni. Né in Sardegna, né nel continente. Un punto d’approdo scandaloso. Costituisce infatti la testimonianza che, almeno in una parte dell’Italia, si è stati capaci di ribaltare il primato della merce sul bene, del valore di scambio sul valor d’uso, di sconfiggere lo sfruttamento miope del paesaggio mediante “valorizzazioni” cementizie che lo degradano e sostituirlo con decisioni e azioni che tendono alla messa in valore delle qualità costruite dalla natura e dalla storia.

Se si può farlo in Sardegna, si può farlo anche altrove. Anche altrove si può affermare, nei fatti, che la Regione assume in pieno il compito che la Costituzione affida all’intera Repubblica di tutelare il paesaggio. Anche altrove si possono utilizzare gli strumenti forniti dalle leggi degli ultimi decenni (dal decreto Galasso del 1985 fino all’ultima stesure del Codice del paesaggio) per affermare la priorità della tutela del bene comune del paesaggio su ogni sua trasformazione per le necessità dell’oggi. E’ questa, del resto, la verità profonda dello “sviluppo sostenibile”; un termine (sostenibile appunto) che in Italia tende a essere interpretato come sopportabile”, mentre nel resto del mondo è tradotto con durevole, e quindi indica in modo non equivoco la volontà di trasmettere alle generazioni future valori e qualità non inferiori a quelli che abbiamo a nostra volta ereditato.

L’azione di Soru non è priva di ombre e di errori, che Roggio non nasconde. E’ probabilmente un errore (e forse non è l’unico) il fatto che gli spazi e i patrimoni delle antiche testimonianze minerarie siano disponibili alla cessione in proprietà a operatori privati. Un errore non comprendere che il sacrosanto obiettivo di dare risposte positive al turismo dopo aver decretato la fine delle “seconde case”, di puntare sul recupero del patrimonio edilizio esistente dopo aver proibito l’ulteriore urbanizzazione della fascia costiera, può essere raggiunto anche concedendo agli utilizzatori il diritto di superficie di beni pubblici, anziché la loro proprietà. E che, come ha scritto Arnaldo (Bibo) Cecchini su eddyburg.it, “l’impronta del turismo di lusso è enorme e fetida” mentre una regione all’avanguardia può proporsi di promuovere e sperimentare forme innovative, socialmente aperte e consapevoli, di turismo diverso da quello allevato nel villaggi della Costa Smeralda.

Roggio afferma anche che ci sarà qualche ragione se “si è fatto strada il sospetto che il Ppr sia l’esito della visione illuminata di un uomo solo”, e aggiunge che:

“Si sa, è la democrazia, senza scorciatoie, che rende più difficile la pianificazione. Se è audacemente partecipata produce esiti mirabilmente imperfetti. Ma può valere la pena di rinunciare agli esiti perfetti: esponendo i progetti alla ricerca del consenso attraverso le pratiche faticose della mediazione, in quella selva di fantasie e di diritti che sono propri di una società molto complessa”.

Sono interrogativi che anch’io mi sono posto e mi pongo. Anch’io avrei preferito che il punto d’arrivo si fosse raggiunto mediante un’ampia partecipazione popolare, attraverso il consenso convinto di un arco vasto di forze politiche, consolidando e non impoverendo il gruppo dirigente che con Soru ha condiviso l’avvio della nuova Sardegna. Ma non so rispondere a due domande.

La prima: la relativa solitudine di Soru non è forse l’altra faccia di quella cocciuta determinazione che è stata decisiva nel raggiungere quel risultato, di sconfiggere i cementificatori delle coste sarde? Mi hanno sempre detto che, se si prende una medaglia, bisogna accettarne entrambe le facce.

La seconda: i processi di partecipazione che riescano ad attivare il consenso consapevole delle cittadine e dei cittadini (e non solo dei grandi e piccoli proprietari immobiliari e altri operatori della rendita) richiedono altissime professionalità e, soprattutto, percorsi di maturazione molto lunghi. Siamo certi che allungare di molto i tempi dell’approdo avrebbe consentito di salvare qualcosa dei territori coperte da quelle orribili macchie rossastre, le “zone F”, dei piani urbanistici comunali?

