C’è una cosa che bisogna sempre ricordare quando si parla di urbanistica. L’urbanistica moderna – l’urbanistica della società capitalistico-borghese, della società ad economia capitalistica e a regime politico-sociale democratico rappresentativo – è nata per compiere uno specifico servizio, per svolgere una specifica missione: il servizio e la missione di risolvere una serie di problemi di organizzazione della città e del territorio che le forze del mercato, le leggi della spontaneità e dell’iniziativa privata, di per sé non erano capaci di risolvere.
Non a caso il primo piano regolatore moderno che le storie dell’urbanistica ricordano è il piano di New York del 1811: proprio perché quel piano resprime in modo limpido (nella sua genesi, più che nella sua forma) questa ragione dell’urbanistica: anzi, della pianificazione urbanistica. Di un’urbanistica cioè che non vuole essere solo descrizione, racconto, analisi, ma vuole diventare azione: azione di regolazione della città e del territorio perché le cittadine e i cittadini possano vivere meglio, perché le aziende possano produrre meglio e vendere più facilmente.
Se ricordiamo questo (e credo che dobbiamo ricordarlo sempre quando parliamo di urbanistica) allora ci vengono alla mente due domande: perché l’urbanistica è sempre stata considerata, in Italia, una “materia” di sinistra? E perché oggi in Italia anche la sinistra sembra aver abbandonato l’urbanistica? Non è difficile – come a molti di voi è subito venuto in mente – rispondere alla seconda domanda: in molte cose la sinistra, parte larga della sinistra, ha abbandonato le proprie tradizionali parole d’ordine, i propri tradizionali principi. Ma a me interessa di è più, e comunque preliminarmente, rispondere alla prima domanda: perché in Italia l’urbanistica è sempre stata di sinistra?
Per comprenderlo bisogna ricordare il rapporto che c’è tra tre componenti del sistema sociale. Il tempo mi obbliga a essere schematico e approssimativo. Semplificando al massimo dirò che queste tre componenti sono la cittadinanza, l’impresa, la proprietà immobiliare. Continuando a essere schematico, possiamo far corrispondere queste tre figure sociali alle tre forme classiche di percezione del reddito: il salario, il profitto, la rendita.
Queste tre figure hanno visioni e interessi molto diversi a proposito di ciò che vogliono dalla città.
Il cittadino vuole abitare meglio, muoversi meglio, avere un livello il più alto possibile di vivibilità.
L’impresa vuole il massimo possibile di funzionalità: che le merci (ivi compresa la forza lavoro) arrivino il più velocemente possibile alla fabbrica o alla loro destinazione, che il prezzo delle merci che comprano (compresa la forza lavoro) siano i più bassi possibili (e quindi che le famiglie degli operai spendano poco per abitare, mangiare, vestirsi) e così via. Il terzo soggetto, la proprietà immobiliare, vuole invece che la sua proprietà ottenga il massimo possibile di valore (valore di scambio).
E’ evidente che - in questo schema logico – gli interessi di quello che abbiamo definito cittadino e quella che abbiamo definito azienda sono confluenti, mentre sono in contrasto con quelli del terzo soggetto, il proprietario immobiliare.
Ora il fatto è che in Italia l’alleanza che ha battuto l’ancienregime, l’alleanza che ha sconfitto le monarchie e il papato e ha fondato in Italia uno Stato unitario, non è stata l’alleanza tra borghesia e proletariato, ma è stata quella tra la borghesia capitalistica e le forze sociali che rappresentavano la proprietà fondiaria. Quindi, vedendo le cose dall’alto dei nostri giorni, possiamo dire che l’Unità d’Italia è stata fatta a spese della vivibilità e della funzionalità della città, e a spese delle cittadine e dei cittadini.
Così, quando in Italia la sinistra ha fatto proprie, sul terreno politico, le parole d’ordine, i tempi, le proposte, le pratiche della buona urbanistica (penso all’e “regioni rosse” negli anni Sessanta e Settanta, penso alle battaglie urbanistiche di Aldo Natoli nei primi anni Sessanta, all’intervento alla Camera di Mario Alicata dopo Agrigento nel 1966 – e giù giù fino all’intervento di Achille Occhetto contro il pasticcio della Fiat-Fondiaria a Firenze nel 1989) - quando la sinistra ha praticato la buona urbanistica non ha fatto altro che “raccogliere le bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango”.
Per comprendere il carattere e la qualità culturale e politica delle scelte urbanistiche il ruolo che viene assegnato alla proprietà immobiliare è una cartina di tornasole: è un indicatore efficacissimo della qualità della proposta. E allora dobbiamo dire che cui a Verona, che nel Veneto, che nell’Italia di oggi andiamo malissimo. Vorrei dirvi due parole sull’Italia di oggi.
Alla Camera, nel chiuso della Commissione parlamentare, sta procedendo (stancamente, ma tenacemente) la discussione del disegno di legge in materia di “governo del territorio”. Questa discussione vede la sostanziale convergenza delle proposte della “Casa delle libertà” e di quelle della parte maggioritaria del centro-sinistra: sostanzialmente, del disegno di legge dell’on. Lupi, di Forza Italia, e di quello dell’on. Mantini, della Margherita.