Del resto, ciò che si è visto nell’ampia discussione che sul PPR adottato vi è stata (con una disponibilità dei materiali che raramente si è registrata) rivela scenari scoraggianti. Se è vero che la maggior parte della discussione “politica” è stata sulle deroghe alla prosecuzione delle lottizzazioni turistiche, consentite dall’articolo 15 delle norme tecniche. Se è vero che si è contestata l’illegittimità di una modifica, già richiesta sul piano culturale dal Comitato scientifico, imposta sul piano della legge dal nuovo Codice del paesaggio. Se è vero che la richiesta di autonomia, invocata da ogni parte, mirava a scalzare un preciso dettato costituzionale (i beni paesaggistici non sono disponibili per una sola delle articolazioni della Repubblica), rendendo arbitri esclusivi quei comuni che hanno promosso, favorito o – nel migliore dei casi e salvo eccezioni – osservato in complice silenzio la distruzione delle coste più belle.

Se la politica territoriale di Renato Soru ha un torto è quella di essere tardiva; ma non è a lui che se ne può far colpa. Anzi, occorre dargli atto che è stato ben consigliato quando, delle due vie consentite dalle leggi vigenti, ha scelto quelle del piano paesaggistico rispetto a quella del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”. Certo che la seconda via sarebbe stata preferibile in un territorio già saldo nelle sue regole e nelle prassi dominanti: un territorio in cui la salvaguardia delle risorse culturali e ambientali fosse stata pratica comune, in cui la mercificazione del bene comune fosse sentita come un’eresia. Ma è questa la Sardegna, è questa l’Italia dei nostri anni? Non mi risulta.

Voglio precisare: non sono tra quelli che ha consigliato l’Amministrazione di preferire un piano orientato alla tutela del paesaggio a un piano più compiutamente territoriale e urbanistico. Anzi, delle due formule è la seconda che mi sembra in generale preferibile. Ma alla condizione di formare, preliminarmente, una salvaguardia a tempo indeterminato dei beni paesaggistici individuati, o anche soltanto presunti. Il principio di precauzione deve essere adoperato soprattutto quando governiamo un bene che appartiene alle generazioni future, e della cui utilizzazione dobbiamo render conto all’umanità intera. E il primo atto di ogni pianificazione (questa è una verità che sembrava condivisa dalla cultura urbanistica fin dai tempi del decreto Galasso) è quello di procedere alla preliminare ricognizione e tutela delle risorse culturali e ambientali.

Nel presente clima e nel presente assetto giuridico è difficile che una salvaguardia a tempo indeterminato – o di portata sufficientemente ampia – possa essere tentata con speranze di successo. Se si voleva impedire la prosecuzione a tappeto di ciò che è già avvenuto in una parte del territorio sardo, la strada del piano centrato sulla tutela del paesaggio era obbligata. Il risultato che il PPR ha felicemente raggiunto è stato possibile anche in ragione della scelta di partenza sulla “forma” di piano.

Certo, i giochi non sono conclusi. Quelli che una volta si chiamavano “gli speculatori” stanno continuando a giocare le loro carte e ad adoperare i loro molteplici strumenti. Non mi preoccupano i ricorsi amministrativi nè quelli costituzionali. Mi preoccuperebbe invece se la perdita del senso delle proporzioni impedisse di attribuire il ruolo giusto al nucleo dell’impresa che Renato Soru e i suoi collaboratori hanno, per ora, vittoriosamente portato a un suo significativo approdo, ma che deve essere protetta, e prolungata nelle politiche urbanistiche comunali e in quelle più compiutamente territoriali, sociali ed economiche della Regione. Il rischio maggiore che vedo nell’immediato è che le critiche su punti non fondamentali appannino, e mettano in pericolo, il significato profondo, innovativo e controcorrente, della “nuova storia” della Sardegna.

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