A me non preoccupa tanto la convergenza in sé, quanto il contenuto della convergenza. E il contenuto sta proprio nel sostanziale accordo sul nuovo ruolo da attribuire alla proprietà immobiliare nelle decisioni sul territorio.
La scelta più significativa è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati”.
Chi sono i “soggetti interessati”? Siamo in Italia, e sappiamo benissimo che i “soggetti interessati” nella pianificazione non sono i cittadini, non sono le associazioni ambientaliste, non sono i sindacati, ma sono i proprietari immobiliari. Sono loro che partecipano in prima persona alle scelte: dai tempi del “terzo sacco si Roma”, con le giunte democristiane fustigate dalla stampa liberale e democratica negli anni Cinquanta e Sessanta, ai mille episodi di Tangentopoli, a tutte le pratiche attivate negli ultimi dieci anni con i “progetti integrati”, i “programmi complessi”, e programmi complessi intergrati e innovativi” e così via. Fino a ieri la loro partecipazione era sottobanco, era un “peccato” che si cercava di nascondere, oggi sono riconosciuti come i motori della pianificazione urbanistica.
Nella concreta situazione italiana, le proposte quelle quali si sta trovando un consenso in Parlamento è questo: ciò l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.
Naturalmente oggi gli interessi immobiliari non sono più rappresentati dagli eredi dei grandi feudatari (come era, ad esempio, ai tempi del sacco di Roma denunciato dal Mondo e dall’Espresso negli anni 50 e 60) ma le banche, le industrie decotte, i grandi gruppi finanziari che arricchiscono più con le operazioni finanziarie e immobiliari che con le attività imprenditive. Possiamo dire che i nuovi interessi immobiliari sono in larga misura il prodotto del disfacimento del nostro sistema industriale.
Qui nel Veneto non si è avuto bisogno di una legge nazionale. L’articolo 6 della nuova legge urbanistica della Regione Veneto invita infatti le amministrazioni ad “assumere nella pianificazione proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse pubblico”, e questo accordo “costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede”.
Intendiamoci. Negare l’impostazione del rapporto pubblico/privato sotteso all’impostazione della Casa delle libertà non significa affatto negare la “contrattazione” (quella esplicita, non quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). Essa fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.
Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno di avere l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e magari contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?
E’ un sistema, quello della pianificazione, che funziona bene? Certo che no. Da molti decenni si propongono le modifiche necessarie. Ma i risultati sono stati raggiunti solo in parte molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire la destra sul suo terreno: senza tener conto del fatto che per la destra italiana l’obiettivo non è lo sviluppo dell’impresa, della produzione industriale di merci e di servizi, ma è la valorizzazione immobiliare, la rendita, l’accrescimento dei patrimoni che danno ricchezza solo a chi ne è proprietario, ma impoveriscono la collettività a la nazione.
Gli interventi che ascolteremo ci diranno in che modo qui a Verona si stia camminando su questa strada, se vi sono anticorpi che consentano di andare in direzioni diverse o che iniziative occorre prendere per ottenere che ci si incammini per strade diverse . più moderne, più europee, più vicine alle esigenze delle cittadine e dei cittadini di oggi e di domani.
Non sarebbe male che si costituisse un osservatorio che informi e documenti su come si sta trasformando la città, su come i diversi interessi (quelli delle cittadine e dei cittadini, quelli delle imprese, quelli della proprietà immobiliare) siano serviti dagli strumenti urbanistici che si stanno predisponendo. Come fanno da alcuni anni a Bologna, per esempio, gli urbanisti e i cittadini riuniti nella Compagnia dei Celestini.
E non sarebbe male che questi osservatori – o questi punti di osservazione – si mettessero in rete tra loro. So per esempio che a Padova si sta discutendo su alcune scelte di apportare varianti al PRG, o addirittura di autorizzare pesanti interventi in deroga, che consentono 50mila mc di edificabilità distruggendo uno dei residui “cunei verdi” del sistema stellare immaginato da Luigi Piccinato. E certo eventi analoghi stanno avvenendo anche nelle altre città.
Non sarebbe male, infine, che le forze politiche mettessero di nuovo al centro delle loro proposte e dei loro programmi la questione del governo del territorio: non per rincorrere su questo terreno quegli stessi interessi parassitari premiati dalla destra, ma per combatterli in nome di una città più giusta e più amica. Il giornale di RC, Liberazione, ha da tempo una lettera di alcuni assessori di Rifondazione comunista che propongono di aprire un dibattito vasto su questo tema. Io spero che Piero Sansonetti troverà presto un po’ di spazio per avviare questo dibattito. Sarebbe ora che la sinistra ricominciasse a scoprire che le questioni delle quali discutiamo oggi non sono questioni specialistiche, ma sono questioni rilevanti per tutti.